La Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 23943, pronunciata all'udienza del 4 maggio 2021 (deposito motivazioni in data 18 giugno 2021), ha preso in esame il reato di istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia, previsto dall'art. 414 bis c.p..
- Il fatto
Un imputato proponeva ricorso avverso la Sentenza con cui la Corte d'Appello di Firenze ne aveva confermato la penale responsabilità per il reato di cui all'art. 414 bis c.p..
Era stato ad egli contestato di aver pubblicato, su di un dominio pubblicamente accessibile, e sotto nickname, un racconto a contenuto erotico e pedofilo. L'imputato aveva premesso un'avvertenza testuale dal seguente tenore: "l'autore non condona in alcun modo le molestie su minori e crede fermamente che esse vadano punite dalla legge nella maniera più severa"; in seguito, tuttavia, aveva istigato pubblicamente a commettere atti di abuso sessuale nei confronti di minori, descrivendo minuziosamente, nel proprio racconto, rapporti sessuali incestuosi tra un adulto e la propria figlia minore, di anni nove, accompagnando tale racconto con un resoconto caratterizzato dall'espressione di piacere, eccitazione ed esaltazione.
Tramite uno dei propri motivi di ricorso, l'imputato lamentava violazione di legge, in relazione agli artt. 414 e 414 bis c.p.: la sentenza d'appello, infatti, non aveva ritenuto applicabili a quest'ultima fattispecie di reato i principi espressi dalla giurisprudenza con riguardo al reato di istigazione a delinquere, stante "la diversa e ben più specifica oggettività giuridica che denota la fattispecie dell'art. 414 bis c.p.". L'affermazione della responsabilità per il reato di cui all'art. 414 bis c.p. non poteva invece prescindere, secondo il ricorrente, dall'accertamento in concreto dell'idoneità della condotta a far sorgere o rafforzare nei destinatari il proposito di commettere uno o più fatti di reato indicati da tale fattispecie di reato.
La fattispecie di cui all'art. 414 bis c.p. integrerebbe, in particolare, un'ipotesi speciale di istigazione a delinquere, qualificata dalla particolare natura dei reati oggetto della condotta: entrambe le norme, infatti - osservava il ricorrente - puniscono la stessa condotta, consistente nell'istigare pubblicamente, o fare pubblica apologia.
In entrambi i casi, inoltre, si tratterebbe di reati di pericolo concreto, cosicché, ai fini dell'affermazione di responsabilità, sarebbe necessario accertare l'idoneità della condotta a provocare l'effettiva commissione dei delitti i quali, nel caso dell'art. 414 bis c.p., sono specificamente elencati. In ogni caso, la soglia di rilevanza penale non potrebbe arretrare fino a ricomprendere condotte in concreto non pericolose.
In relazione all'elemento soggettivo, invece, dovrebbe sussistere l'intenzione di istigare alla commissione concreta dei reati.
La Corte di appello aveva ritenuto come il dolo fosse da qualificarsi come generico. L'imputato sosteneva, invece, come, analogamente alla fattispecie di istigazione a delinquere, anche il reato de quo richiedesse un dolo specifico, che nel caso di specie, mal si sarebbe conciliato con l'avvertenza inserita dall'imputato nella parte iniziale del proprio racconto.
Infine, il ricorrente sosteneva come erroneamente la sentenza avesse dedotto, dai commenti dei lettori, l'avvenuta concreta istigazione di quest'ultimi a commettere uno dei delitti indicati dall'art. 414 bis c.p.. I commenti presi in esame dai giudici d'appello si erano infatti limitati a richiedere un seguito alla narrazione, ma non avevano manifestato l'intenzione degli autori stessi di porre in essere condotte simili a quelle raccontate dall'imputato.
- La decisione
La Corte ha premesso come la giurisprudenza relativa alla fattispecie di istigazione a delinquere sia senz'altro applicabile anche al reato previsto dall'art. 414 bis c.p..
Le due norme, si è infatti osservato, contengono una descrizione della condotta identica, e si distinguono solo in relazione alla specificità dei reati previsti nell'art. 414 bis c.p. e per il diverso trattamento sanzionatorio, più grave per tale ultima fattispecie di reato; essa si differenzia, altresì, per quanto previsto dal comma 3 della citata disposizione, ove si prevede che: "Non possono essere invocate, a propria scusa, ragioni o finalità di carattere artistico, letterario, storico o di costume".
Tale previsione, hanno rilevato i giudici di legittimità, risulta oltremodo rilevante e delicata, potendo essa entrare in collisione con l'art. 21 Cost..
D'altra parte, la questione di legittimità costituzionale fu già affrontata dalla Consulta in relazione all'art. 414 c.p. (Sentenza n. 65 del 23 aprile 1970): i giudici delle leggi, in tale occasione, avevano escluso la violazione dell'art. 21 Cost. suggerendo una "corretta interpretazione" della norma in oggetto.
L'art. 414 bis comma 3 c.p. è pertanto essenziale al fine di ricostruire correttamente la condotta punibile: essa non deve essere, infatti, "indeterminata e anticipata nella soglia di punibilità, in modo irrazionale, tale da confliggere con la disposizione costituzionale che tutela la libera manifestazione del pensiero".
Sotto il profilo dell'elemento soggettivo, la Corte ha giudicato non corretta la tesi proposta dall'imputato, per la quale il reato de quo sarebbe a dolo specifico e non generico. Né, infatti, la fattispecie generale di istigazione a delinquere, né quella di cui all'art. 414 bis c.p. prevedono tale forma di dolo; esse richiedono, invece, che si accerti il pericolo concreto di indurre altri alla commissione di reati analoghi a quelli oggetto di istigazione o di cui si è fatta apologia.
Il dolo di istigazione, hanno rilevato gli Ermellini, "consiste nella coscienza e volontà di turbare l'ordine pubblico"; la condotta, invece, "deve ritenersi dotata di una forza suggestiva e persuasiva tale da poter stimolare nell'animo dei destinatari la commissione dei fatti criminosi propalati o esaltati".
Le due disposizioni, pertanto, al pari di quella di istigazione a disobbedire alle leggi, costituiscono un'eccezione - dovuta alla finalità di tutela anticipata del bene giuridico - alla regola generale dell'irrilevanza penale dell'istigazione non accolta o, comunque, accolta, ma non seguita dalla commissione del reato istigato, ex art. 115 c.p.). Per le fattispecie di reato in discorso, dunque, non ha rilevanza la circostanza che il reato oggetto di istigazione non sia commesso (c.d. "indifferenza rispetto agli esiti della manifestazione istigativa"); l'istigazione deve, comunque, essere accertata ex ante, e non ex post, come avviene in relazione alla previsione generale di cui all'art. 115 c.p..
I giudici di legittimità hanno, pertanto, ribadito come le fattispecie di reato in discorso richiedano il dolo generico, consistente nella "coscienza e volontà dell'agente di istigare pubblicamente fatti previsti come reati, oppure di fare apologia di delitti, con la consapevolezza e la volontà degli effetti di tale condotta". Secondo costante giurisprudenza, sono invece irrilevanti il fine particolare perseguito ed i motivi dell'agire.
Se, dunque, non v'è dubbio che l'intento dell'agente debba essere quello di provocare la commissione del reato oggetto di istigazione o di apologia, tale condotta non è caratterizzata da un dolo specifico: essa si limita, invece a concorrere alla descrizione della fattispecie oggettiva, pur denotando "sfumature certamente di natura soggettiva".
Come anticipato, la Corte ha quindi ritenuto essenziale, in relazione ad entrambi i reati in oggetto, l'accertamento della natura della condotta posta in essere, la quale deve essere tale da determinare "un rischio effettivo della consumazione di altri reati lesivi di interessi omologhi a quelli istigati". In altri termini, dunque, il comportamento dell'agente deve essere tale - in relazione al suo contenuto intrinseco, alla condizione personale dell'autore ed alle circostanze di fatto in cui esso si esplica - da determinare il rischio, non teorico, ma effettivo, ossia concreto, della consumazione di altri reati.
Infine, la Corte ha osservato come, con specifico riferimento alla fattispecie di cui all'art. 414 bis c.p., debba essere compiuto un accertamento "particolarmente profondo e concreto" con riguardo alla possibile violazione dell'art. 21 Cost., in relazione al comma 3 di tale disposizione.
La stessa Corte costituzionale, infatti, ha rilevato il Collegio, nella Sentenza n. 65 del 1970 ha affermato come "L'apologia punibile ai sensi dell'art. 414 c.p. non è, dunque, la manifestazione di pensiero pura e semplice, ma quella che per le sue modalità integri comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti. Si vuole ricordare, a chiarimento, che la libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall'art. 21 Cost., comma 1, trova i suoi limiti (...) nella necessità di proteggere altri beni di rilievo costituzionale e nell'esigenza di prevenire e far cessare turbamenti della sicurezza pubblica (sentenze n. 19 dell'8 marzo 1962, n. 87 del 6 luglio 1966 e n. 84 del 2 aprile 1969)".
Sulla base di tali osservazioni, la Corte di Cassazione ha quindi ritenuto come le decisioni di merito abbiano fatto buon governo dei predetti principi di diritto.
Tali pronunce avevano infatti correttamente osservato come la descrizione, nei minimi dettagli, dell'atto sessuale con la persona minore, unitamente alla reiterata rappresentazione della condizione estatica della medesima, ed all'espressione di un palese grado di partecipazione e adesione dell'autore, costituissero elementi tali da dimostrare con chiarezza la "potenzialità emulativa" di tale narrato, con conseguente sussistenza di un pericolo concreto e "non seriamente contestabile" di emulazione e riproduzione di quanto rappresentato.
I commenti alla storia scritti dai lettori costituiscono, dal canto proprio, prova della concretezza di tale pericolo, a prescindere dall'effettiva commissione dei reati da parte dei medesimi; bene aveva fatto, dunque, la Corte d'Appello a richiamarne puntualmente ed a riportarne i contenuti, essendo i medesimi "significativi della forza e dell'efficacia concreta e non solo teorica dello scritto".
Stanti tali rilievi, la Corte di Cassazione ha rigettato, pertanto, il motivo di ricorso proposto dall'imputato.