La Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 7042, pronunciata all'udienza del 12 gennaio 2021 (deposito motivazioni in data 23 febbraio 2021), ha preso in esame la questione concernente il mezzo di impugnazione esperibile, da parte del Pubblico Ministero, avverso la sentenza di condanna alla pena dell'ammenda, conseguente ad una diversa qualificazione giuridica del fatto operata dal giudice di primo grado.
- Il fatto
Il Procuratore della Repubblica di L'Aquila proponeva appello avverso la sentenza con cui il Tribunale monocratico del capoluogo abruzzese aveva condannato tre imputati alla pena di euro 100,00 di ammenda per il reato di cui all'art. 712 c.p., a seguito della riqualificazione della condotta, originariamente contestata quale delitto di ricettazione.
Il Pubblico ministero chiedeva alla Corte d'Appello di dichiarare la responsabilità degli imputati per il delitto di ricettazione, anche previa rinnovazione dell'istruzione dibattimentale.
I giudici d'appello trasmettevano, tuttavia, gli atti alla Corte di cassazione, ritenendo la sentenza inappellabile, avendo ad oggetto una condanna alla pena della sola ammenda.
- La decisione
La Corte ha, innanzitutto, richiamato il testo dell'art. 593 comma 3 c.p.p., il quale afferma che:
"Sono in ogni caso inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell'ammenda";
Tale disposizione, si è rilevato, non attribuisce rilievo all'ipotesi di un'eventuale modifica del titolo del reato, come avvenuto nel caso di specie.
I giudici di legittimità hanno quindi osservato come l'art. 593 c.p.p. sia stato modificato dal D.Lgs. 6 febbraio 2018, n. 11. Tale provvedimento - si spiega nella relazione illustrativa - è stato finalizzato a dare attuazione alla delega normativa contenuta nella L. 23 giugno 2017, n. 103, recante "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario", la quale, tramite l'art. 1, commi 82, 83 e 84 lett. f), g), h), i), l), e m), ha attribuito al Governo il compito di riformare la disciplina processuale dei giudizi di impugnazione.
Nella medesima relazione illustrativa si è inoltre affermato che il Decreto:
"mira alla deflazione del carico giudiziario, mediante la semplificazione dei procedimenti di appello e di cassazione. In tale ottica, i principi di delega orientano alla modifica del procedimento davanti al giudice di pace, all'individuazione degli uffici del pubblico ministero legittimati a proporre appello, alla riduzione dei casi di appello e alla limitazione dell'appello incidentale al solo imputato".
Tanto premesso, la Corte ha evidenziato come la previsione della limitazione del potere di impugnazione del Pubblico ministero avverso le sentenze di condanna emesse a seguito di dibattimento si spieghi con l'invocata finalità di ridurre i casi di appello, come, peraltro, già previsto in relazione alle pronunce di condanna relative al giudizio abbreviato od al patteggiamento.
Pertanto, il nuovo art. 593, comma 1 c.p.p. prevede che:
"Salvo quanto previsto dall'art. 443, comma 3, art. 448, comma 2, artt. 579 e 680, l'imputato può appellare contro le sentenze di condanna mentre il pubblico ministero può appellare contro le medesime sentenze solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato".
Sempre secondo la relazione illustrativa, la riforma è dovuta, altresì, all'intento del legislatore delegante di circoscrivere il potere d'impugnazione nei limiti in cui possano dirsi soddisfatte le pretese delle parti, con riferimento all'esercizio dell'azione penale per il pubblico ministero ed al diritto di difesa per l'imputato.
Con specifico riferimento alla parte pubblica, quindi, la domanda di riconoscimento della fondatezza della pretesa punitiva può ritenersi soddisfatta dall'emissione di una pronuncia di condanna.
Tale previsione è tuttavia accompagnata da alcune eccezioni, relativamente all'ipotesi in cui il giudice, con la sentenza di condanna, abbia effettuato una differente qualificazione giuridica del titolo di reato od escluso una circostanza aggravante ad effetto speciale o, ancora, stabilito una pena di specie diversa. In tali casi, infatti, la pretesa punitiva sottesa all'esercizio dell'azione penale ed alla formulazione dell'imputazione da parte del Pubblico ministero:
"ha ricevuto un ridimensionamento di tale portata dall'esito di primo grado da rendere giustificabile il mantenimento dell'appello e cioè di una nuova fase di merito che proceda anche ad una rivalutazione dei fatti, a seguito della proposizione di motivi specifici da parte del rappresentante dell'accusa nel rispetto dei canoni dettati dall'art. 581 c.p.p.".
Ancor più specifico è il caso, ricorrente nel caso di specie, in cui la riqualificazione giuridica della condotta operata dal giudice di primo grado comporti la condanna dell'imputato alla sola pena dell'ammenda. In tale ipotesi - ha rilevato la Corte - parrebbe sorgere una contraddizione tra quanto previsto dal comma 1 dell'art. 593 c.p.p., come riformato nel 2018, secondo il quale il pubblico ministero può appellare, come visto, contro le sentenze di condanna che contengano la modifica del titolo di reato e quanto affermato dal comma 3 della medesima disposizione, che prevede, invece, l'inappellabilità delle "sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell'ammenda".
L'insorgere di tale apparente contrasto è stato, tuttavia, prevenuto, dal legislatore, il quale, con l'art. 2, comma 1, lett. b) del citato D.Lgs 11 del 2018, ha modificato il testo dell'art. 593 comma 3 c.p.p., mediante la previsione per cui le sentenze di condanna alla pena dell'ammenda siano "in ogni caso" non appellabili. Tale limitazione del potere di appello nei confronti delle sentenze di condanna alla pena dell'ammenda riguarda, inoltre, sia l'imputato sia il Pubblico ministero, anche laddove vi sia stata una modifica del titolo di reato.
I giudici di legittimità hanno, infatti, ritenuto che la dizione "in ogni caso" sia da interpretare nel senso che, anche nell'ipotesi di riqualificazione giuridica della condotta, o di esclusione di una circostanza aggravante ad effetto speciale, la condanna di primo grado alla sola pena dell'ammenda non sia appellabile da nessuna delle parti.
Nel caso di specie, pertanto, la Corte ha dichiarato inammissibile l'impugnazione proposta dal pubblico ministero, in quanto priva dei requisiti tipici del ricorso per cassazione. Il procuratore della Repubblica di L'Aquila, peraltro, aveva richiesto al giudice dell'impugnazione che fossero rivalutati gli elementi di prova, eventualmente anche mediante rinnovazione probatoria ex art. 603 c.p.p., proponendo dunque una richiesta tipica ed esclusiva del giudizio d'appello.
I giudici di legittimità hanno quindi concluso affermando che, nell'ipotesi di condanna di primo grado alla pena dell'ammenda - pur ove basata su una differente qualificazione giuridica del fatto - atteso che l'unico mezzo di impugnazione ammissibile è il ricorso per cassazione, l'atto di impugnazione della parte pubblica o privata deve essere formulato censurando uno dei vizi previsti dall'art. 606 c.p.p., e presentando, altresì, una richiesta di annullamento della pronuncia, con o senza rinvio. Trattandosi di giudizio di legittimità, non è quindi, naturalmente, possibile proporre istanze di accertamenti tipici delle fasi di merito o conclusioni aventi ad oggetto richieste di di condanna o di assoluzione.