mercoledì 18 settembre 2024

L'ASL è civilmente responsabile per il fatto commesso dal medico in servizio presso una struttura sanitaria privata accreditata al Servizio Sanitario Nazionale.

 La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 7215, pronunciata all'udienza del 24 gennaio 2024 (deposito motivazioni in data 19 febbraio 2024), ha preso in esame il tema riguardante la responsabilità civile in capo all'ASL per fatto attribuibile ad un medico in servizio presso una struttura sanitaria privata accreditata al Servizio Sanitario Nazionale.

Il fatto.

Una casa di cura, accreditata al Servizio Sanitario Nazionale, proponeva ricorso, in qualità di responsabile civile, avverso la sentenza con cui la Corte di Appello di Napoli aveva confermato la penale responsabilità di un medico chirurgo in servizio presso la struttura medesima, in ordine al reato di omicidio colposo.

Si contestava al sanitario di aver cagionato per colpa generica la morte di un paziente, in occasione del ricovero del medesimo presso il Pronto Soccorso della clinica, ai fini dell'effettuazione di approfondimenti in merito ai sintomi di una toracoalgia. In particolare, il medico aveva omesso di effettuare una corretta diagnosi dei sintomi dell'IMA (infarto miocardico in fase acuta), ritenendo trattarsi di dolori intercostali, e somministrando, in tal modo, un medicinale analgesico, senza effettuare alcun esame strumentale, nonostante l'anamnesi patologica del paziente; aveva così dimesso il medesimo al domicilio senza sottoporlo a ricovero, in modo da tenerlo costantemente monitorato rispetto ai possibili disturbi del ritmo cardiaco ed eventuali arresti cardiaci. In conseguenza di tali omissioni, era stato provocato un significativo decadimento delle condizioni psicofisiche del paziente, causalmente riconducibile ad un grave danno cerebrale da ipossia, aggravato dalla mancanza di adeguati interventi diagnostici e terapeutici per il recupero della funzionalità cardiaca; il quadro clinico complessivo era quindi peggiorato, nonostante i plurimi ricoveri presso altre strutture sanitarie riabilitative, e si era così determinato, dapprima, uno stato vegetativo permanente del paziente, ed in seguito il decesso.

Tramite i propri motivi di ricorso, la struttura sanitaria contestava la condanna pronunciata nei propri confronti, quale responsabile civile. La ricorrente premetteva di condividere l'impostazione metodologica secondo cui, nel caso in esame andava applicato l'art. 1218 c.c., ravvisando una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria nel cosiddetto contratto di spedalità. Essa si doleva, tuttavia, della contraddittorietà della sentenza, laddove, pur dando atto che il medico operava in una struttura ben organizzata e dotata di tutte le strutture necessarie ad alta specializzazione, tra cui anche un reparto di terapia intensiva cardiologica, ne aveva comunque riconosciuto la responsabilità ai fini civili. La difesa della struttura riportava le deposizioni testimoniali dei dipendenti e dei consulenti sull'organizzazione e le strumentazioni della clinica, dalle quali emergeva, a proprio dire, l'assenza di qualsiasi inadempimento degli obblighi derivanti dal contratto di spedalità, per cui nessuna responsabilità poteva configurarsi a carico della casa di cura.

L'azienda sanitaria locale, quale responsabile civile, lamentava, invece, che la corte d'appello aveva ritenuto precluso l'esame delle questioni sollevate, in conseguenza del fatto che l'ente non aveva proposto impugnazione. Sul punto, rilevava che la posizione del responsabile civile è equiparata alla posizione processuale della parte civile, nel senso che entrambe devono "essere costantemente attive nel formulare le loro domande". Nel procedimento in esame, l'ASL, quale responsabile civile, si era costituita in primo grado, rassegnando in udienza le proprie conclusioni, anche mediante il deposito di memorie scritte; in appello aveva rassegnato le proprie conclusioni e domande, e lo stesso aveva fatto innanzi alla Suprema Corte. Pertanto, concludeva di essere stata "costantemente attiva nel formulare le proprie domande", e richiamava il principio dell'immanenza nel giudizio, chiedendo l'accoglimento delle proprie memorie conclusive.

L'ASL osservava, ancora, nel merito, come il rapporto tra sé medesima e la Casa di Cura non era di subordinazione, come in passato, ma di natura concorrenziale. Richiamava, sul punto, l'art. 8 bis  D.Lgs. 502/92, ove si prevede che: "Le Regioni per assicurare i livelli essenziali di assistenza possono avvalersi di soggetti che siano in possesso di determinati requisiti (definiti ai sensi dell'art. 8 quater D.Lgs. e certificati attraverso la procedura di accreditamento) con i quali poi le Aziende Sanitarie stipulano appositi accordi". Le strutture private, che a seguito dell'accreditamento assumono la qualifica di erogatore di un servizio pubblico, rispondono, pertanto, affermava l'ASL, dell'operato dei loro dipendenti e della qualità delle proprie prestazioni proprio come le strutture pubbliche. L'ASL, pertanto, nel caso in esame, non esercitava alcun controllo sulla struttura sanitaria responsabile civile, la quale era autorizzata ad esercitare l'attività sanitaria dal Comune nel quale insisteva, ed era stata accreditata dalla Regione, in sede di stipula con la ASL locale degli "Accordi Contrattuali ex art. 8 quinquies D.L. 502/92", con i quali si era impegnata: ad adeguare la propria organizzazione interna ai principi di programmazione regionale in materia di "reti cliniche"; a dotarsi di copertura assicurativa; ad erogare le prestazioni sanitarie utilizzando il personale e le figure professionali del ruolo sanitario tecnico e amministrativo previste dalla normativa vigente in materia di autorizzazione e accreditamento; a garantire l'impiego, anche per le attività di consulenza, di personale in possesso di titoli abilitanti che non versasse in situazioni di incompatibilità ai sensi della L. 662/96.

Gli operatori, si rilevava, erano scelti dalla struttura sanitaria privata senza alcuna interferenza dell'ASL, e la predetta si occupava direttamente della propria organizzazione e della manutenzione delle proprie strutture. Il rapporto tra l'ASL locale e la struttura privata, con la stipula della convenzione, era relativo esclusivamente alla remunerazione delle prestazioni a carico del Servizio Sanitario Nazionale erogate dalla casa di cura quale struttura autorizzata dal Comune e accreditata dalla Regione, per garantire il buon uso delle risorse pubbliche e il non superamento dei tetti di spesa. L'Asl sosteneva, perciò, come dell'operato dei sanitari e della qualità delle prestazioni non potesse che rispondere la stessa casa di cura.

Si sottolineava, infine, che nel caso in esame il medico imputato, all'epoca dei fatti, non era dipendente della casa di cura, bensì di una cooperativa di lavoro interinale, ove la struttura sanitaria lo aveva reclutato e la quale provvedeva alla sua retribuzione. Pertanto, l'ASL finiva per rispondere, quale responsabile civile, addirittura di un dipendente di una cooperativa di lavoro interinale con la quale non aveva mai avuto alcun tipo di rapporto. L'ASL riteneva, pertanto, in conclusione, come nessun inadempimento o profilo di responsabilità potesse configurarsi a proprio carico.

La decisione.

La Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso della casa di cura, non essendosi esso adeguatamente confrontato con la motivazione della sentenza impugnata, e non avendo apportato un'adeguata critica con riferimento alla questione dell'avere fornito la casa di cura tutte le attrezzature necessarie per gli esami di natura cardiologica. 

I giudici di legittimità hanno, inoltre, osservato, come il medesimo ricorso non si sia neppure soffermato, sul punto, sulle considerazioni operate dal giudicante, che aveva fatto rientrare nella responsabilità diretta per fatto proprio della struttura ai sensi dell'art. 1228 c.c. anche l'utilizzazione di terzi nell'adempimento della propria obbligazione contrattuale e la diligente selezione del personale medico e paramedicoI giudici d'appello - condividendo quanto affermato dal Tribunale tramite ordinanza con cui era stata rigettata la richiesta di estromissione di tale responsabile civile - avevano correttamente affermato come la responsabilità della struttura fosse da ricondursi all'art. 1228 c.c., ovvero all' inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal medico imputato, quale ausiliario necessario della struttura ospedaliera, pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato (Cass. civ., sent. n. 13953/2007).

Il fondamento della responsabilità derivava, quindi, dal contratto atipico di spedalità esistente fra la struttura sanitaria ed il paziente (per il quale la prima è tenuta ad una prestazione complessa di cui risponde interamente) e sul rapporto assicurativo fra la struttura e la compagnia, senza tener conto che la diversità delle posizioni era idonea a legittimare la comune intenzione delle parti volta ad escludere, come nel caso in esame, la copertura assicurativa per l'operato dei medici non dipendenti della struttura.

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Con riguardo alle argomentazioni rese dall'ASL, la Corte ha in primis osservato come le stesse potessero essere spese - trattandosi di una parte processuale da considerarsi ancora tale - solo ad adiuvandum dei motivi proposti dall'imputato o dall'altro responsabile civile, non avendo l'Ente né proposto appello e nemmeno ricorso per Cassazione. Sul punto,  i giudici di legittimità hanno osservato come, contrariamente a quanto affermato dall'ASL, la Corte territoriale non aveva ritenuto che tale responsabile civile non fosse più parte, e non avesse perciò titolo a concludere, ma solo, correttamente, che le argomentazioni spese - afferenti al suo rapporto con l'altro responsabile civile, e dunque alla sua mancata estromissione - non fossero scrutinabili, atteso che l'ASL non aveva interposto appello.

L'ASL aveva, in seguito, riproposto le medesime argomentazioni anche innanzi alla stessa Suprema Corte, in sede di conclusioni, senza che fosse stato, però, proposto ricorso per cassazione. Ricorso che, peraltro, ha osservato il Collegio, non sarebbe stato proponibile, avendo la giurisprudenza di legittimità stabilito l'inammissibilità del ricorso per cassazione proposto dal responsabile civile avverso la sentenza d'appello, quando questi non abbia impugnato in precedenza la decisione sfavorevole di primo grado. Tale principio - si è infatti osservato - affermato reiteratamente con riferimento alla parte civile, è fondato sulla  considerazione per cui il rapporto processuale civile d'impugnazione trova la sua ragione d'essere sia nella volontà della parte, la quale deve essere costantemente attiva nel formulare le sue domande, che nell'interesse al gravame, fondamento unico per la prosecuzione del giudizio negli ulteriori gradi. Ne deriva, pertanto, che la parte processuale, qualora voglia ottenere una modifica in senso per lei vantaggioso della pronuncia di primo grado, deve proporre rituale impugnazione attraverso l'appello della sentenza. L'omessa tempestiva impugnazione contro la decisione di primo grado comporta quindi la "consunzione" del relativo diritto e la conseguente acquiescenza alla sentenza.

Tanto premesso sotto il profilo processuale, la Suprema Corte ha quindi osservato, nel merito, come la casa di cura offrisse un pubblico servizio in convenzione, di prima assistenza e pronto soccorso, da ciò derivando l'obbligo, in capo all'ASL, di garantire l'idoneità e la validità del servizio. Nel caso di specie, già il giudice di primo grado aveva evidenziato correttamente come la casa di cura fosse una struttura sanitaria privata accreditata al Servizio Sanitario Nazionale, di talché doveva prestarsi adesione all'indirizzo espresso sul tema dalle Sezioni Unite Civili, secondo cui: "In tema di sanità pubblica, il regime dell'accreditamento introdotto dall'art. 8 comma 5 del D.Lgs. n. 502 del 1992 non ha inciso sulla natura del rapporto tra struttura privata ed ente pubblico, che resta di tipo concessorio, atteso che la struttura accreditata, in forza del provvedimento di accreditamento, viene inserita in modo continuativo e sistematico nell'organizzazione della P.A. ed assume la qualifica di soggetto erogatore di un servizio pubblico, con la conseguenza che la domanda di risarcimento del danno erariale cagionato dall'accreditato in seguito alla violazione delle regole stabilite dal predetto regime è devoluta alla giurisdizione della Corte dei Conti" (così S.U. civ., n. 16366 del 18/06/2019).

Sulla base di tali considerazioni, pertanto, in ragione di siffatto rapporto di immedesimazione organicaper il giudice di primo grado non poteva escludersi la responsabilità dell'ASL - che aveva stipulato una convenzione con la struttura sanitaria privata in relazione alle attività di prima assistenza e di pronto soccorso - per l'operato del sanitario che aveva operato quale medico del pronto soccorso.

La Suprema Corte ha condiviso tali argomentazioni e sulla base delle medesime ha pertanto confermato la responsabilità civile della casa di cura e dell'ASL.