sabato 17 luglio 2021

Messa alla prova e inesatta contestazione del reato: la richiesta può essere presentata deducendo l'erronea qualificazione giuridica del fatto, ma esclusivamente entro il termine di legge.

La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 19673, pronunciata all'udienza dell'8 aprile 2021 (deposito motivazioni in data 15 aprile 2021), ha preso in esame la questione concernente la possibilità, per l'imputato, di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova nel caso in cui la qualificazione giuridica del fatto non consenta l'accesso a tale rito speciale.


  • Il fatto

Un imputato proponeva ricorso avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello di Palermo, all'esito di un giudizio di rinvio, aveva modificato la qualificazione giuridica del fatto ad egli ascritto dal reato di tentata estorsione a quello di tentata violenza privata. 

Tramite uno dei propri motivi di ricorso, l'imputato lamentava violazione di legge e carenza di motivazione, in relazione all'art. 168 bis c.p. ed all'art. 6, par. 3, lett. a) e b) Cedu.

Secondo la tesi propugnata dal ricorrente, nell'ipotesi in cui la sentenza di annullamento preveda la riqualificazione della condotta in una fattispecie - come quella di cui all'art. 610 c.p. - che consente l'accesso al rito alternativo della sospensione del procedimento con messa alla prova, la sede naturale per avanzare la relativa richiesta sarebbe il giudizio di rinvio innanzi alla Corte d'Appello.

Nella fattispecie, l'imputato aveva presentato la richiesta di messa alla prova nelle fasi preliminari all'apertura del dibattimento in grado di appello, ma la Corte aveva - a suo dire erroneamente - rigettato tale istanza, giudicando la medesima tardiva e quindi inammissibile. 

Tale statuizione, secondo il ricorrente, era da considerarsi contrastante con la garanzia del contraddittorio che la giurisprudenza EDU riconosce all'imputato, anche con riguardo alla diversa definizione giuridica del fatto che il giudice operi d'ufficio.

In tal senso deporrebbe, secondo tale tesi, la Sentenza n. 14/2020 della Corte costituzionale che, sul presupposto dell'intrinseca dimensione processuale dell'istituto di cui all'art. 168 bis c.p., ha riconosciuto, nel caso di mutamenti patologici o fisiologici del capo di imputazione, il diritto dell'imputato di richiedere l'ammissione al rito speciale, per mezzo di una rimessione in termini a suo favore, in deroga a quanto previsto dall'art. 464 bis comma 2 c.p.p..


  • La decisione

La Corte di Cassazione ha, innanzitutto, osservato come, a livello testuale, l'art. 464 bis c.p.p. non consenta la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova successivamente all'apertura del dibattimento.

La previsione di tale termine è coerente con quanto previsto dalla disciplina propria degli altri riti alternativi, la quale, analogamente, prevede termini ultimi per la richiesta, in limite litis, fatta salva la possibilità, per l'imputato, di ottenere comunque il beneficio della riduzione di pena nell'ipotesi in cui la mancata ammissione al rito sia risultata ingiustificata, e laddove ciò sia previsto da un'espressa disposizione di legge.

Tuttavia, hanno rilevato i giudici di legittimità, poiché la richiesta di riti alternativi costituisce un precipuo interesse difensivo, la Corte costituzionale, in più occasioni, ha introdotto alcuni correttivi a tale disciplina, con specifico riferimento all'ipotesi in cui, nel corso del processo, si verifichi una modificazione della contestazione senza che siano mutate le condizioni di fatto iniziali.

Tale ipotesi ricorre nel caso di contestazioni suppletive, ossia quando emerge un "fatto nuovo o un reato concorrente che risultava già dagli atti di indagine al momento dell'esercizio dell'azione penale, e che pertanto il pubblico ministero ben avrebbe potuto contestargli già in quel momento, sì da porlo in condizione di esercitare il proprio diritto di difesa in merito alla scelta del rito". 

In tali fattispecie, come osservato dalla predetta pronuncia del Giudice delle leggi n. 14 del 2020, la Consulta ha posto rimedio con la Sentenza n. 265 del 1994, in relazione al patteggiamento, e con la Sentenza n. 333 del 2009 in relazione al rito abbreviato. 

La Corte, con riferimento all'ipotesi delle contestazioni suppletive ha, quindi, di volta in volta dichiarato illegittimi gli artt. 516 e 517 c.p.p., nella parte in cui non prevedevano "la facoltà dell'imputato di essere ammesso a un rito speciale a contenuto premiale allorché, nel corso dell'istruttoria dibattimentale, fosse emerso - rispettivamente - un fatto diverso da quello originariamente contestato, ovvero un reato connesso, o una circostanza aggravante non previamente contestati all'imputato".

Il Collegio ha quindi osservato come vi sia una ragione specifica che giustifica l'ammissione dell'imputato al rito speciale nell'ipotesi di contestazioni suppletive, e non invece allorché il  giudice operi una riqualificazione giuridica della condotta

Soltanto nel primo caso, infatti, l'imputato era "... irragionevolmente discriminato, ai fini dell'accesso ai procedimenti speciali, in dipendenza dalla maggiore o minore esattezza o completezza della discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari operata dal pubblico ministero".

Da ciò deriva, secondo la Corte, come non sia consentito avanzare tardivamente la richiesta di messa alla prova dopo la modifica della qualificazione giuridica della condotta, senza che ciò determini alcun dubbio di costituzionalità.

A questo punto, tuttavia, i giudici di legittimità hanno osservato come, nella fattispecie in cui il Pubblico ministero operi una qualificazione giuridica del fatto non corretta, che impedisca l'accesso alla messa alla prova, l'imputato non resti comunque privo di tutela. Tramite, infatti, una corretta interpretazione delle norme vigenti, si è ritenuto che egli possa tutelare, agendo con la dovuta diligenza, tale, fondamentale, interesse.

Come, infatti, già affermato dalla Corte costituzionale con la Sentenza n. 131 del 2019 - avente ad oggetto un'ipotesi di giudizio abbreviato instaurato innanzi al G.U.P. - l'imputato può - e deve - chiedere entro il termine di legge la messa alla prova, deducendo l'erronea qualificazione giuridica. In tale ipotesi, il giudice, qualora, all'esito del giudizio, ritenga effettivamente erronea la qualificazione operata dal pubblico ministero, deve ammettere la messa alla prova. 

E' dunque necessario - ha rimarcato il Collegio - che, in tale ipotesi, la richiesta di rito speciale sia avanzata nei termini di legge - atteso che "la disposizione non lascia alcuna elasticità - e sia intervenuta, in seguito, una valutazione di erroneità della contestazione, con conseguente modificazione in diversa fattispecie incriminatrice che consenta la messa alla prova.

Da ultimo, la Corte ha osservato come tale ragionamento non valga, tuttavia, qualora la diversa qualificazione dipenda dall'accertamento dei fatti - ad esempio, se cade la prova della violenza e la rapina diventa furto - o qualora non venga raggiunta la prova del reato connesso che impediva l'accesso alla messa alla prova, ed ipotesi simili.

Nel caso di specie - hanno rilevato gli Ermellini - l'imputato non aveva chiesto tempestivamente l'ammissione al rito speciale, con conseguente preclusione all'accesso al medesimo in sede di giudizio di rinvio. La Corte ha dunque respinto il motivo di ricorso proposto dall'imputato.