mercoledì 28 luglio 2021

Diffamazione in rete: l'amministratore di un sito internet non è responsabile ai sensi dell'art. 57 c.p., salvo che risultino elementi che denotino la sua compartecipazione all'attività diffamatoria.

La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 7220, pronunciata all'udienza del 12 gennaio 2021 (deposito motivazioni in data 24 febbraio 2021), ha preso in esame il tema concernente le condizioni al ricorrere delle quali l'amministratore di un sito internet possa essere riconosciuto responsabile per il delitto di diffamazione ai sensi dell'art. 57 c.p..


  • Il fatto

Un'imputata proponeva ricorso avverso la sentenza con cui la Corte di appello di Milano ne aveva confermato la penale responsabilità per il delitto di diffamazione aggravata ex art. 595 commi 2 e 3 c.p., per aver diffuso, su un sito internet di cui ella era titolare, nonché sugli altri siti che avevano ripreso l'articolo, affermazioni offensive della reputazione di un appartenente alla Polizia di Stato.

In tale articolo si qualificava il medesimo come "criminale in divisa" e "mela marcia", in relazione a fatti per i quali egli era stato imputato del delitto di lesioni consumate ai danni di alcuni tifosi del Brescia calcio, in occasione di una partita del 2003, venendo, tuttavia, in seguito, assolto nel giudizio penale svoltosi nei suoi confronti.


  • La pronuncia della Corte
I giudici di legittimità hanno richiamato le più importanti pronunce della Corte in materia di responsabilità del titolare di un blog pubblicato sulla rete.

A tal riguardo, un ormai consolidato principio di diritto afferma come l'amministratore di un sito internet non risponda del delitto di diffamazione, ai sensi dell'art. 57 c.p., poiché tale norma è applicabile alle sole testate giornalistiche telematiche, non estendendosi ai diversi mezzi informatici di manifestazione del pensiero, quali forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list, facebook, ecc.. 

Tale esonero da responsabilità conosce tuttavia un'eccezione, in riferimento all'ipotesi in cui l'amministratore del sito abbia compartecipato all'attività diffamatoria (Sez. 5, n. 16751 del 19/02/2018).

Inoltre, la giurisprudenza ha riconosciuto la responsabilità del "blogger" a titolo di diffamazione aggravata, ex art. 595 comma 3 c.p., - con riferimento, dunque, all'offesa arrecata "con qualsiasi altro mezzo di pubblicità" - nell'ipotesi in cui, venuto a conoscenza di scritti di carattere denigratorio pubblicati sul proprio sito da terzi, non provveda tempestivamente alla loro rimozione. I giudici della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, hanno infatti affermato, nella sentenza Amodeo, n. 12546 dell'8 novembre 2018, come tale condotta equivalga "alla consapevole condivisione del contenuto lesivo dell'altrui reputazione", e consenta "l'ulteriore diffusione dei commenti diffamatori".

Con tale pronuncia, dunque, il Collegio, ha confermato l'inapplicabilità dell'art. 57 c.p. ai gestori di siti internet diversi dalle testate giornalistiche telematiche, rilevando altresì - oltre alla tassatività dei soggetti indicati da tale norma, ossia il direttore o il vice direttore - il diverso momento in cui interviene il controllo dei contenuti, individuabile nella fase anteriore alla pubblicazione dei medesimi, nel caso della carta stampata e delle testate telematiche, ed in quella successiva all'inserimento, con riferimento, invece, a blog, social o altri mezzi di comunicazione su internet. 

Tuttavia, la Corte ha osservato come possa sussistere il concorso del titolare del sito (o, similarmente, di altro mezzo di comunicazione su internet) ove siano state pubblicate le affermazioni diffamatorie, ma solamente nell'ipotesi in cui sia provato, in capo all'amministratore, il "consapevole e volontario concorso nella diffusione stessa"

Nel caso di specie, la Corte ha confermato la responsabilità dell'imputata, intestataria del sito, a titolo di concorso nella diffusione del pezzo, avendo i giudici di merito  individuato elementi comprovanti la condivisione, da parte della medesima, dello scritto diffamatorio. 

Ella, innanzitutto, aveva pubblicato i contenuti  elaborati da altri utenti, e li aveva successivamente mantenuti, mostrando così di condividerne la paternità e concorrendo, pertanto, nella diffamazione.

Inoltre, la donna aveva partecipato alla raccolta delle informazioni necessaria per redigere l'articolo, apparteneva al collettivo politico da cui il medesimo era stato concepito, e ne aveva persino rivendicato il contenuto in dibattimento, affermando di condividerlo interamente. 

Alla luce di tali circostanze, la Corte ha pertanto disatteso le doglianze dell'imputata, relative alla presunta applicazione, da parte dei giudici del merito, dell'ipotesi prevista dall'art. 40 comma 2 c.p.: la penale responsabilità della medesima è stata infatti affermata non a titolo di omesso controllo, ma sulla base del riconoscimento di un fattivo concorso nel fatto di diffamazione.