In relazione alla giurisprudenza penale sostanziale del primo trimestre 2020, si segnalano le seguenti pronunce della Corte di Cassazione.
Con riguardo al delitto di violenza sessuale, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 10596, pronunciata all'udienza del 19 marzo 2020 (deposito motivazioni in data 24 marzo 2020), ha preso in esame la questione relativa alla possibile rilevanza dell'assunzione volontaria, da parte della vittima, di sostanze alcoliche, ai fini del riconoscimento della circostanza aggravante di cui all'art. 609 ter, comma 1 n. 2 c.p..
Il giudizio di legittimità ha avuto origine dal ricorso presentato da un imputato avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello di Palermo aveva condannato il medesimo per i delitti di violenza sessuale aggravata dall'uso di sostanze alcoliche e stupefacenti e di sottrazione consensuale di minorenni.
Nella fattispecie, era stato accertato come l'imputato avesse indotto la persona offesa a subire atti sessuali di vario genere, anche orali ed anali, mediante un abuso delle condizioni di inferiorità psichica della stessa, in quanto affetta da un deficit psichico e cognitivo dovuto all'assunzione di bevande alcoliche e stupefacenti; inoltre, egli aveva minacciato ed allettato la vittima.
Con il proprio ricorso, l'imputato lamentava violazione di legge in relazione alla configurabilità, nella fattispecie, della circostanza aggravante dell'uso di sostanze alcoliche o stupefacenti.
Nel giudizio di merito, infatti, si era sì accertato un uso di sostanze di tal genere da parte della vittima, ma non contro la sua volontà, con la conseguente contrarietà del riconoscimento della circostanza di cui all'art. 609 ter, comma 1 n. 2 c.p. a quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità in relazione alla circostanza medesima.
L'imputato, inoltre, evidenziava come lo spinello assunto dalla persona offesa fosse stato alla medesima offerto da un'altra persona, senza che vi fossero elementi per ritenere che tale iniziativa fosse stata con lui concordata; come non vi fossero infine elementi per sostenere che l'assunzione della sostanza stupefacente da parte della vittima, che aveva avuto luogo molte ore prima del rapporto sessuale, fosse avvenuta per costrizione.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso presentato dall'imputato.
I giudici di legittimità hanno premesso, infatti, come risulti sì indiscutibile che la volontaria assunzione di sostanze alcoliche o stupefacenti determini la condizione di "inferiorità fisica o psichica" prevista dall'art. 609 bis comma 2 n. 1 c.p. al fine dell'integrazione del delitto di violenza sessuale, "in quanto anche in tali casi la situazione di menomazione della vittima, a prescindere da chi l'abbia provocata, può essere strumentalizzata per il soddisfacimento degli impulsi sessuali dell'agente".
Altrettanto indiscutibile - si è però affermato - è che tale evenienza non sia affatto idonea ad integrare la circostanza aggravante di cui all'art. 609 ter comma 1 n. 2 c.p. (che prevede la commissione della violenza "con l'uso di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti").
In primo luogo, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito come la circostanza aggravante in discorso si riferisca a fattispecie in cui l'assunzione delle sostanze alcoliche o stupefacenti sia stata indotta dall'autore del reato. In particolare, l'uso delle medesime "deve essere necessariamente strumentale alla violenza sessuale, ovvero deve essere il soggetto attivo del reato che usa l'alcol per la violenza, somministrandolo alla vittima" (o agevolandone la somministrazione), laddove, invece, l'uso volontario non incide sulla sussistenza dell'aggravante.
Tale affermazione - ha affermato il Collegio - si fonda su ragioni di ordine sia letterale sia sistematico.
L'art. 609 ter c.p., infatti, nel fare riferimento ai fatti commessi con l'uso di sostanze, accosta tale uso a quello delle armi, permettendo così di inferire come il legislatore abbia voluto porre ad oggetto di tale circostanza aggravante un utilizzo di tali sostanze atto a "costringere o indurre la vittima a compiere o subire atti sessuali", dando quindi luogo "ad una situazione diversa, e più grave, rispetto a quella in cui l'agente "si limita" ad approfittare di una situazione di inferiorità della persona offesa".
Stanti le circostanze di fatto accertate nel giudizio di merito - e sopra riportate con riferimento al contenuto del ricorso dell'imputato - la Corte di Cassazione ha pertanto ritenuto di escludere la circostanza aggravante di cui all'art. 609 ter comma 1 n. 2 c.p., annullando senza rinvio la sentenza impugnata con riferimento a tale circostanza, e rinviando gli atti alla Corte d'Appello di Palermo per la sola rideterminazione della pena.
In tema di continuazione, la Prima Sezione Penale della Suprema Corte, con la Sentenza n. 9528, pronunciata in data 14 gennaio 2020 (deposito motivazioni in data 10 marzo 2020), è tornata a pronunciarsi sul tema dell'applicazione di tale istituto in sede esecutiva ai sensi dell'art. 671 c.p.p..
Il giudizio di legittimità ha tratto origine dal ricorso presentato dal Procuratore della Repubblica di Rimini avverso la sentenza con cui il G.I.P. presso il Tribunale della medesima città, quale giudice dell'esecuzione, aveva accolto un'istanza volta ad ottenere il riconoscimento della continuazione tra due sentenze.
Il motivo di ricorso avanzato dal Procuratore era il seguente: il giudice dell'esecuzione, nell'accogliere l'istanza, aveva sì correttamente individuato la pena più grave nell'ambito di una sentenza di condanna per due delitti (già a loro volta unificati ex art. 81 c.p.); tuttavia, nell'unificare a tali reati un terzo delitto separatamente giudicato con altra pronuncia di condanna, aveva, a detta del ricorrente, commesso un errore nella determinazione della pena. Egli non aveva, infatti, rispettato l'aumento per il reato satellite già stabilito dal giudice della cognizione con la prima sentenza, riducendo l'entità del corrispondente aumento di pena; aveva, poi, aggiunto l'aumento di pena per il delitto separatamente giudicato, riducendo, anche in questo caso, l'importo della sanzione in precedenza stabilita. L'effetto di tale forma di applicazione della continuazione era stato così quello, giudicato "aberrante" dal Procuratore della Repubblica, di aver stabilito una pena finale corrispondente a quella determinata dal giudice della cognizione nella sola sentenza avente ad oggetto la violazione più grave.
La Corte di Cassazione ha stabilito come l'istituto processuale del riconoscimento della continuazione in sede esecutiva non consenta al giudice competente di prescindere dal giudizio espresso dal giudice della cognizione, nel caso in cui "il reato più gravemente punito, tra quelli da unificare, sia stato già riconosciuto dallo stesso giudice in continuazione con altre violazioni con la corrispondente determinazione di aumenti non più revocabili".
In altri termini, nell'applicazione della disciplina del reato continuato in sede esecutiva, il giudice è vincolato:
1) a considerare come violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave, ai sensi dell'art. 187 disp. att. c.p.p.;
2) a rispettare gli aumenti di pena determinati nella sentenza di condanna per la violazione più grave, allorché essa sia già stata riconosciuta in continuazione con altri reati.
Pertanto - hanno stabilito i giudici di legittimità - nell'ipotesi in cui il riconoscimento della continuazione rispetto a reati separatamente giudicati si innesti su di una precedente continuazione, già riconosciuta in sede cognitiva, restano fermi gli aumenti di pena relativi ai reati satelliti già giudicati in continuazione con la violazione più grave, e l'autonoma determinazione della pena effettuata dal giudice dell'esecuzione avrà ad oggetto i soli "nuovi" reati, unificati ai precedenti dallo stesso giudice.
La Prima Sezione ha pertanto stabilito, in tema di continuazione, il seguente principio di diritto: "In sede di applicazione della disciplina del reato continuato, a norma dell'art. 671 c.p.p., quando la pena più grave è inerente ad una violazione già ritenuta nella sentenza di condanna in continuazione con altri reati, il giudice dell'esecuzione non può determinare aumenti di pena diversi da quelli stabiliti dal giudice della cognizione nella medesima sentenza, fermo restando il suo potere di autonoma determinazione degli incrementi di pena per gli ulteriori reati satelliti, separatamente giudicati e riconosciuti in continuazione con i primi, nel rispetto dei limiti statuiti in materia dagli artt. 81 e 671 c.p.p.".
Sulla base di tali motivazioni, la Corte di Cassazione ha disposto l'annullamento dell'ordinanza impugnata, con rinvio per nuovo esame al Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Rimini.
In tema di peculato, la Sesta Sezione Penale della Suprema Corte, con la Sentenza n. 11003, pronunciata in data 4 febbraio 2020 (deposito motivazioni in data 1 aprile 2020), ha preso in esame la questione relativa alla sussistenza di tale reato nell'ipotesi in cui la fattispecie abbia ad oggetto un'entità irrisoria di beni oggetto di appropriazione.
Il giudizio di legittimità è stato introdotto dal ricorso di un imputato, dirigente medico di un presidio ospedaliero, il quale era stato condannato in entrambi i giudizi di merito per il reato di peculato continuato, per essersi appropriato, ricoprendo la posizione di incaricato di pubblico servizio, di somme di denaro, di importo oscillante tra i 50 ed i 200 euro, non fatturate e ricevute direttamente da alcuni pazienti per le sue prestazioni professionali, ed omettendone poi il versamento nelle casse dell'Azienda sanitaria; egli aveva infatti concordato con il Presidio ospedaliero lo svolgimento di attività libero-professionale cd. "intra-moenia" in forma "allargata", ai sensi dell'art. 72 comma 7 l. 448/98.
Con uno dei motivi di ricorso, l'imputato lamentava violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'accertamento dell'elemento soggettivo del reato di peculato: alla luce di quanto emerso dal dibattimento, infatti, in soli tre casi, su di un totale di circa seicento interventi, aveva avuto luogo la condotta di appropriazione, per un valore comunque non superiore a poche centinaia di euro.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell'imputato, affermando l'effettiva carenza di motivazione con riferimento all'elemento psicologico del delitto di cui all'art. 314 c.p.. In presenza, infatti, di quella che appariva quale una mera negligenza, i giudici di merito avrebbero dovuto escludere la coscienza e volontà delle condotte appropriative, tenendo conto, in particolare, delle seguenti circostanze:
- la provata esiguità delle somme di denaro non versate;
- il fatto che solo tre pazienti avessero dichiarato di aver saldato quanto dovuto senza ricevere alcuna fattura per le somme corrisposte;
- l'assenza di adeguati riscontri circa il comportamento tenuto dall'imputato in relazione ai compensi percepiti da tutti gli altri pazienti destinatari delle sue prestazioni professionali; la Corte d'Appello di Catania, a questo riguardo, aveva infatti, da un lato, ammesso l'assenza di qualsiasi elemento di riscontro, in un senso o nell'altro, con riguardo a tutti gli altri pazienti visitati e, dall'altro, non aveva, illogicamente, escluso la presenza di un eventuale riscontro di anomalie in tali altri casi.
I giudici di legittimità hanno inoltre ritenuto come i colleghi di merito avessero ricavato la prova del dolo attraverso il travisamento delle dichiarazioni rese dall'imputato, il quale si era limitato ad affermare come "potesse capitare di omettere il versamento di quanto ricevuto, trattandosi di tre persone in tre anni": tale omissione da parte del sanitario corrispondeva, infatti, ad una quantità insignificante dei casi trattati dal medesimo, con la conseguente impossibilità di ricavare da tali asserzioni elementi a sostegno della sussistenza di una coscienza e volontà del medesimo nel tenere tali condotte.
Sulla base di tali motivazioni, la Corte di Cassazione ha disposto l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte d'Appello di Catania.