La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 50944, pronunciata all'udienza del 13 settembre 2019 (deposito motivazioni in data 17 dicembre 2019), ha preso in esame il tema relativo alla responsabilità del direttore amministrativo di una residenza sanitaria assistenziale (c.d. R.S.A.) per il delitto di abbandono di persone incapaci ex art. 591 c.p..
Il giudizio di legittimità è stato introdotto dal ricorso presentato da un imputato, direttore amministrativo di una R.S.A., avverso la sentenza con cui la Corte d'Assise d'Appello di Firenze aveva parzialmente riformato la pronuncia di assoluzione emessa dal Giudice dell'Udienza Preliminare presso il Tribunale di Lucca nei confronti del ricorrente e di altri coimputati (invece assolti dalla Corte territoriale), per il delitto di cui all'art. 591 c.p..
All'imputato era stato contestato di aver omesso di adottare le cautele necessarie per impedire che un ospite della struttura, persona incapace di provvedere a se stessa a causa di una malattia mentale, si togliesse la vita lanciandosi da un balcone sito al secondo piano dell'edificio, dopo aver più volte minacciato di compiere un gesto suicidario. L'ospite era proveniente da un reparto di psichiatria ospedaliero, ove era stato ritenuto come fosse intervenuto un miglioramento del quadro psicopatologico.
Con il proprio ricorso, l'imputato contestava, innanzitutto, la sussistenza dell'elemento soggettivo del delitto di cui all'art. 591 c.p., consistente: nella consapevolezza circa la condizione di incapacità del soggetto passivo; nella coscienza e volontà dello stato di abbandono in cui il medesimo versa; infine, nella rappresentazione e volontà del pericolo incombente sull'incolumità e sulla vita della persona offesa, rischio derivante da tale stato di abbandono.
Il ricorrente sosteneva, al riguardo, di non aver avuto in alcun modo percezione del pericolo gravante sulla persona offesa, stante il giudizio espresso dai medici psichiatri del Pronto Soccorso di una struttura ospedaliera ove l'imputato aveva inviato per ben cinque volte l'ospite della stuttura, a seguito, tra l'altro, di due tentativi di suicidio da egli posti in essere. I sanitari avevano infatti escluso che vi fosse un concreto rischio di autolesionismo da parte del paziente, confermando il giudizio di compatibilità delle sue condizioni con la permanenza presso una struttura assistenziale anzichè psichiatrica. La persona offesa era stata altresì visitata due volte presso la stessa R.S.A., e nessuna prescrizione avente ad oggetto cautele particolari nelle modalità di custodia ed assistenza del paziente era stata impartita dai sanitari, i quali avevano esclusivamente indicato una modifica della terapia domiciliare.
Nessuna coscienza di un pericolo incombente poteva essere percepita neppure dal personale infermieristico, il quale aveva annotato nel proprio registro come il paziente si presentasse costantemente tranquillo.
In secondo luogo, l'imputato affermava l'insussistenza sia della coscienza sia della volontà di abbandonare il soggetto incapace. Egli aveva infatti provveduto a disporre la chiusura della porta finestra della stanza del paziente e lo aveva tempestivamente soccorso in occasione dei tentativi di suicidio, richiedendo, in più occasioni, consulti psichiatrici; l'assistenza infermieristica, inoltre, era stata continua.
Altra circostanza di particolare importanza era da individuarsi nell'aver l'imputato inviato una missiva all'U.V.M. del Presidio Distrettuale della struttura ospedaliera, rappresentando l'inadeguatezza della R.S.A. a continuare ad accogliere il paziente, stanti i continui episodi di autolesionismo, e chiedendo pertanto, ancora una volta, di valutare la degenza del medesimo, con assistenza mirata e continuativa in strutture adeguate.
L'elemento soggettivo del dolo, caratterizzante il delitto contestato, doveva quindi ritenersi insussistente: le ulteriori misure ritenute necessarie dalla Corte d'Assise d'Appello, quali la chiusura delle porte d'accesso a tutti i terrazzi, il collocamento del paziente ad un piano inferiore o la predisposizione di una doppia ringhiera potevano, al più, fondare un rimprovero di colpa, anche cosciente, ma non certo il dolo di abbandonare il soggetto incapace.
D'altra parte, il ricorrente evidenziava come i propri poteri di organizzazione della struttura, relativi all'obbligo di custodia degli ospiti (obbligo discendente dalla posizione di garanzia assunta nei loro confronti con l'accoglienza all'interno della residenza), fossero comunque da considerarsi del tutto vincolati. Le normative di settore, relative alla custodia dei soggetti non autosufficienti, ed in particolare il D.P.C.M. 22 dicembre 1989, descrivono la R.S.A. come una tipologia di residenza destinata ad accogliere soggetti non autosufficienti portatori di patologie geriatriche e neuropsichiatriche stabilizzate, i quali non possono essere assistiti a domicilio, e che necessitano di specifiche cure mediche di più specialisti, nonchè di un'articolata assistenza sanitaria. Tale regime, contrariamente a quanto asserito dalla Corte territoriale, vieta infatti la coazione strutturale e lo sbarramento di porte e finestre, limitante la liberta di movimento degli ospiti.
La Corte di Cassazione ha ritenuto opportuno premettere una ricognizione degli esiti delle più importanti e consolidate affermazioni giurisprudenziali a proposito degli elementi costitutivi del delitto contestato al ricorrente.
A proposito dell'elemento oggettivo del reato, la giurisprudenza di legittimità ha affermato quanto segue:
1) esso è integrato da qualunque condotta, sia attiva sia omissiva, non rispettosa del dovere giuridico di cura e di custodia gravante sul soggetto agente; da tale condotta deve derivare uno stato di pericolo, anche solo potenziale, per la vita o per l'incolumità del soggetto passivo;
2) per quanto concerne la fonte del dovere di cura e di custodia, nessun limite si pone nell'individuazione di essa: può trattarsi di norme giuridiche di ogni natura, di convenzioni pubbliche o private, di regolamenti o legittimi ordini di servizio, in ogni condizione ed in ogni fase della vita umana. E' stato pertanto affermato come "ad ogni situazione che esige detta protezione fa riscontro uno stato di pericolo che esige un pieno attivarsi, sicchè ogni abbandono diventa pericoloso e l'interesse risulta violato quando la derelizione sia anche solo relativa o parziale";
3) il dovere di custodia in capo al soggetto agente può sorgere, comunque, non solo da obblighi giuridici formali, ma anche dall'esistenza di una mera situazione di fatto, tale per cui "il soggetto passivo sia entrato nella sfera di disponibilità e di controllo dell'agente"; lo stesso non può invece dirsi a proposito del dovere di cura, derivante da relazioni originate esclusivamente da valide fonti giuridiche formali.
Quanto invece all'elemento soggettivo del delitto di abbandono di persone incapaci, le caratteristiche del medesimo possono essere riassunte in questo modo:
1) il dolo è generico, e consiste nella coscienza di abbandonare il soggetto passivo, incapace di provvedere a se stesso, in una situazione di pericolo della quale è necessario avere un'esatta percezione, rimanendo invece del tutto irrilevante un eventuale malanimo del soggetto agente;
2) il dolo può altresì presentarsi nella forma eventuale, qualora risulti che il soggetto agente persista nella condotta omissiva, accettando il rischio che l'evento si verifichi, pur dopo essersi rappresentato, come conseguenza di tale inerzia, la concreta possibilità del verificarsi di uno stato di abbandono della persona offesa, tale da determinare un pericolo, anche potenziale, per la vita e l'incolumità fisica della medesima.
Tanto premesso in relazione al delitto contestato, la Corte, in relazione alla fattispecie concreta, ha innanzitutto escluso che in capo al direttore amministrativo di una R.S.A. possa gravare un dovere di cura, non essendo egli nè Direttore sanitario nè medico (nel caso specifico, con competenze di natura psichiatrica), ed ha pertanto preso esclusivamente in esame il contenuto del dovere di custodia.
Le fonti normative al riguardo sono da individuarsi nella l. 67/88 e nel D.P.C.M. 22/12/89. A questo riguardo, i giudici di legittimità hanno categoricamente escluso che il dovere in oggetto possa comprendere qualunque forma di prescrizione cautelativa nè, tantomeno, di contenzione meccanica, mediante la predisposizione di presidi che riducono o controllano i movimenti del paziente. A proposito di quest'ultima, la Corte ha ricordato come tale pratica, non costituendo un presidio terapeutico, ma esclusivamente cautelare, sia utilizzabile in via del tutto eccezionale, al solo ricorrere dei presupposti dello stato di necessità di cui all'art. 54 c.p., il contenuto dei quali deve essere indicato dal sanitario in cartella clinica; in questo senso si è infatti pronunciata nel 2018 la Quinta Sezione Penale della Suprema Corte nella Sentenza Di Genio n. 50497, ove si è affermato che l'uso della contenzione, al di fuori di tali rigidi presupposti, integra il delitto di sequestro di persona.
D'altra parte - si è aggiunto - la l. 180/78 ha segnato, come noto, il definitivo abbandono del modello c.d. custodialistico della cura nel trattamento dei pazienti psichiatrici; esso deve quindi, a maggior ragione, essere considerato del tutto estraneo alle strutture sanitarie assistenziali, destinate ad accogliere pazienti che, pur non essendo autosufficienti, sono sufficientemente "compensati". La giurisprudenza di legittimità aveva, d'altronde, preso atto, già con la sentenza Belpedio n. 4407/98 di tale mutamento, in relazione ad una clinica presso la quale un paziente psichiatrico si trovi ricoverato in trattamento sanitario non obbligatorio; si era infatti ivi affermato (seppur con riferimento alla posizione del direttore sanitario della struttura) come il soggetto obbligato "non sia tenuto a porre in essere coazioni di tipo strutturale, che creino condizioni di isolamento esterno ed interno con l'anacronistico sbarramento di porte e finestre". Il trattamento sanitario non obbligatorio di persone incapaci comporta, infatti, che "la custodia del malato, finalizzata a soddisfare esigenze di ordine individuale, sociale e giuridico, comprese quelle di prevenzione di atti autolesivi ed eterolesivi, deve essere conciliata con la libertà terapeutica e la dignità del malato". Pertanto, in tale fattispecie, si era ritenuto legittimo "trattenere il soggetto che manifesti, anche con la fuga, l'intenzione di allontanarsi dal luogo di ricovero volontario, facendo ricorso alla forza fisica quale "brevis et modica vis", imposta dalle circostanze, per sottrarre l'incapace al pericolo di gravi danni e per pretendere la sottoscrizione dell'atto di formale interruzione della degenza contro la volontà del medico".
Stanti tali presupposti, la Corte ha pertanto affermato come le condotte ritenute doverose dalla Corte d'Assise d'Appello, in quanto idonee ad evitare l'evento, oltre ad essere estranee, così come declinate dai giudici di merito, alla struttura della responsabilità penale dolosa, non potevano essere considerate appartenenti al novero dei legittimi poteri riconosciuti al direttore di una residenza sanitaria assistenziale. Esse avrebbero infatti limitato la libertà di movimento degli altri ospiti della struttura, rappresentando una funzione custodialistica, dalle caratteristiche ormai estranee persino alle strutture ospedaliere psichiatriche.
I giudici di legittimità hanno pertanto riconosciuto, da un lato, nella condotta dell'imputato, l'insussistenza del dolo del delitto ad egli contestato, stante l'assenza di percezione di un pericolo incombente sul paziente; l'imputato, infatti, privo di competenze mediche, aveva legittimamente preso atto del giudizio dei medici psichiatri, i quali avevano escluso la necessità di un ricovero e di un'assistenza continuativa presso altre strutture, maggiormente adeguate.
D'altro canto, la Corte ha ritenuto difettare nel caso concreto, anche la ricorrenza dello stato di abbandono proprio del delitto di cui all'art. 591 c.p.. Tale concetto, infatti, ha aggiunto il Collegio, non può essere esteso fino al punto da pretendere che venga posta in essere una custodia a vista. La condotta dell'imputato è stata pertanto ritenuta pienamente conforme a quella esigibile dal direttore amministrativo di una residenza sanitaria assistenziale, con conseguente insussistenza del fatto di reato ad egli contestato.
Sulla base di tali motivazioni, la Corte di Cassazione ha pertanto annullato senza rinvio la sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Firenze per insussistenza del fatto. I giudici di legittimità non hanno però mancato di stigmatizzare il mancato avvio di un procedimento penale nei confronti dei medici psichiatri che avevano preso in carico la vittima, e nella condotta dei quali erano stati ravvisati profili di negligenza già da parte del giudice di primo grado; ciò malgrado il noto principio giurisprudenziale in tema di responsabilità del medico psichiatra, il quale "è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, anche se questi non sia sottoposto a ricovero coatto, ed ha pertanto l'obbligo, quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidarie, di apprestare specifiche cautele".