lunedì 8 giugno 2020

Responsabilità del medico: rinviare alle linee guida non è sufficiente, nell'ipotesi di pareri discordanti in merito a circostanze da esse non espressamente valutate, ma caratterizzanti il caso posto all'attenzione del sanitario.

In ambito di colpa medica, la Quarta Sezione Penale della Suprema Corte ha preso in esame, con la Sentenza n. 10175, pronunciata all'udienza del 4 marzo 2020 (deposito motivazioni in data 16 marzo 2020), il tema relativo all'utilizzabilità delle linee guida quali parametri di giudizio circa la responsabilità penale del medico.

Il giudizio di legittimità ha tratto origine dal ricorso presentato da un'imputata, medico cardiologo, avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello di Roma ne aveva confermato la responsabilità per omicidio colposo di una paziente, per averne cagionato il decesso a causa di insufficienza cardiocircolatoria acuta da tromboembolia polmonare massiva per trombosi venosa profonda. 
Al medico era stato mosso un rimprovero di colpa consistente in negligenza ed imprudenza, in relazione all'omessa condotta di prescrizione e somministrazione di un'adeguata terapia profilattica antitrombotica a base di derivati eparinici, ritenuta dai giudici di merito, qualora posta in essere, idonea ad evitare il verificarsi dell'evento.

Nell'ambito dei propri motivi di ricorso, l'imputata contestava, tra l'altro:

1) la ritenuta sussistenza del nesso di causa tra l'omissione contestatale e l'evento mortale, a causa, specialmente:

a) dell'assenza di un corretto giudizio di tipo controfattuale, stante la mancanza di un accertamento sia con riguardo all'efficacia della somministrazione dell'eparina nell'impedire il decesso della vittima sia con riferimento all'esatto momento in cui sarebbe insorta la necessità di effettuare una terapia antitrombotica;

b) dell'incertezza circa l'effettiva sussistenza di una condotta alternativa lecita, attesa la presenza di un grave rischio emorragico cui era soggetta la paziente, circostanza che avrebbe dovuto indurre i giudici di merito ad escludere la necessità di prescrivere una terapia eparinica;

2) la sussistenza di una posizione di garanzia in capo alla ricorrente nei confronti della vittima, ricoprendo il medico la posizione di consulente con un contratto orario settimanale, ed essendosi ella limitata a visitare la paziente nel corso di una sola mattinata, unitamente ad una collega, senza essere stata presente il giorno del ricovero.

La Corte di Cassazione ha ritenuto, innanzitutto, infondato il motivo di ricorso attinente all'insussistenza di una posizione di garanzia.
I giudici di legittimità hanno infatti affermato come la posizione di garanzia di un soggetto dipenda dall'attività svolta e dai rapporti instaurati rispetto alla vittima, rimanendo, al contrario, irrilevante il tipo di rapporto contrattuale intercorso con un terzo.
Con specifico riguardo all'ambito della colpa professionale del medico, la Corte ha ritenuto di ribadire il consolidato principio giurisprudenziale per cui l'assunzione della posizione di garanzia da parte del medico specializzando consegua dal "concreto e personale espletamento di attività" da parte sua, e sia condivisa con quella propria di "chi le direttive le impartisce, secondo i rispettivi ambiti di pertinenza e di incidenza".
A tal riguardo, peraltro, non rileva neppure l'assenza di un'assegnazione formale al medico specializzando: in tal caso, infatti, è comunque riconoscibile l'assunzione di una posizione di garanzia di fatto, e ciò in virtù del principio, valido per tutti i reati omissivi colposi, a mente del quale "la posizione di garanzia può essere generata non solo da investitura formale, ma anche dall'esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante, purchè l'agente assuma la gestione dello specifico rischio mediante un comportamento concludente, consistente nella presa in carico del bene protetto", come affermato dalla medesima Quarta Sezione della Suprema Corte con la sentenza n. 37224/19.

I giudici di legittimità hanno invece accolto il motivo di ricorso dell'imputata attinente alla sussistenza del nesso di causa tra la condotta omissiva contestatale e l'evento mortale.
Ribadito il fondamentale e noto principio espresso dalle Sezioni Unite Franzese nel 2002 con riferimento al nesso di causa, il Collegio ha preso in esame, in tema di accertamento controfattuale, la regola di giudizio che deve guidare il giudice nell'accertamento dell'effetto salvifico delle cure che si ritiene siano state omesse da parte del sanitario. Tale giudizio, infatti, deve fondarsi non solo su affidabili informazioni scientifiche, ma anche sulle contingenze significative del caso concreto.
Pertanto, il giudice di merito è chiamato, nell'effettuare la verifica circa l'effettiva sussistenza di una condotta alternativa lecita a disposizione del medico, ad accertare:
1) quale sia solitamente l'andamento della patologia in concreto accertata;
2) quale sia normalmente l'efficacia delle terapie;
3) quali siano i fattori che solitamente influenzano il successo degli sforzi terapeutici.

Nella fattispecie concreta, il Collegio ha riconosciuto un vizio motivazionale nella sentenza della Corte d'Appello di Roma. Essa, infatti, nel verificare se l'azione doverosa omessa dall'imputata avrebbe evitato l'evento, aveva fondato il proprio giudizio, esclusivamente, sulle informazioni scientifiche disponibili, soffermandosi sulla generale, comprovata, capacità della terapia eparinica di evitare un evento tromboembolitico polmonare del genere di quello occorso alla paziente. I giudici di merito avevano quindi considerato il "mero dato statistico ed astratto", prescindendo completamente dalle concrete, specifiche condizioni della vittima. In particolare, essi avevano omesso di considerare:
1) l'età e le altre patologie accertate di cui soffriva la paziente;
2) il lasso temporale intercorso dal momento in cui sarebbe insorta la necessità di effettuare la terapia antitrombotica ed il momento del decesso;
3) i tempi ordinari e specifici di efficacia della terapia omessa;
4) la stessa evoluzione della patologia trombotica, oltre all'analisi del relativo grado di gravità, al momento in cui si ritiene che sarebbe stato necessario procedere con la terapia omessa.

I giudici di legittimità hanno poi riconosciuto un ulteriore vizio di motivazione nella sentenza del Tribunale, con specifico riferimento all'esclusione del rischio emorragico, rilevato dai consulenti dell'imputata, e tale da mettere in dubbio la praticabilità, nel caso concreto, della terapia eparinica.
Il giudice di prime cure, infatti, aveva dapprima riportato le conclusioni del consulente della difesa, secondo cui le patologie di cui soffriva la paziente rendevano il rischio emorragico superiore a quello trombotico; in seguito, aveva considerato l'osservazione operata, a questo riguardo, dai consulenti del Pubblico Ministero, per i quali la decisione di iniziare una terapia antitrombotica si basa sempre, in effetti, su di una valutazione individuale del rapporto tra i rischi emorragico e trombotico. Il Tribunale concludeva, tuttavia, per l'esclusione del rischio emorragico, in adesione alle indicazioni fornite dai consulenti della pubblica accusa, le quali si erano fondate esclusivamente sulle linee guida del 2011, che indicano alcune delle situazioni cui si associa il rischio emorragico.
Tale iter motivazionale non è stato ritenuto corretto dalla Corte di Cassazione, che ha affermato come "le linee guida non possano, tuttavia, escludere che il medico, alla luce della condizione specifica del paziente, individui altri elementi concretamente sintomatici del rischio emorragico".
La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha sì stabilito, da un lato, già precedentemente all'entrata in vigore della riforma apportata dalla Legge Gelli Bianco, come "il rispetto di linee guida accreditate presso la comunità scientifica non determina, di per sè, l'esonero dalla responsabilità penale del sanitario...dovendo comunque accertarsi se la specificità del quadro clinico del paziente imponesse un percorso terapeutico diverso rispetto a quello indicato da dette linee-guida".
Il medesimo principio può, tuttavia, essere applicato anche in senso favorevole all'imputato: pertanto, nell'ipotesi in cui vi siano due pareri discordanti tra i consulenti in merito a circostanze non valutate dalle linee guida, ma caratterizzanti il caso posto all'attenzione del medico, la Corte ha rilevato come "la decisione dei giudici di merito che scelga tra le due posizioni non possa fondarsi sul mero rinvio alle linee guida, che non contemplano e non valutano dette circostanze e che, proprio perchè elaborate in via astratta, non possono esaurire tutte le situazioni concrete".
Il giudice di merito sarà perciò chiamato a motivare la sua scelta tra le divergenti posizioni dei consulenti tecnici in base alle leggi scientifiche adattate alle peculiarità del caso concreto, nel rispetto dell'obbligo di dare conto "con motivazione accurata ed approfondita" della propria scelta, nonchè "del contenuto della tesi disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti", secondo un consolidato principio giurisprudenziale.

Stanti tali motivazioni, la Corte di Cassazione ha pertanto annullato la sentenza impugnata, rinviando per nuovo esame alla Corte d'Appello di Roma.