giovedì 21 maggio 2020

Sicurezza sul lavoro: la prescrizione del delitto di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro (art. 437 c.p.) nel processo "Ilva".

In materia di sicurezza sul lavoro, la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 7564, pronunciata all'udienza del 4 febbraio 2020 (deposito motivazioni in data 26 febbraio 2020), ha preso in esame il tema relativo alla prescrizione del delitto di cui all'art. 437 c.p., concernente la rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro.

Il giudizio di legittimità ha avuto luogo in relazione ai procedimenti penali, in seguito riuniti, instaurati dalla Procura della Repubblica di Taranto nei confronti di trenta imputati che avevano rivestito le qualità di datori di lavoro o di dirigenti dello stabilimento siderurgico Ilva. A loro carico erano stati elevati due ordini di imputazioni, concernenti l'uno l'omicidio o le lesioni colpose di sedici lavoratori, a causa dell'esposizione degli stessi a svariate sostanze nocive; l'altro, i delitti di cui agli artt. 437, commi 1 e 2, 449, in relazione all'art. 434 c.p. e 2087 c.c., nonché, nuovamente, l'omicidio colposo ex art. 589 comma 2 c.p., per aver omesso di porre in essere adeguate cautele volte ad evitare il pericolo dell'esposizione dei lavoratori all'inalazione di fibre di amianto. Proprio da questa esposizione era derivato il disastro consistente nello sviluppo di patologie tumorali in quindici lavoratori, deceduti a causa di tali malattie.

Per quanto qui di interesse, la Sentenza della Quarta Sezione sopra menzionata ha avuto come destinatari due degli imputati di tale processo, che ricoprivano i ruoli, l'uno, di vice-presidente e consigliere delegato del consiglio di amministrazione dell'impresa siderurgica e l'altro di direttore di stabilimento, e le cui posizioni erano state oggetto di stralcio da parte di una prima sentenza della Corte di Cassazione a causa di irregolarità delle comunicazioni. La Corte d'Appello di Lecce aveva assolto uno dei due imputati dal delitto di omicidio colposo nei confronti di due lavoratori ed aveva dichiarato non doversi procedere in relazione al delitto di cui all'art. 437 comma 1 c.p. (con esclusione dell'aggravante di cui al secondo comma), la cui prescrizione, secondo i giudici d'appello, era maturata già al momento della sentenza di primo grado, con la conseguente eliminazione di tutte le statuizioni civili a carico dell'imputato. La Corte d'Appello aveva inoltre individuato il momento di decorrenza della prescrizione nella data della cessazione dell'attività di uno dei due lavoratori deceduti, per cui era stata pronunciata sentenza assolutoria. 

Avverso tale sentenza, il Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Lecce aveva proposto ricorso per cassazione, lamentando l'erroneità della dichiarazione di prescrizione del reato di cui all'art. 437 c.p. a carico di tale imputato. In particolare, il ricorrente sosteneva come non fosse corretto individuare il dies a quo della causa estintiva nel momento di cessazione dell'attività dei lavoratori deceduti, laddove, per tutti gli altri imputati, tale termine era stato ritenuto coincidente con quello di cessazione della carica e della posizione di garanzia. Peraltro, stante l'assoluzione dal delitto di omicidio colposo nei confronti di tali lavoratori, doveva ritenersi irrilevante la data di cessazione dell'attività dei medesimi, al fine di individuare il momento di consumazione del delitto di cui all'art. 437 c.p..

La Corte di Cassazione ha giudicato erronea l'individuazione del dies a quo del termine di prescrizione del delitto contestato: la Corte d'Appello non ha infatti tenuto conto, nella fattispecie, della natura permanente del delitto di cui all'art. 437 c.p., allorché esso consista nell'omissione, e non nella rimozione, delle cautele volte ad impedire il verificarsi di infortuni sul lavoro. Tale permanenza, inoltre, cessa o nel momento in cui viene collocato il dispositivo la cui adozione era stata omessa o quando esso non sia più utilmente collocabile oppure, nell'ipotesi di reato proprio, al momento della cessazione dalla posizione di garanzia, come affermato dalla stessa Quarta Sezione Penale della Suprema Corte con la Sentenza n. 16715/18.

Il dies a quo, pertanto, non doveva essere individuato nella data di cessazione dell'attività lavorativa di uno dei dipendenti deceduti: la morte del medesimo - si era accertato - non era stata infatti conseguenza del mesotelioma, e quindi neppure della condotta tenuta dall'imputato. Il momento di cessazione dell'attività lavorativa poteva infatti avere rilievo esclusivamente in relazione alle vittime il cui decesso era stato conseguenza dell'omissione della predisposizione delle cautele, con riferimento, inoltre, alla fattispecie aggravata del delitto di cui all'art. 437 c.p., che era invece stata esclusa nei confronti dell'imputato.

Tanto premesso, la Corte, al fine di individuare il corretto momento di maturazione della causa estintiva, ha quindi ripercorso i più fondamentali principi in tema di prescrizione dei reati permanenti, evidenziando che:

a) qualora una condotta si protragga sotto la vigenza di due differenti leggi incidenti sul termine prescrizionale, deve essere applicata solo quella in vigore al momento della cessazione della permanenza;

b) per quanto riguarda l'individuazione del dies a quo del termine prescrizionale, un consolidato orientamento giurisprudenziale ha stabilito che la permanenza di un reato non può ritenersi esaurita necessariamente nel momento dell'accertamento dell'illecito. Conseguentemente, il giudice non può rilevare la prescrizione del reato, individuando il momento di decorrenza della medesima nella data dell'accertamento, senza aver previamente verificato la cessazione in concreto della permanenza in tale data, in relazione agli artt. 157 e 158 c.p.; 

c) qualora la contestazione del reato permanente avvenga mediante la sola indicazione della data dell'accertamento del medesimo, sarà necessario distinguere tra reati necessariamente permanenti e reati eventualmente permanenti, in quanto:

c1) in relazione ai primi, il momento della loro consumazione va collocato al momento della decisione di primo grado;

c2) in relazione ai secondi, invece, il tempus commissi delicti sarà individuato nel momento della pronuncia di primo grado (o in quello minore, emergente dagli atti), senza necessità di effettuare contestazioni suppletive, solo nell'ipotesi in cui risulti dalla sentenza, dagli atti processuali o da prove logiche il protrarsi della permanenza fino ad un momento successivo a quello della contestazione riferita alla data dell'accertamento; viceversa, nell'ipotesi in cui non risulti alcunché dagli atti, il momento di decorrenza della causa estintiva andrà collocato in quello della contestazione;

d) un ulteriore orientamento giurisprudenziale (II Sez., 55164/18) ha tuttavia operato una distinzione con riferimento all'ipotesi in cui l'imputazione concernente un reato permanente indichi il tempus commissi delicti mediante una "formula chiusa", ossia con la precisazione della data di cessazione della condotta illecita. In questa fattispecie, infatti, il termine prescrizionale decorre da tale data, anziché da quella di pronuncia della sentenza di primo grado, mentre eventuali condotte successive che determinino il mantenimento della situazione antigiuridica potranno essere oggetto di un altro procedimento penale.

In definitiva, pertanto, al fine dell'individuazione del termine di prescrizione dei reati permanenti, riveste decisiva importanza la contestazione effettuata dal Pubblico Ministero. Infatti, qualora da essa si evinca che il reato permanente sia ancora in corso, il termine di decorrenza della prescrizione dovrà essere differito sino al momento di pronuncia della sentenza di primo grado, ovvero ad un differente momento in cui si sia accertata la cessazione della permanenza. 
Nell'ipotesi, invece, in cui il Pubblico Ministero abbia delimitato, mediante l'adozione di una "formula chiusa", la condotta punibile, il predetto termine decorrerà da tale data, mentre la prosecuzione della condotta antigiuridica potrà essere oggetto di un'ulteriore, separata contestazione nell'ambito di altro procedimento penale, oppure, se ne ricorrono i presupposti, potrà essere contestata tramite una modifica dell'imputazione nell'ambito del medesimo procedimento penale.
Infine - hanno osservato i giudici di legittimità - l'indicazione, nel capo d'imputazione della data finale della condotta, mediante l'uso delle espressioni "fino ad oggi" o "tutt'ora", comporta che la contestazione comprenda la sola porzione del fatto precedente al rinvio a giudizio; mentre la contestazione contenuta nel decreto che dispone il giudizio, che faccia uso delle medesime espressioni, delimita la durata della contestazione e, di conseguenza, la cessazione della permanenza al momento della formulazione dell'accusa.

Infine, la Corte ha osservato come il tema relativo alla contestazione del reato permanente sia connesso con quello del ne bis in idem processuale: solo, infatti, nell'ipotesi in cui il fatto giudicato ricomprenda tutte le condotte accertate sino al momento della pronuncia della sentenza di primo grado, può ritenersi sussistente una preclusione alla celebrazione di un nuovo giudizio in relazione a tale periodo. Qualora, invece, la contestazione faccia riferimento ad una data finale precisamente indicata, non sarà precluso un nuovo giudizio relativo alle condotte successive a tale momento.

In relazione alla fattispecie oggetto di giudizio, la Corte ha rilevato come si debba porre in rilievo l'uso di una "formula chiusa", attraverso l'indicazione di una precisa data finale della contestazione (il 1 gennaio 2010); non sono invece emerse, hanno rilevato i giudici di legittimità, né la precedente collocazione di cautele contro gli infortuni sul lavoro né la cessazione dalla carica dell'imputato in data antecedente.
Il dies a quo del termine prescrizionale è stato quindi individuato, in ossequio ai principi sopra esposti, nella data finale della contestazione; la maturazione della causa estintiva è stata invece ricollocata successivamente alla sentenza di primo grado, circostanza che ha determinato, contestualmente all'annullamento della sentenza d'appello in ordine alla dichiarazione della prescrizione, la reviviscenza delle statuizioni civili contenute nella sentenza di primo grado.