La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 5976, pronunciata all'udienza del 12 febbraio 2020 (deposito motivazioni in data 17 febbraio 2020), ha preso in esame il tema relativo agli obblighi inerenti alla posizione di garanzia propria del medico psichiatra nei confronti di un paziente detenuto che presenti un alto rischio suicidario.
Nella fattispecie, il giudizio di legittimità veniva introdotto dal ricorso presentato dalle parti civili avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello di Roma aveva rigettato l'appello proposto nei confronti della sentenza, emessa dal Tribunale di Civitavecchia, di assoluzione di un medico psichiatra dal reato di omicidio colposo; al sanitario era stato contestato di non aver impedito il suicidio nella propria cella di una paziente detenuta, affetta da disturbo bipolare e da disturbo borderline di personalità, la quale aveva più volte posto in essere condotte autolesionistiche espressive di un concreto intento suicidario.
In relazione a tale imputazione, lo psichiatra era stato sottoposto a processo, unitamente alla responsabile del reparto femminile della medesima Casa Circondariale (assolta per non aver commesso il fatto dalla Corte d'Appello), alla direttrice del carcere e al comandante delle guardie del medesimo istituto penitenziario, nei confronti dei quali era invece stata pronunciata sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, con conferma delle statuizioni civili.
Nel giudizio di merito, era stato accertato come la detenuta, appena trasferita presso la Casa Circondariale da altro istituto, aveva da subito tentato il suicidio, quando ancora si trovava in accettazione; era stata quindi visitata dal medico psichiatra, il quale le aveva prescritto una terapia farmacologica ed aveva imposto che fosse collocata in una cella liscia, senza suppellettili e senza vestiti, e posta sotto stretta sorveglianza. Il medesimo sanitario, a seguito di una seconda visita della paziente, aveva poi integrato la terapia, chiesto un controllo a vista della detenuta, consigliato un trasferimento della medesima presso un Ospedale Psichiatrico Giudiziario ed infine rappresentato la necessità di ricorrere allo strumento estremo della contenzione, qualora le predette misure fossero risultate insufficienti.
A seguito di tali richieste del sanitario, la detenuta era stata pertanto sottoposta ad un regime di grande sorveglianza, ma non a vista: il personale penitenziario effettuava pertanto controlli ripetuti, ma senza una cadenza precisa, e senza la presenza fissa in cella di un'unità di polizia penitenziaria.
Qualche giorno dopo l'avvio della procedura per il trasferimento della detenuta in OPG, la medesima, tuttavia, veniva purtroppo rinvenuta impiccata alla grata della cella, mediante l'utilizzo degli slip, unico indumento lasciatole in cella per ragioni di pudore.
Il medico psichiatra era stato assolto dall'accusa di omicidio colposo in entrambi i gradi di giudizio. I giudici di merito avevano infatti rilevato come la condotta del medesimo fosse stata corretta, dovendosi invece la morte della paziente imputare alla mancata predisposizione da parte dei coimputati della misura di sorveglianza a vista della detenuta, già richiesta, come predetto, dal sanitario.
Le parti civili, con il proprio ricorso, contestavano un vizio motivazionale nella sentenza di assoluzione del medico psichiatra. Esse sostenevano, infatti, come nella condotta del medesimo dovessero essere ravvisate le fattispecie di reato di omicidio preterintenzionale o induzione al suicidio.
In particolare, le parti civili ponevano, in primo luogo, in evidenza la gravità della situazione nella quale si era venuta a trovare la detenuta a seguito delle prescrizioni dell'imputato, e consistente in un vero e proprio stato di devastazione psicofisica.
Inoltre, secondo le ricorrenti, il medico psichiatra, a fronte del rifiuto del trattamento farmacologico da parte della paziente, avrebbe dovuto inviare la stessa al trattamento sanitario obbligatorio o in ospedale. Egli avrebbe invece adottato un comportamento "arrogante e di disprezzo", tale da acuire le condizioni di disagio psichico della vittima; avrebbe imposto prescrizioni degradanti e disumane, esponendo la vittima, in condizioni di nudità, al freddo; infine, prescrivendo farmaci inidonei, per la loro debolezza, a sortire alcun effetto, avrebbe violato i doveri fondamentali della propria professione medica.
Tali condotte, violando il diritto alla vita e costituendo un trattamento comportante una grave influenza sulla resistenza umana, fisica e morale, della detenuta, avrebbero inoltre infranto i principi posti in materia dalla giurisprudenza EDU, con specifico riferimento all'art. 2, avente ad oggetto il diritto alla vita, ed all'art. 3, relativo al divieto di trattamenti inumani e degradanti, della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo.
La Corte di Cassazione ha osservato come, secondo un consolidato principio giurisprudenziale, il medico psichiatra sia titolare, nei confronti del proprio paziente, di una posizione di garanzia, che gli impone, laddove sussista un concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidarie, di apprestare specifiche cautele.
Stante tale principio, il Collegio non ha riscontrato vizi logico-giuridici nella sentenza di assoluzione dell'imputato pronunciata dalla Corte d'Appello di Roma.
In tale pronuncia era stato rilevato come il medico avesse innanzitutto effettuato una corretta diagnosi, all'ingresso della detenuta in carcere, prescrivendo un'adeguata terapia e disponendo il collocamento della medesima in una cella liscia, sotto stretta sorveglianza e senza suppellettili e vestiti, attesi i precedenti tentativi di suicidio della paziente.
I giudici di merito avevano giudicato, altresì, corrette le successive prescrizioni effettuate dal sanitario che, a fronte di un rilevato "disicontrollo pulsionale e aggravamento del rischio suicidario", aveva integrato la terapia farmacologica della paziente mediante somministrazione di valium, oltre a segnalare, come predetto, la necessità di controllare la medesima a vista e di trasferirla al più presto in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario.
Secondo la Corte territoriale, infatti, non risultavano, a disposizione del sanitario, condotte alternative al trattamento in carcere: il ricovero in pronto soccorso nulla avrebbe infatti aggiunto in termini di prescrizione farmacologica ed ipotesi diagnostica, mentre, ai fini dell'applicazione di un TSO, risultavano assenti i requisiti richiesti dalla legge.
Le misure della nudità della detenuta, con sorveglianza a vista della medesima, erano state giudicate necessarie, essendo le uniche idonee a garantire un pronto intervento del personale e ad escludere la possibilità di suicidio, quantomeno nel corso del breve periodo che doveva trascorrere prima del trasferimento della donna in altra, più adeguata, struttura.
La Corte d'Appello di Roma ha quindi rilevato come, a fronte dell'alto rischio suicidario della paziente, sulla base delle linee guida più riconosciute nel settore psichiatrico, si rendeva indispensabile procedere sia a tutti gli interventi farmacologici prescritti dall'imputato sia all'esecuzione di una stretta sorveglianza, ventiquattr'ore su ventiquattro, della detenuta, controllata invece in maniera saltuaria ed assolutamente inidonea ad impedire il gesto suicidario.
In definitiva, dunque, la condotta del medico psichiatra è stata giudicata tale da non aver trascurato, ma da aver, anzi, gestito "con competenza ed attenzione al caso concreto" il rischio di un nuovo tentativo di suicidio della paziente, reso ampiamente prevedibile ed intenso dall'unitaria considerazione delle notizie anamnestiche relative ai precedenti tentativi di suicidio della paziente e dell'esito della diagnosi di accettazione.
La responsabilità per il suicidio della detenuta è stata quindi attribuita alla condotta tenuta dai vertici dell'amministrazione dell'istituto carcerario, sulla base dell'accertamento per cui, qualora essi avessero posto in essere una stretta e continua sorveglianza della donna, l'evento lesivo non avrebbe avuto luogo, secondo una valutazione prognostica ex ante, coerente con il noto principio dell'alta probabilità logica e credibilità razionale, proprio del giudizio controfattuale.
D'altra parte - hanno osservato i giudici di legittimità - le circolari del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, così come le linee guida in tema di gestione dei detenuti a rischio suicidario "impongono di fatto al direttore del carcere e al capo della polizia penitenziaria l'assunzione di tutte le iniziative e le condotte necessarie per contenere il pericolo"; nella fattispecie in oggetto, invece, le richieste del medico psichiatra di immediato trasferimento della paziente e di attuazione del regime di sorveglianza a vista non avevano avuto seguito, mancando altresì una "pressante investitura" del Provveditorato per effettuare un immediato trasferimento della detenuta in altro istituto, malgrado l'aggravamento della situazione.
Sulla base di tali motivazioni, pertanto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dalle parti civili, confermando il giudizio di assoluzione nei confronti del medico psichiatra.