martedì 21 luglio 2020

Associazione di stampo mafioso: è partecipe il soggetto che, in un momento di fibrillazione e difficoltà del sodalizio, raccoglie informazioni finalizzate ad effettuare ritorsioni contro esponenti di sodalizi avversari o a stringere alleanze con altre cosche.

La Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 10366, pronunciata all'udienza del 6 marzo 2020 (deposito motivazioni in data 17 marzo 2020), ha preso in esame il tema relativo alla figura del partecipe ad un'associazione di tipo mafioso.

Il giudizio di legittimità è stato introdotto dal ricorso presentato da una persona sottoposta ad indagini avverso il provvedimento con cui il Tribunale del Riesame di Reggio Calabria aveva confermato la misura cautelare della custodia in carcere adottata nei suoi confronti dal Giudice per le Indagini Preliminari in relazione al delitto di cui all'art. 416 bis c.p..

Il Collegio ha espresso, con riguardo a tale fattispecie incriminatrice, i seguenti principi di diritto.

A livello procedurale, i giudici di legittimità hanno ritenuto legittima l'attribuzione, da parte dell'ordinanza cautelare, di una specifica valenza probatoria, ai fini della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, al tenore di un'intercettazione ambientale che aveva coinvolto la persona sottoposta a misura coercitiva
Un principio di diritto espresso dalla I e dalla V Sezione Penale della Corte di Cassazione, con le Sentenze, rispettivamente, n. 23242/10 e 4977/09, e qui ribadito, aveva infatti affermato, a questo riguardo, che: "i contenuti informativi provenienti da soggetti intranei all'associazione mafiosa, frutto di un patrimonio conoscitivo condiviso derivante dalla circolazione all'interno del sodalizio di informazioni e notizie relative a fatti di interesse comune degli associati - quali indubbiamente sono i temi affrontati dai conversanti, in quanto direttamente attinenti a settori vitali della cosca - sono utilizzabili in modo diretto, e non come mere dichiarazioni de relato soggette a verifica di attendibilità della fonte primaria". 
Tale principio, a suo tempo affermato con riferimento alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, deve ritenersi applicabile - ha osservato la Corte - alle comunicazioni tra soggetti inconsapevoli dell'attività di captazione in corso, stante l'indubbia genuinità di tali dichiarazioni. 

Con riferimento all'elemento oggettivo del delitto de quo, ed in particolare alla figura del partecipe all'associazione mafiosa, i giudici di legittimità hanno invece ritenuto riconducibile a tale fattispecie la condotta del ricorrente sulla base del seguente rilievo. 
La conversazione intercettata, innanzitutto, aveva avuto ad oggetto, da un lato, le alleanze da porre in essere per conservare il dominio della cosca sul territorio, con un interesse di entrambi i soggetti dovuto al ruolo da essi svolto a favore del sodalizio; dall'altro, si era discusso circa vicende, iniziative e strategie da assumere nell'interesse della cosca, con un coinvolgimento, ancora una volta, di entrambi i colloquianti.
Il ricorrente - secondo quanto era stato accertato - si era quindi prestato a raccogliere informazioni "di carattere vitale" per la cosca (in un momento di particolare fibrillazione, a seguito dell'omicidio del capo dell'associazione), al fine di adottare le deliberate ritorsioni. 
Tale compito - ha osservato la Corte - non può certamente essere attribuito al quisque de populo, ma solo a persona di assoluta fiducia, quale si era rivelato essere il ricorrente che, stante il tenore dell'intercettazione ambientale, aveva dimostrato di avere una precisa conoscenza delle dinamiche e delle vicende legate al contesto criminale di riferimento. 
Tutto ciò ha condotto pertanto i giudici di legittimità a ritenere che la messa a disposizione da parte del ricorrente si fosse accompagnata alla "concreta ed effettiva possibilità di svolgere i compiti allo stesso affidati, e dunque di corrispondere ai desiderata del sodalizio di cui fa parte, così accrescendone le potenzialità".

L'elemento oggettivo del delitto di partecipazione all'associazione mafiosa è stato quindi ritenuto sussistente sulla base dell'evidenza di una "chiamata alle armi", da cui dedurre un'"effettiva disponibilità" nei confronti del sodalizio; condotta, questa, giudicata pericolosa per il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, stante l'idoneità ad accrescere le potenzialità dell'associazione criminale, in una fase di particolare fibrillazione e difficoltà della medesima.