In materia di responsabilità medica, la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 13573, pronunciata all'udienza del 14 novembre 2018 (deposito motivazioni in data 28 marzo 2019), ha preso in esame il tema relativo alla colpa omissiva del medico che, contattato per una consulenza da un collega del Pronto Soccorso, formuli una diagnosi non definitiva, senza attendere l'esito degli esami già disposti in via d'urgenza sul paziente, e rinvii il medesimo in Pronto Soccorso, rimettendo la valutazione degli esami al medico richiedente.
Il giudizio di legittimità è stato introdotto dal ricorso presentato da un medico cardiologo avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello di Milano aveva confermato la sua penale responsabilità per il delitto di omicidio colposo, commesso in cooperazione con un collega del Pronto Soccorso.
All'imputato era stato contestato di aver omesso di diagnosticare ad un paziente un infarto in corso, malgrado le evidenze rappresentate da un dolore retro-sternale, dalle risultanze ematochimiche e da quelle elettrocardiografiche; egli aveva quindi contribuito a determinare le dimissioni del paziente, in seguito deceduto a causa dell'infarto miocardico acuto.
In particolare, il medico cardiologo, chiamato a consulenza dal collega del Pronto Soccorso, aveva formulato una diagnosi "non definitiva" ("al momento non segni di cardiopatia acuta in atto"), dando atto come in Pronto Soccorso fossero stati disposti esami ematochimici urgenti. Il sanitario non aveva tuttavia atteso, prima di formulare la propria diagnosi, l'esito di tali esami, malgrado un primo referto elettrocardiografico del paziente non regolare, né aveva indicato di rivalutare il paziente attraverso la formulazione di una diagnosi con riserva; pertanto, egli aveva posto in essere, con la propria condotta, un antecedente causale rispetto alle erronee dimissioni, in seguito disposte dal collega del Pronto Soccorso il quale, a sua volta, non aveva correttamente valutato l'esito degli esami disposti.
Mediante il proprio ricorso, il sanitario contestava la sentenza della Corte d'Appello, nella parte in cui essa aveva ritenuto che la diagnosi formulata avesse carattere di definitività.
La locuzione "al momento non segni di cardiopatia acuta in atto" era infatti da intendersi nel senso per cui i segni avrebbero potuto manifestarsi in un momento successivo, ed essere rivelati dall'esito di ulteriori esami, quali quelli disposti dal pronto soccorso.
Egli si era quindi attenuto ad una prassi, vigente presso il reparto di cardiologia di tale struttura ospedaliera, per cui la visita, su richiesta di consulenza, veniva effettuata anche senza prendere visione dell'esito del prelievo ematico richiesto in pronto soccorso, ed all'esito di tale visita era formulata una diagnosi non definitiva; stante, poi, l'indisponibilità, nel reparto, di una sala di osservazione, il medico, impossibilitato a trattenere il paziente, era costretto a rinviare il medesimo in pronto soccorso, in attesa che venisse ivi valutato l'esito degli esami ematochimici.
Tale prassi, secondo l'imputato, sarebbe stata per lui vincolante, senza che su tale giudizio potesse influire quanto avveniva presso altri reparti del medesimo ospedale, non gravati dalle problematiche logistiche di quello di cardiologia. La condotta tenuta dal cardiologo non sarebbe pertanto rimproverabile, stante il fatto che egli non aveva avuto la possibilità di rivedere il paziente, e neppure di trattenerlo presso il proprio reparto per consultare le analisi e ricoverarlo; le dimissioni del paziente erano invece state disposte da un altro medico, cui competeva verificare l'esito degli esami ematochimici.
La Corte di Cassazione ha innanzitutto chiarito come la rimproverabilità della predetta condotta del sanitario si fondi, in realtà, sulla violazione delle linee guida internazionali. L'imputato avrebbe infatti dovuto attendere, prima di formulare la propria diagnosi, l'esito delle analisi disposte in pronto soccorso, stante la sintomatologia presentata dal paziente, i plurimi fattori di rischio per il medesimo - ex fumatore, iperteso e con familiarità per infarto miocardico ed i segnali preoccupanti già rivelati dall'elettrocardiogramma.
Effettuata tale precisazione circa la condotta doverosa omessa, i giudici di legittimità hanno affermato come le ulteriori osservazioni dell'imputato non possano condurre ad escludere la rimproverabilità del suo comportamento. Le circostanze da egli evidenziate non erano infatti tali da impedirgli di adempiere alle raccomandazioni imposte dalle linee guida internazionali per formulare una corretta diagnosi. Si trattava, al contrario, di "mere difficoltà organizzative", cui egli avrebbe dovuto porre rimedio, da un lato, consultando per via telematica l'esito degli esami ematochimici, attraverso un opportuno coordinamento con il pronto soccorso; dall'altro, riservandosi, in maniera chiara ed espressa, una diagnosi definitiva solo dopo aver conosciuto il quadro complessivo. Nessuna importanza può quindi essere attribuita al luogo in cui il paziente è collocato, nell'attesa dell'esito degli esami: la completezza e correttezza della diagnosi è infatti inficiata dall'omessa verifica delle analisi, in assenza della quale, in realtà, non è possibile formulare alcuna diagnosi.
Non può quindi essere riconosciuta una distinzione tra diagnosi definitiva e non definitiva, sulla base dell'uso di una particolare locuzione: nel momento, pertanto, in cui il cardiologo aveva formulato una diagnosi, anticipandola, erroneamente, rispetto alla conoscenza dell'esito degli esami disposti dal pronto soccorso, essa non poteva che essere considerata definitiva. E solo la diagnosi definitiva è atto idoneo ad escludere il rimprovero di omissione diagnostica, mediante la differenziazione tra i sintomi comuni e quelli inerenti alla patologia che deve essere identificata.
Lungi dall'attribuire una qualche rilevanza alla prassi non virtuosa in uso presso tale struttura ospedaliera, la Corte di Cassazione ha quindi stabilito che "la formulazione di una diagnosi provvisoria, fondata su dati incompleti, non può essere assunta dal medico come modus operandi, ancorché essa sia tollerata o sinanco incoraggiata dalla struttura ospedaliera che non si occupa di coordinare l'operato dei diversi medici e dei diversi reparti"; in ogni caso, tale prassi andrebbe affiancata da "una procedura di completamento diagnostico che assicuri una tempestiva diagnosi, inequivocabilmente definitiva, fondata su tutti gli accertamenti svolti, non appena consultabili".
E' infatti illegittimo ricavare il contenuto di una regola cautelare da una prassi ospedaliera: ciò rappresenterebbe, infatti, "una torsione dell'inferenza che impone il confronto fra la condotta, ancorché coincidente con la prassi operativa concreta, e la regola, non fra la condotta e la prassi ospedaliera". Tale prassi non può infatti né ritardare né tantomeno impedire l'attività diagnostica, gravando sul medico il dovere di attenersi alle leges artis, completando le proprie analisi e valutazioni; dovere cui il medico deve adempiere a prescindere dalla circostanza per cui la prassi ospedaliera lo costringa ad interfacciarsi continuativamente con gli altri reparti, in assenza di una struttura logistica ospedaliera che agevoli e semplifichi tali compiti.
Per quanto, infatti, ha osservato la Corte, il rischio clinico sia costituito, al contempo, dalle relazioni tecniche ed amministrative tra l'organizzazione sanitaria e gli operatori, da un lato, e la relazione terapeutica tra medico e paziente, dall'altro, il sanitario ha l'obbligo di assicurare che il percorso diagnostico-terapeutico, in quanto reso possibile dall'organizzazione sanitaria in cui egli opera, sia portato a compimento.
Il medico cui è stata richiesta la consulenza potrà andare esente da responsabilità solamente per cause di tipo organizzativo, quale, ad esempio, la sua sostituzione da parte di altro collega alla fine del proprio turno di lavoro, prima che pervenga l'esito degli esami richiesti dal pronto soccorso, oppure il suo impiego in altra attività dai connotati di urgenza, come un intervento in sala operatoria. Spetta, infatti, in questi casi alla struttura ospedaliera assicurare la definitività della diagnosi, pianificando la successione dei sanitari nelle attività di loro competenza, coerentemente con la garanzia della tempestività e completezza dei dati necessari per la gestione del caso clinico.
La Corte di Cassazione ha, pertanto, giudicato infondata la doglianza proposta dal medico, escludendo che la riscontrata violazione delle linee guida sia addebitabile "a soggetti diversi dall'imputato in forza di prassi organizzative o di impedimenti logistici...ininfluenti sull'adempimento dell'obbligo", ed ha rigettato il ricorso da egli proposto, formulando il seguente principio di diritto:
"Il cardiologo interpellato per una consulenza, in una situazione di urgenza, una volta disposti dal reparto di pronto soccorso gli esami clinici utili all'individuazione di una patologia cardiaca, non può esimersi in alcun caso dal fornire allo specialista, che quella consulenza ha richiesto, le valutazioni cliniche desumibili dalla lettura delle analisi che esprimano elementi sintomatici tipici di quel tipo di affezioni, limitandosi a formulare una diagnosi non definitiva e rimettendo la verifica degli ulteriori accertamenti diagnostici al medico richiedente. Una simile condotta, infatti, integra il mancato rispetto delle regole di diligenza e prudenza rivolte all'unico fine della cura e salvaguardia della salute del paziente".