martedì 19 maggio 2020

Sicurezza sul lavoro e decesso per mesotelioma del lavoratore esposto ad amianto: la Corte di Cassazione conferma il superamento della teoria dell'effetto acceleratore ed enuncia differenti criteri su cui fondare la prova del nesso di causa.

In materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 12151, pronunciata all'udienza del 30 gennaio 2020 (deposito motivazioni in data 15 aprile 2020), ha preso in esame il tema relativo al nesso di causa tra l'omissione, da parte del datore di lavoro, dell'adozione di misure precauzionali volte ad impedire l'esposizione del lavoratore all'inalazione di fibre di amianto e la morte del medesimo, dovuta allo sviluppo di un mesotelioma pleurico maligno.

Il giudizio di legittimità ha tratto origine dal ricorso presentato da due imputati, legali rappresentanti di un'impresa, avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello di Torino aveva confermato la loro penale responsabilità per il delitto di omicidio colposo, commesso, in cooperazione, ai danni di un'operaia addetta alle mansioni di smontaggio e montaggio di arredi e veicoli ferroviari. Ai due imputati era stato contestato di aver omesso di predisporre misure idonee ad impedire la diffusione e l'inalazione di fibre di amianto nei luoghi di lavoro, in violazione degli artt. 4, 19 e 21 del D. Lgs. 81/08 e 2087 c.c..

Con uno dei motivi di ricorso, gli imputati contestavano la sussistenza di un nesso di causa tra le proprie condotte e l'evento mortale.
In particolare, nel contestare che, sulla base delle emergenze processuali, fosse possibile affermare con la necessaria certezza la derivazione professionale della patologia di cui aveva sofferto la vittima, i ricorrenti lamentavano l'erroneità del principio giuridico sulla cui base, a loro dire, la Corte d'Appello aveva fondato la prova del nesso di causa.
I giudici di merito avrebbero infatti affermato, sulla base di un'indimostrata "significativa" esposizione della lavoratrice alle fibre di amianto, un'equazione tra la presenza di asbesto nei luoghi di lavoro e l'insorgenza della patologia tumorale; con ciò facendo ricorso ad un criterio di causalità "probabilistica" e non "individuale". 
Tale assunto, tuttavia, sarebbe contrario ai principi stabiliti, in materia, dalla giurisprudenza di legittimità. 
La Corte di Cassazione, infatti, aveva, da un lato, affermato "l'obbligo del giudice di fondare l'accertamento del nesso causale sulla "legge di copertura" riconosciuta, maggiormente accreditata dalla comunità scientifica in ordine alla cancerogenesi derivata dall'esposizione nociva" (il riferimento è operato, in particolare alla Sentenza c.d. "Montefibre bis", n. 12175/17, oltre che alla Sentenza Cozzini n. 43786/10).
Dall'altro, i giudici di legittimità avevano ritenuto priva di fondamento scientifico, stante l'assenza di una generalizzata condivisione nella letteratura internazionale, la c.d. "teoria dell'effetto acceleratore": secondo tale, nota, teoria, la prosecuzione dell'esposizione del lavoratore alle fibre di amianto dopo l'originarsi della patologia tumorale determinerebbe un'accelerazione dello sviluppo della malattia e un'anticipazione dell'evento mortale. L'esposizione alle sostanze nocive avrebbe, pertanto, una sicura rilevanza causale rispetto all'evento.

I Giudici della Quarta Sezione hanno rigettato tale motivo di ricorso. Essi hanno, infatti, rilevato, come la motivazione resa dalla Corte d'Appello circa la natura professionale dell'esposizione alle fibre di amianto sia, alla luce delle emergenze processuali, logica e priva di contraddizioni; inoltre, non hanno condiviso l'assunto difensivo relativo alla semplice equazione che i giudici di merito avrebbero affermato tra la presenza di asbesto nell'ambiente lavorativo e l'insorgenza della patologia tumorale.
La Corte ha quindi confermato il superamento, ormai consolidato in giurisprudenza, della predetta teoria dell'effetto acceleratore, ma ha osservato come essa, a differenza di quanto sostenuto dagli imputati, non sia stata posta dalla Corte d'Appello alla base della propria motivazione.

La Corte torinese aveva infatti, ed innanzitutto, ritenuto accertata l'esposizione all'amianto mediante prova testimoniale, a ciò essendo legittimata da un importante principio espresso dalla stessa Quarta Sezione Penale della Suprema Corte (n. 16715/18), secondo il quale:
"In tema di patologie asbesto-correlate, l'esistenza e l'entità dell'esposizione ad amianto può essere dimostrata anche attraverso la prova testimoniale, in quanto il vigente sistema processuale penale non conosce ipotesi di prova legale e, anche nei settori in cui sussistono indicazioni normative di specifiche metodiche per il rilievo di valori soglia, il relativo accertamento può essere dato con qualsiasi mezzo di prova".

I giudici d'appello avevano poi, da un lato, correttamente osservato come la vittima avesse prestato il proprio lavoro presso l'impresa degli imputati lungo l'intero arco della sua vita professionale; dall'altro come le polveri nocive fossero presenti ovunque nei reparti produttivi dell'impresa, compreso quello in cui operava la persona offesa, quantomeno fino al 1984, data anteriormente alla quale era risultato come gli imputati non avessero predisposto alcun sistema di aspirazione.
Pertanto, il legame causale tra la presenza di asbesto e lo sviluppo del mesotelioma era stato ragionevolmente fondato dalla Corte d'Appello:
1) sull'esclusione, da parte degli esperti, di cause diverse della patologia, di origine non professionale;
2) sul dato della prestazione, da parte della vittima, della propria attività lavorativa, per la sua intera durata, nel medesimo stabilimento della società della quale erano stati legali rappresentanti, in quell'intero periodo, i due imputati.

I giudici torinesi, lungi dall'aver utilizzato un mero criterio di "causalità individuale", non avevano perciò mancato di ricorrere ad una "legge di copertura" universalmente condivisa dalla comunità scientifica. Essi avevano affermato il nesso di causa tra la presenza dell'asbesto nell'ambiente di lavoro in cui operava la persona offesa e l'insorgere della patologia tumorale non sulla base della teoria dell'effetto acceleratore; al contrario, tale valutazione si era fondata sull'accertata assenza di una qualunque spiegazione causale alternativa circa l'originarsi del mesotelioma, e per mezzo di un giudizio "formulato sulla causalità individuale, in quanto verificato in relazione alla singola vicenda".

La Corte di Cassazione ha quindi ritenuto di ribadire il seguente principio di diritto, già affermato, dalla medesima sezione, con la Sentenza n. 25532/19:
"In tema di rapporto di causalità tra esposizione ad amianto e morte del lavoratore per mesotelioma, ove con motivazione immune da censure la sentenza impugnata ritenga impossibile l'individuazione del momento di innesco irreversibile della malattia, nonchè causalmente irrilevante ogni esposizione successiva a tale momento, ai fini del riconoscimento della responsabilità dell'imputato è necessaria l'integrale o quasi integrale sovrapposizione temporale tra la durata dell'attività lavorativa della singola vittima e la durata della posizione di garanzia rivestita dall'imputato nei confronti della stessa".

Stante il ricorrere di entrambe le condizioni richieste da tale principio nella fattispecie concreta, la Corte di Cassazione ha quindi confermato la sussistenza di un nesso di causa tra la condotta omissiva degli imputati e l'evento mortale occorso ai danni della lavoratrice.
Rilevata l'infondatezza, altresì, delle ulteriori doglianze proposte, il Collegio ha pertanto rigettato il ricorso presentato dagli imputati.