La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 27504, pronunciata all'udienza del 1 luglio 2025 (deposito motivazioni in data 25 luglio 2025) ha preso in esame il tema relativo alla retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare in relazione alla fattispecie di omicidio preterintenzionale.
Il fatto.
Una persona sottoposta ad indagini per il delitto di omicidio preterintenzionale aggravato proponeva ricorso avverso l'ordinanza con cui il Tribunale di Firenze, in funzione di giudice del riesame, aveva confermato il provvedimento emesso dal GIP, con cui era stata applicata al ricorrente la misura della custodia cautelare in carcere per la predetta fattispecie di reato.
L'indagato aveva richiesto l'applicazione dell'istituto della retrodatazione, con riferimento all'ordinanza applicativa della misura cautelare in carcere emessa il 16 ottobre 2023 dal GIP del Tribunale di Firenze, nell'ambito di un procedimento penale relativo a plurime rapine commesse tra agosto e ottobre 2023, sostenendo che le condotte contestate, connesse per l'unitarietà del disegno criminoso, erano state commesse nello stesso arco temporale; il Tribunale aveva ritenuto infondata l'istanza, sulla base dell'assunto che l'evento morte, che aveva portato alla consumazione del delitto di omicidio preterintenzionale, in riferimento al quale era stata applicata la misura cautelare, era successivo all'emissione della prima ordinanza, e che non ricorreva alcuna ipotesi di connessione qualificata.
Tramite i propri motivi di ricorso, l'indagato sosteneva come il delitto di omicidio preterintenzionale non potesse essere considerato un "fatto" nuovo. L'aggressione ai danni della persona offesa, infatti, avvenuta il 10 ottobre 2023, era già stata contestata al ricorrente: l'unica novità ravvedibile riguardava, pertanto, l'evoluzione dell'evento lesivo, culminato nel decesso della vittima nel febbraio del 2025. Tuttavia, tale aggravamento non poteva essere considerato tale da trasformare la condotta in un "fatto nuovo", bensì in una diversa qualificazione giuridica dello stesso fatto, alla luce dell'evoluzione clinica.
La decisione.
I giudici di legittimità hanno, dapprima, ricordato come, in tema di disciplina della retrodatazione della decorrenza del termine di durata massima della custodia cautelare in caso di contestazione a catena, secondo quanto affermato in due pronunce delle Sezioni Unite (n. 14535 del 19/12/2006, dep. 2007 e n. 21957 del 22/03/2005, P.M. in proc. Rahulia ed altri), possano ricorrere tre distinte situazioni, alle quali corrispondono altrettante, distinte, regole operative:
1. Possono essere state emesse nello stesso procedimento penale due (o più) ordinanze applicative di misure cautelari personali che abbiano ad oggetto fatti-reato legati tra loro da concorso formale, continuazione o da connessione teleologica (casi di connessione qualificata), e per le imputazioni oggetto del primo provvedimento coercitivo, in relazione al quale non sia ancora intervenuto il rinvio a giudizio. In queste circostanze trova applicazione la disposizione dettata dal primo periodo del comma 3 dell'art. 297 c.p.p., secondo la quale la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata della misura o delle misure applicate successivamente alla prima opera in via automatica e, dunque, "indipendentemente dalla possibilità, al momento della emissione della prima ordinanza, di desumere dagli atti l'esistenza dei fatti oggetto delle ordinanze successive e, a maggior ragione, indipendentemente dalla possibilità di desumere dagli atti l'esistenza degli elementi idonei a giustificare le relative misure" (così Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, Librato).
2. I fatti oggetto delle plurime ordinanze cautelari possono, in secondo luogo, risultare avvinti dalla suindicata connessione qualificata e le ordinanze essere emesse in distinti procedimenti (e al riguardo, ha rilevato la Corte, non rileva se questi siano gemmazione di un unico procedimento, nel cui ambito è stata disposta una separazione delle indagini per taluni fatti, oppure che essi abbiano avuto autonome origini). In tale situazione si applica la regola dettata dal secondo periodo del comma 3 dell'art. 297 c.p.p., sicché la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure applicate con la successiva o le successive ordinanze opera solo se i fatti oggetto di tali provvedimenti erano desumibili dagli atti già prima del momento in cui è intervenuto il rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima ordinanza.
3. Infine, tra i fatti oggetto dei due (o più) provvedimenti cautelari può non esistere alcuna connessione, ovvero può configurarsi una forma di connessione non qualificata. Questa ipotesi, ha osservato il Collegio, rientra nel campo applicativo dell'art. 297 c.p.p. per effetto della sentenza additiva della Corte costituzionale n. 408 del 2005. Pertanto, se le due ordinanze sono state adottate in procedimenti formalmente differenti, per la retrodatazione occorre verificare, oltre che al momento della emissione della prima ordinanza vi fossero gli elementi idonei a giustificare l'applicazione della misura disposta con la seconda ordinanza, che i due procedimenti siano in corso dinanzi alla stessa autorità giudiziaria e che la separazione possa essere stata il frutto di una scelta del pubblico ministero (così Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, Librato). Resta, comunque, fermo che l'operatività dell'art. 297 comma 3 c.p.p. dev'essere esclusa in riferimento a fatti successivi all'applicazione della prima misura cautelare.
Ciò premesso, la Corte ha rilevato come oggetto di verifica nella fattispecie in esame sia se, ai fini della retrodatazione dei termini di decorrenza della custodia cautelare ai sensi dell'art. 297 comma 3 c.p.p., il presupposto dell'anteriorità dei fatti oggetto della seconda ordinanza coercitiva, rispetto all'emissione della prima, possa ricorrere allorché il provvedimento successivo riguardi il delitto di omicidio preterintenzionale, ritenuto dalla difesa del ricorrente quale mera evoluzione dell'evento lesivo originariamente contestato (lesioni gravissime). Sul punto, si è osservato come il reato di lesioni personali gravissime e, successivamente, il reato di omicidio preterintenzionale siano conseguenti alla medesima condotta di aggressione fisica posta in essere dall'indagato ai danni della medesima persona offesa; in altri termini, alla condotta di aggressione fisica era conseguito prima l'evento delle lesioni e successivamente l'evento della morte.
Tale questione richiede, preliminarmente, la perimetrazione della portata dell'espressione "stesso fatto" ai fini della applicazione dell'istituto delle contestazioni a catena.
Con riguardo alla questione inerente alla 'progressione' tra lesioni personali ed omicidio preterintenzionale, essa è stata affrontata, si è rilevato, in più occasioni da parte della Corte di Cassazione: in primis, Sez. 5, n. 28548 del 01/07/2010, Carbognani ha affermato che, ai fini della preclusione connessa al principio del ne bis in idem, l'identità del fatto sussiste solo quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (in applicazione del principio, ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il Tribunale della libertà ha escluso l'identità del fatto, rilevante ai fini della preclusione di cui all'art. 649 c.p.p., con riguardo ad un procedimento per il delitto di omicidio preterintenzionale nell'ipotesi in cui le lesioni - per le quali si sia già proceduto - abbiano solo successivamente determinato la morte della persona offesa dalla condotta dell'agente); il principio è stato, poi, ribadito da Sez. 5, n. 52215 del 30/10/2014, Carbognani (fattispecie in cui la Corte ha escluso la configurabilità della preclusione derivante da identità del fatto con riguardo ad un procedimento relativo al reato di omicidio preterintenzionale instaurato a seguito della morte della persona offesa, sopravvenuta dopo che l'agente era stato già condannato in relazione alla medesima condotta per il reato di lesioni personali); ed ancora, da Sez. 5, n. 1363 del 25/01/2021, dep. 2022, Abdurahmonovic Seid, ove si è precisato che non contrasta con il principio del ne bis in idem - non ricorrendo l'identità del fatto considerato in tutti i suoi elementi costitutivi - la condanna per il delitto di omicidio preterintenzionale nei confronti di un soggetto già condannato per lesioni personali con sentenza divenuta irrevocabile in relazione alla medesima condotta.
Si è, inoltre, affermato che la nozione di identità del fatto deve intendersi quale coincidenza di tutte le componenti della fattispecie concreta oggetto dei due processi, onde il "medesimo fatto", ai fini della preclusione connessa al rispetto del principio del ne bis in idem, sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e in relazione alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, P.G. in proc. Donati ed altro).
Inoltre, ha rilevato il Collegio, il principio del ne bis in idem sostanziale ed il principio del ne bis in idem processuale hanno confini ed ambiti applicativi (almeno parzialmente) diversi: il bis in idem sostanziale, infatti, concerne le ipotesi di qualificazione normativa multipla di un medesimo fatto e, mediante il criterio regolativo della specialità (artt. 15 e 84 cod. pen.), fonda la disciplina del concorso apparente di norme, vietando che uno stesso fatto sia accollato giuridicamente due volte alla stessa persona; il bis in idem processuale, invece, concerne non già il rapporto astratto tra norme penali, bensì il rapporto tra il fatto ed il giudizio, vietando l'esercizio di una nuova azione penale dopo la formazione del giudicato. Ne consegue che l'estensione del bis in idem processuale è diversa, e di regola più ampia, rispetto al bis in idem sostanziale e, soprattutto, come pure affermato in dottrina (secondo cui, efficacemente, il divieto di un secondo giudizio "è puro fenomeno giudiziario"), concerne rapporti diversi: l'art. 649 cod. proc. pen., infatti, riguarda il rapporto tra il fatto storico oggetto di giudicato ed il nuovo giudizio e, nella sua dimensione storico-naturalistica, prescinde dalle eventualmente diverse qualificazioni giuridiche; il bis in idem sostanziale, invece, concerne il rapporto tra norme incriminatrici astratte e prescinde dal raffronto con il fatto storico.
La giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, chiarito che, in tema di divieto di un secondo giudizio, le nozioni di bis in idem processuale e di bis in idem sostanziale non coincidono, in quanto la prima, più ampia, ha riguardo al rapporto tra il fatto storico, oggetto di giudicato, ed il nuovo giudizio e, prescindendo dalle eventuali differenti qualificazioni giuridiche, preclude una seconda iniziativa penale là dove il medesimo fatto, nella sua dimensione storico-naturalistica, sia stato già oggetto di una pronuncia di carattere definitivo; la seconda, invece, concerne il rapporto tra norme incriminatrici astratte e prescinde dal raffronto con il fatto storico (Sez. 7, n. 32631 del 01/10/2020, Barbato).
In ordine al principio del divieto del bis in idem, si è poi rilevato come un importante contributo sia stato offerto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale, nel corso degli ultimi anni, ha fornito diverse precisazioni di principio. Con riferimento, infatti, alla nozione rilevante di idem factum, la Corte EDU ha adottato nel tempo diverse interpretazioni, riconducibili, prima del 2009, a tre filoni essenziali:
1. Secondo un primo orientamento, occorre valorizzare la nozione di "identico comportamento" del ricorrente inteso in senso storico-naturalistico, indipendentemente dalla qualificazione giuridica che ne viene data (idem factum). Nel caso Gradinger contro Austria, la Corte EDU, Grande Camera, 23 ottobre 1995, ha posto l'accento sulla identità della condotta (idem factum), a prescindere dalla sua qualificazione giuridica: nella fattispecie, un cittadino austriaco era stato accusato di omicidio colposo per aver travolto un ciclista mentre era alla guida della propria autovettura, ed era stato dapprima dichiarato colpevole e condannato alla pena prevista in caso di omicidio colposo aggravato dall'aver commesso il fatto mentre era alla guida in stato di ebbrezza alcolica, e successivamente era stato condannato per l'illecito amministrativo di guida in stato di ebbrezza alcolica. Nel ritenere la violazione dell'art. 4 del Protocollo n. 7, la Corte EDU affermò comee non rilevasse il diverso scopo assolto dalle diverse fattispecie di reato che sanzionano la medesima condotta, ma soltanto l'identità della condotta.
Un secondo orientamento, pur partendo dall'identità della condotta materiale da cui scaturiscono le varie sanzioni, legittima il fatto che l'identico comportamento possa fondare plurime 'infrazioni', con l'apertura di procedimenti distinti, nonché l'applicazione di più sanzioni. Nel caso Oliveira contro Svizzera, la Corte EDU, Grande Camera, 30 luglio 1998, ha infatti ritenuto che il concorso formale di reati non violasse di per sé il divieto di bis in idem: una donna che aveva perso il controllo della propria autovettura a causa del ghiaccio, aveva invaso la corsia opposta cagionando lesioni gravi al conducente dell'autovettura che sopraggiungeva; condannata al pagamento di una multa per aver violato il codice stradale svizzero, non avendo tenuto conto, nella condotta di guida, delle condizioni della strada, veniva successivamente condannata per aver cagionato lesioni gravi al conducente dell'autovettura. Nel determinare l'entità della multa, però, la seconda sentenza aveva tenuto conto di quella inflitta con la prima. Nel rigettare il ricorso della donna, la Corte EDU ha osservato che "questo è un tipico esempio di un singolo atto che integra diversi reati (concorso formale di reati). La caratteristica di questo istituto sta nel fatto che un singolo atto genera reati distinti, in questo caso il mancato controllo del veicolo e le lesioni colpose. In questi casi, la penalità maggiore assorbe solitamente quella minore. Non vi è nulla in tale situazione che violi l'art. 4 del Protocollo n. 7, poiché tale disposizione vieta che le persone siano processate due volte per lo stesso reato mentre in caso di concorso formale di reati un singolo atto integra reati diversi. Certo, sarebbe stato più coerente con i principi che regolano la corretta amministrazione della giustizia che la pena per entrambi i reati, che derivano dalla stessa condotta, fosse stata applicata dallo stesso Tribunale nel medesimo procedimento, come in effetti pare che dovesse accadere in quanto il magistrato di competenza "inferiore" avrebbe dovuto trasmettere gli atti al procuratore distrettuale per procedere in relazione a entrambi i reati; il fatto che nel caso di specie tale procedura non sia stata seguita è stato, tuttavia, giudicato irrilevante ai fini dell'art. 4 del Protocollo n. 7 poiché tale disposizione non si applica a reati separati, anche se integrati da una medesima condotta, giudicati da tribunali diversi, specialmente se, come nel caso di specie, le pene minori sono assorbite da quelle maggiori" (p.p. 25-26).
3. Un terzo orientamento, infine, pone l'accento sui c.d. "elementi essenziali" delle due fattispecie: l'art. 4 Prot. 7 può tollerare una pluralità di procedimenti in caso di concorso formale di reati, ma è necessario valutare se le due fattispecie abbiano o meno gli stessi "elementi essenziali", per escludere che si tratti di una semplice differenza di nomen iuris o di un concorso apparente di norme. Nel caso Franz Fischer contro Austria, la Corte EDU, Sez. III, 29 maggio 2001, ha precisato che il concorso formale non viola il divieto di bis in idem solo se gli elementi costitutivi essenziali dei reati sono diversi: un automobilista, mentre era alla guida della propria autovettura in stato di ebbrezza alcolica, aveva investito un ciclista, cagionandone la morte, e si era dato alla fuga senza prestare soccorso; condannato dall'autorità amministrativa a pagare una multa per la violazione delle norme del codice della strada, era stato successivamente condannato a sei mesi di reclusione per il reato di omicidio colposo provocato dalla guida in stato di ebbrezza. Nella fattispecie, la Corte EDU ha ritenuto la violazione dell'art. 4, Protocollo n. 7, sulla base dei seguenti argomenti: a) la norma non usa il sintagma stesso reato/illecito, ma fa riferimento piuttosto al (nuovo) processo e/o alla (nuova) condanna per un reato per il quale una persona è già stata definitivamente assolta o condannata; b) è vero che il concorso formale di reati non viola il divieto di bis in idem, ma non ci si può limitare alla constatazione che da una medesima condotta possono gemmare più reati/illeciti; c) è necessario verificare se un reato/illecito contiene (ed esprime) il disvalore di tutti gli altri; ci sono casi, infatti, in cui una medesima condotta integra due diversi reati/illeciti, uno dei quali contiene gli stessi elementi dell'altro, più un elemento specializzante, altri nei quali i due reati sono solo in parte sovrapponibili; d) è necessario pertanto stabilire se i reati/illeciti condividano o meno gli stessi elementi essenziali; nel caso Gradinger la guida in stato di ebbrezza costituiva elemento specializzante del reato di omicidio colposo, nel caso Oliveira mancava questa netta sovrapposizione; e) nel caso Gradinger la condanna penale aveva preceduto quella amministrativa, ma questa differenza (invocata dal governo austriaco a sostegno della inapplicabilità del principio allora affermato dalla Corte EDU) non è affatto decisiva: la questione della violazione o meno del divieto del bis in idem riguarda il rapporto tra i due illeciti in questione e non può dipendere dall'ordine di svolgimento dei rispettivi procedimenti; f) l'art. 4 del Protocollo n. 7 non stabilisce solo il diritto di non essere punito due volte, ma anche quello di non essere processato e giudicato due volte; g) la grazia concessa dal Presidente federale non cancella i due processi e le due condanne.
I giudici di legittimità hanno quindi rilevato come - nel sottolineare che il concetto di "elementi essenziali" è stato variamente e spesso utilizzato dalla Corte EDU quale criterio di giudizio per stabilire l'identità del fatto - solo con la sentenza della Grande Camera, 10 febbraio 2009, caso Sergey Zolotukhin contro Russia, la stessa Corte EDU sia giunta ad un approdo definitivo e organico.
Nell'esaminare i trattati e gli strumenti internazionali che sanciscono il divieto del bis in idem, la Corte ha constatato che non tutti usano gli stessi termini, ed ha affermato che la distinzione tra i termini "stessi atti" o "stessi fatti", da un lato, e "stesso reato", dall'altro, è stata ritenuta dalla CGUE un elemento importante a favore dell'adozione di un approccio basato strettamente sull'identità degli atti materiali (idem factum) e sul rifiuto della mera qualificazione giuridica (idem legale) di tali atti come criterio di verifica della violazione, giudicata come irrilevante.
La Corte EDU ha preso spunto da questa constatazione e, ribadendo che la Convenzione EDU deve essere interpretata ed applicata in modo da rendere pratici ed effettivi, e non teorici o illusori, i diritti in essa riconosciuti, afferma che l'uso del termine "offence/infraction" nell'art. 4 del Protocollo n. 7 non giustifica un approccio interpretativo di tipo restrittivo; il ricorso alla mera qualificazione giuridica del medesimo fatto rischia di indebolire il divieto di bis in idem, piuttosto che renderlo pratico ed effettivo, perché non impedisce che per la medesima condotta una persona possa essere processata e/o condannata due volte.
Di conseguenza, secondo la Corte EDU, l'art. 4 del Protocollo n. 7 dev'essere interpretato nel senso che il reato è il medesimo se i fatti che lo integrano sono identici oppure sono sostanzialmente gli stessi (p. 82), dovendosi intendere per fatto "l'insieme di circostanze di fatto concrete che coinvolgono lo stesso imputato e che sono inestricabilmente legate tra loro nel tempo e nello spazio, la cui esistenza deve essere dimostrata al fine di ottenere una condanna o avviare un procedimento penale" (p. 84).
Una volta consolidatasi l'interpretazione sulla necessità di verificare la violazione dell'art. 4 Prot. 7 sull'idem factum, nonostante la formulazione linguistica della norma convenzionale sembrasse attribuire rilevanza alla sola qualificazione giuridica, la giurisprudenza successiva della Corte di Strasburgo si è articolata in una serie di pronunce che, partendo dalla nozione di idem factum, ha verificato volta per volta, sulla base di un approccio casistico (connaturato alla stessa struttura della giurisdizione Europea convenzionale), l'identità formale o sostanziale dei fatti posti alla base degli addebiti mossi, assumendo quali parametri l'insieme delle circostanze fattuali concrete relative allo stesso autore e indissolubilmente legate tra loro nel tempo e nello spazio. Nel caso Maresti contro Croazia (Corte EDU, Sez. I, 25 giugno 2009), il ricorrente era stato definitivamente condannato perché due settimane prima, in un terminal bus, mentre era sotto l'effetto dell'alcol, aveva insultato una persona, l'aveva presa a pugni colpendola più volte in testa e poi, ancora, a calci e pugni su tutto il corpo; era stato giudicato colpevole di aver tenuto una condotta particolarmente offensiva in un luogo pubblico in quanto aveva insultato e percosso una persona infrangendo la quiete pubblica, condotta che integrava l'art. 6 della legge sui reati minori contro la quiete e l'ordine pubblico, e condannato a quaranta giorni di carcere; successivamente era stato processato per aver provocato gravi lesioni personali alla persona offesa e condannato alla pena di un anno di reclusione, pena dalla quale doveva essere detratta quella inflitta dal Tribunale per i reati minori. Nell'accogliere il ricorso del Maresti, la Corte EDU ha espressamente rigettato la tesi del governo secondo cui non poteva essere invocata l'identità dei fatti perché diversi erano i beni giuridici lesi dalla condotta del ricorrente (la pubblica quiete e l'ordine pubblico, nel caso della prima condanna; l'incolumità personale nella seconda), diversa la loro gravità, diversa la finalità della pena. Acclarata la natura penale della sanzione inflitta e, dunque, la qualificazione come "reato" della condotta definita dall'ordinamento interno come "reato minore", la Corte EDU ha osservato che: a) la fattispecie prevista dall'art. 6 della legge a tutela della pubblica quiete e dell'ordine pubblico non prevede, come elemento costitutivo del reato, la lesione dell'incolumità personale che, invece, integra la fattispecie prevista dall'art. 99 del c.p. croato; b) tuttavia, le lesioni della vittima sono state prese in considerazione tanto ai fini della condanna per il reato minore, quanto della condanna per il reato "maggiore"; c) i fatti descritti nelle due sentenze sono gli stessi, stessa condotta, stesso evento, stessa frazione di tempo.
Nel caso Maresti non veniva, pertanto, in rilievo esclusivamente l'identità della condotta, bensì l'identità del fatto, comprensivo anche delle lesioni, e dunque dell'evento.
Ciò posto, la Corte di Cassazione ha quindi preso in esame la giurisprudenza della Corte Costituzionale, la quale, con la sentenza n. 200 del 2016, nell'affermare il criterio dell'idem factum, ai fini della valutazione della medesimezza del fatto storico oggetto di nuovo giudizio, ha chiarito che l'affrancamento dall'inquadramento giuridico del fatto non implica l'affrancamento dai criteri normativi di individuazione del fatto. Il criterio dell'idem factum, ha affermato la Consulta, non può essere inteso nell'accezione ristretta alla sola condotta (azione od omissione), in quanto la stessa giurisprudenza della Corte EDU non è consolidata in tal senso, anche per l'approccio casistico che la connota, e in quanto la scelta sul perimetro dell'idem factum è di carattere normativo, perché "ognuna di esse è compatibile con la concezione dell'idem factum" (Corte Cost., n. 200 del 2016, p. 4).
In particolare, sul rilievo, secondo cui l'idem factum dovrebbe essere individuato in ragione soltanto dell'azione o dell'omissione, trascurando evento e nesso di causalità, la Corte costituzionale ha affermato che la tesi è errata: "il fatto storico-naturalistico rileva, ai fini del divieto di bis in idem, secondo l'accezione che gli conferisce l'ordinamento, perché l'approccio epistemologico fallisce nel descriverne un contorno identitario dal contenuto necessario. Fatto, in questa prospettiva, è l'accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo dell'inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un'addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi. Non vi è, in altri termini, alcuna ragione logica per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa all'azione o all'omissione, e non comprenda, invece, anche l'oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l'evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell'agente. È chiaro che la scelta tra le possibili soluzioni qui riassunte è di carattere normativo, perché ognuna di esse è compatibile con la concezione dell'idem factum. Questo non significa che le implicazioni giuridiche delle fattispecie poste a raffronto comportino il riemergere dell'idem legale. Esse, infatti, non possono avere alcun rilievo ai fini della decisione sulla medesimezza del fatto storico. Ad avere carattere giuridico è la sola indicazione dei segmenti dell'accadimento naturalistico che l'interprete è tenuto a prendere in considerazione per valutare la medesimezza del fatto. Nell'ambito della CEDU, una volta chiarita la rilevanza dell'idem factum, è perciò essenziale rivolgersi alla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, per comprendere se esso si restringa alla condotta dell'agente, ovvero abbracci l'oggetto fisico, o anche l'evento naturalistico" (Corte Cost., n. 200 del 2016, p. 4).
Proprio confrontandosi con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la Corte Costituzionale ha, quindi, escluso che l'idem factum venisse delimitato con riferimento esclusivo alla condotta: "né la sentenza della Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia, né le successive pronunce della Corte EDU recano l'affermazione che il fatto va assunto, ai fini del divieto di bis in idem, con esclusivo riferimento all'azione o all'omissione dell'imputato. A tal fine, infatti, non possono venire in conto le decisioni vertenti sulla comparazione di reati di sola condotta, ove è ovvio che l'indagine giudiziale ha avuto per oggetto quest'ultima soltanto (ad esempio,, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia)"; conclude, sul punto, la Consulta, evidenziando che: "certo è che, perlomeno allo stato, la giurisprudenza Europea, che "resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l'ha originata" (sentenza n. 236 del 2011), non permette di isolare con sufficiente certezza alcun principio (sentenza n. 49 del 2015), alla luce del quale valutare la legittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p., ove si escluda l'opzione compiuta con nettezza a favore dell'idem factum (questa sì, davvero espressiva di un orientamento sistematico e definitivo). In particolare, non solo non vi è modo di ritenere che il fatto, quanto all'art. 4 del Protocollo n. 7, sia da circoscrivere alla sola condotta dell'agente, ma vi sono indizi per includere nel giudizio l'oggetto fisico di quest'ultima, mentre non si può escludere che vi rientri anche l'evento, purché recepito con rigore nella sola dimensione materiale" (Corte Cost., n. 200 del 2016, p. 5).
Tutto ciò premesso, con riguardo al caso di specie, la Suprema Corte ha affermato come correttamente il Tribunale del riesame fiorentino abbia ritenuto non applicabile l'art. 297, comma 3 c.p.p., dal momento che l'evento morte che ha portato alla consumazione del delitto di omicidio preterintenzionale (avvenuto nel febbraio 2025), è successivo alla emissione della prima ordinanza (emessa il 16 ottobre 2023 dal GIP del Tribunale di Firenze nell'ambito del procedimento relativo a plurime rapine commesse tra agosto e ottobre 2023).
Il fatto storico oggetto del processo concerne, infatti, hanno osservato i giudici di legittimità, l'omicidio preterintenzionale di una persona; non è, pertanto, rilevante, ai fini della retrodatazione dei termini di custodia cautelare, la circostanza che, al momento dell'adozione della prima ordinanza, il fatto storico riguardava le lesioni personali cagionate alla medesima persona con l'aggressione posta in essere dall'imputato.
Il Collegio ha quindi rilevato come, sulla nozione di idem factum, la giurisprudenza di legittimità sia ormai consolidata nell'affermare che, ai fini della preclusione connessa al principio del ne bis in idem, l'identità del fatto sussiste solo quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, da considerare in tutti i suoi elementi costitutivi sulla base della triade condotta-nesso causale-evento, non essendo sufficiente la generica identità della sola condotta (Sez. 2, n. 52606 del 31/10/2018, Biancucci, con riferimento ad una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione di merito che aveva escluso la ricorrenza dell'idem factum tra la contestazione di cui all'art. 632 cod. pen. e il giudicato per illeciti di natura urbanistica ed ambientale, sul presupposto della diversità degli eventi conseguiti alla medesima condotta; ai fini della preclusione connessa al principio del ne bis in idem, l'identità del fatto sussiste, pertanto, solo quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, da considerare in tutti i suoi elementi costitutivi sulla base della triade condotta-nesso causale-evento, e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona, considerati sia nella loro dimensione storico - naturalistica, sia in quella giuridica, non essendo sufficiente la sola identità della condotta o di parte di essa, laddove la medesima condotta violi contemporaneamente più disposizioni incriminatrici; sul punto, Sez. 3, n. 21994 del 01/02/2018, Pigozzi; Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016, dep. 2017, Bordogna, ove si è ritenuta immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha escluso la violazione del divieto di bis in idem in relazione ad un processo per omicidio colposo di lavoratori morti per mesotelioma pleurico celebrato nei confronti di imputati precedentemente assolti per identica imputazione, avente ad oggetto il decesso di altri lavoratori per la stessa malattia, sul presupposto che il successivo giudizio attiene ad eventi naturalistici diversi, in quanto perpetrati in danno di differenti persone offese).
Pertanto, ai fini di accertare la medesimezza della fattispecie criminosa, si deve guardare alla condotta materiale comprensiva di tutti e tre gli elementi oggettivi (condotta, nesso di causalità ed evento) che la compongono e, in particolare, tra gli elementi caratterizzanti la condotta, essenziale è quello concernente il tempo di commissione del reato, la cui eventuale diversità, in presenza di identità degli altri elementi materiali, diversifica l'un fatto di reato dall'altro. Stesso fatto significa, infatti, medesimo fatto storico, quale entità iniziatasi ed esauritasi ormai sotto il profilo fenomenico.
Con riguardo alla fattispecie in esame, la Corte ha, tuttavia, rilevato come la stessa presenti profili inediti: nel caso in esame, infatti, non viene in rilievo un concorso formale di reati - ipotesi oggetto della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 649 cod. proc. pen. pronunciata dalla citata Corte Cost. n. 200/2016 -, in quanto tra il reato di lesioni personali e il reato di omicidio preterintenzionale non potrebbe ipotizzarsi un concorso formale, ricorrendo, sotto il profilo sostanziale della qualificazione giuridica, una relazione di incompatibilità tra le fattispecie: se interviene l'evento-morte, infatti, non è configurabile il reato di lesioni personali, bensì soltanto il reato di omicidio preterintenzionale.
Nel solco della giurisprudenza convenzionale e costituzionale, i giudici di legittimità hanno, quindi, innanzitutto premesso come non ricorra l'idem factum tra le lesioni personali e l'omicidio preterintenzionale, in quanto il fatto concreto di cui all'art. 584 cod. pen. è caratterizzato dall'evento-morte, che è, invece, assente nel delitto di cui all'art. 582 cod. pen.; la tipicità di tale ultimo delitto è, infatti, integrata da un diverso, e meno grave, evento, ossia le lesioni personali. Pertanto, l'omicidio preterintenzionale non può essere considerato, sotto il profilo normativo, un grado ulteriore delle lesioni personali, trattandosi di delitti posti a tutela l'uno della vita e l'altro dell'incolumità personale.
Il criterio dell'identità dei fatti materiali - ha osservato ancora la Corte - assume quali parametri di riferimento l'insieme delle circostanze fattuali concrete relative allo stesso autore e indissolubilmente legate fra loro nel tempo e nello spazio. Dunque, non potendo restringere la nozione di idem factum alla sola condotta, e dovendo considerare il fatto concreto nella sua integrità, comprensivo anche dell'evento e del nesso causale, tra il fatto-lesioni personali ed il fatto-omicidio preterintenzionale non sussiste un'identità, per la evidente differenza dell'evento. Nella fattispecie, si è osservato che l'ordinanza cautelare inframuraria, resa nel procedimento per il reato di omicidio preterintenzionale, era stata adottata in considerazione del fatto sopravvenuto della morte della persona offesa (febbraio 2025), successivo alla adozione della prima misura cautelare del 16 ottobre 2023. In conclusione, l'esistenza di una relazione di incompatibilità strutturale tra le due fattispecie esclude che l'omicidio preterintenzionale fosse anteriore all'applicazione della prima misura cautelare.
Sulla base di tali motivazioni, la Suprema Corte ha pertanto rigettato il ricorso.