La Terza Sezione Penale della Suprema Corte, con la Sentenza n. 40316/2024, ha preso in esame il tema concernente la responsabilità penale del medico nell'ipotesi di inadeguatezza delle linee guida al caso concreto e dell'applicabilità, in tale fattispecie, delle buone pratiche clinico-assistenziali.
Il fatto.
Un'imputata proponeva ricorso avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello di Catania, giudicando in sede di rinvio a seguito di sentenza di annullamento pronunciata dalla Corte di Cassazione, aveva confermato la sentenza di condanna pronunciata nei suoi confronti, in relazione al reato di cui agli artt. 113 e 589 c.p.. Si contestava al medico di aver cagionato il decesso di un feto, a causa dell'omessa corretta valutazione dei segni clinici e dello stato della paziente - già cesarizzata due volte, e con algie pelviche - e della mancata predisposizione ed esecuzione, in maniera costante, del controllo cardiotocografico e del monitoraggio della ripresa del travaglio e dei suoi effetti sulla pregressa cicatrice isterotomica; il sanitario aveva inoltre omesso, secondo l'ipotesi accusatoria, di diagnosticare tempestivamente il pericolo di rottura della parete uterina, rottura poi avvenuta, con conseguente choc emorragico e lipotimia successiva, nonché grave sofferenza ipossica a danno del nato, in seguito deceduto.
In precedenza, la sentenza rescindente aveva evidenziato come le sentenze di merito non avessero chiarito se in quella data situazione - ossia rispetto ad una paziente in quelle condizioni e con quel pregresso - il comportamento doveroso omesso fosse quello di cui all'imputazione, ed aveva rilevato una carenza di motivazione in relazione all'indicazione se il caso concreto fosse regolato da linee-guida o, in mancanza, da buone pratiche clinico-assistenziali; ancora, i giudici di merito avevano omesso di valutare il nesso di causa, tenendo conto del comportamento salvifico indicato dai predetti parametri, di specificare di quale forma di colpa si trattasse, se di colpa generica o specifica, eventualmente alla luce di regole cautelari racchiuse in linee-guida, se di colpa per imperizia, negligenza o imprudenza e se, ed in quale misura, la condotta del sanitario si fosse discostata da linee-guida o da buone pratiche clinico-assistenziali. Il giudice del rinvio doveva, inoltre, tenere conto che le Sezioni Unite della Suprema Corte avevano chiarito che, in tema di responsabilità dell'esercente la pressione sanitaria, l'abrogato art. 3 comma 1 del D.L. n. 158 del 2012 si configura come norma più favorevole rispetto all'art. 590-sexies c.p., introdotto dalla legge n. 24 del 2017, sia in relazione alle condotte connotate da colpa lieve da negligenza o imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve da imperizia, intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto (Sez. U, n. 8770 del 21/12/2017, Mariotti).
La Corte d'Appello di Catania, in sede di giudizio di rinvio, aveva pronunciato la predetta sentenza sulla base delle linee-guida in materia, secondo cui il parto vaginale non è controindicato nelle donne bicesarizzate, ed il monitoraggio continuo è imposto solo in presenza di alcune condizioni, non ricorrenti nel caso di specie; tuttavia, pur in assenza di linee guida che imponessero di disporre il monitoraggio continuo, nel caso concreto, in presenza di donna bicesarizzata, con la testa del nascituro non impegnata, senza dilatazione, che spinge sulla cicatrice, secondo le linee guida del 2012, pacificamente applicabili al caso in esame, alla donna doveva essere garantita un'adeguata sorveglianza clinica ed un monitoraggio elettronico fetale continuo nella fase attiva di travaglio e nella fase di "prodromi da travaglio", presenti nel caso in esame. Il monitoraggio attivo e continuo costituiva, inoltre, condotta doverosa, a livello di buone prassi, al fine di prevenire la rottura dell'utero.
Invero, le specifiche condizioni della paziente, come risultanti dalle evidenze della cartella clinica, imponevano, proprio per i molti fattori di rischio, il continuo monitoraggio fetale, obbligo non osservato dall'imputata, ma imposto, quantomeno, dalle buone prassi nel contesto specifico di concreto rischio di rottura dell'utero. La doverosa condotta, che non avrebbe impedito la rottura dell'utero, avrebbe tuttavia messo in luce le alterazioni del tracciato cardiotocografico, sintomatiche della rotture dell'utero; con un intervento chirurgico tempestivo di taglio cesareo sarebbero stati evitati gravi danni e, con elevata probabilità, la morte del feto, deceduto a seguito di una prolungata sofferenza fetale, individuata in tre/quattro ore, periodo corrispondente a quello intercorso tra la riconduzione in reparto della paziente, senza alcun monitoraggio, e l'emorragia che l'aveva colpita a seguito del a rottura dell'utero.
Conclusivamente, pertanto, il continuo monitoraggio fetale avrebbe rilevato i segni della rottura dell'utero, consentendo un rapido intervento, che con elevata probabilità avrebbe avuto effetti salvifici per il feto. Per i giudici di merito, alla luce dei dati di fatto, la colpa per imperizia in capo al medico era quindi da considerarsi grave.
Tramite i propri motivi di ricorso, l'imputata lamentava la violazione di cui all'art. 627 comma 3 c.p.p., ed un vizio di motivazione in relazione alla corretta qualificazione del reato di cui all'art. 589 c.p. e di applicazione delle norme di cui agli artt. 40 e 43 c.p.; a fronte, infatti, dei rilievi sollevati dalla sentenza di annullamento, la sentenza impugnata aveva lasciato irrisolte le questioni sollevate, non facendo buon governo dei parametri ermeneutici tracciati dalla sentenza rescindente.
Secondo la sentenza impugnata, la condotta specifica omessa, ossia quella del controllo cardiotocografico continuo, non era imposta dalle condizioni del caso specifico, perché non prevista dalle linee guida; i giudici di merito avevano, tuttavia, rimproverato all'imputata di non essersi discostata dalle linee guida, che a quella condotta non la obbligavano. Si evidenziava, pertanto, la manifesta illogicità della motivazione, e la contraddizione tra la premessa e le conclusioni del giudice del merito; la paziente non avrebbe dovuto essere sottoposta a monitoraggio cardiotocografico continuo, non sussistendone i presupposti di rischio disciplinati dalle linee guida, ma quella che era una generica preferenza accordata al monitoraggio cardiotocografico continuo della donna cesarizzata diventava, per i giudici del merito, un vero e proprio obbligo, tenuto conto delle circostanze del caso specifico, e segnatamente dall'insieme di fattori di rischio, tutti ben noti all'imputata, che gravavano sulla paziente. In altri termini, i giudici del rinvio avevano contraddittoriamente rilevato che la paziente non dovesse essere sottoposta a monitoraggio cardiotocografico continuo, perché non previsto dalla linee-guida in assenza dei presupposti ivi previsti, salvo poi affermare che le buone prassi avrebbero imposto il continuo monitoraggio della donna cesarizzata.
La decisione.
La Suprema Corte ha ritenuto congruo e corretto il percorso logico argomentativo dei giudici del rinvio, sul punto oggetto di annullamento, su cui doveva vertere il nuovo giudizio.
I giudici di merito - si è osservato - hanno accertato l'esistenza di linee guida che regolavano il comportamento del sanitario, evidenziando, peraltro, che tali linee guida non imponevano, in assenza delle condizioni ivi previste, il monitoraggio continuo. Tuttavia la buona prassi medica, anche riportata nelle linee guida del 2012, imponeva, nella concreta situazione di rischio della paziente, un'adeguata sorveglianza clinica ed un monitoraggio elettronico fetale continuo nella fase attiva di travaglio; pertanto, in presenza degli specifici fattori di rischio e di prodromi di travaglio, le specifiche condizioni della donna imponevano, secondo le buone pratiche clinico-assistenziali, il monitoraggio continuo, atteso il rischio potenziale dei due tagli cesarei e la conseguente rottura dell'utero.
In conclusione, pur non sussistendo un'indicazione del comportamento doveroso nelle linee guida per il caso concreto, le specifiche condizioni della paziente imponevano al sanitario di adeguare le stesse secondo le buone prassi mediche riportate nelle linee guida del 2012. Il monitoraggio continuo avrebbe, infatti, avuto, con elevata probabilità, effetto salvifico, con dimostrazione del nesso di causa naturalistico e psichico. I giudici del merito avevano, inoltre, qualificato la colpa per imperizia come non lieve, agli effetti della causa di esclusione della punibilità di cui all'art. 3 della legge Balduzzi.
I giudici di legittimità hanno quindi ritenuto come la tesi propugnata dalla ricorrente sia giuridicamente infondata e contraria ai principi affermati, sul punto, dalla giurisprudenza di legittimità.
In primis, la Suprema Corte ha confermato come, nel caso di specie, la disciplina più favorevole debba essere individuata in quella prevista dal decreto Balduzzi, ossia l'art. 3 D.L. 13 settembre 2012, n. 158, convertito con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, secondo il quale: "l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, non risponde penalmente per colpa lieve", come ritenuto dalle Sezioni Unite Mariotti, ai sensi dell'art. 2 comma 4 c.p., rispetto all'art. 590 sexies c.p., introdotto dalla legge Gelli - Bianco nel 2017, sia in relazione alle condotte connotate da colpa lieve da negligenza e imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve da imperizia, intervenuta nella fase della scelta delle linee guida adeguata al caso concreto (S.U. n. 8770 del 21/12/2017, Mariotti).
Su tale punto concordava l'imputata, la quale invocava l'esenzione dalla punibilità per essersi attenuta alle linee guida, che non imponevano di porre in essere la condotta di cui si contestava l'omissione. Tale prospettazione, tuttavia, è stata ritenuta non giuridicamente fondata dal Collegio, alla luce dei principi reiteratamente affermati dalla giurisprudenza di legittimità.
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Con riguardo alla questione concernente la natura delle linee guida, la Suprema Corte ha osservato come la giurisprudenza di legittimità abbia ormai assunto posizioni consolidate.
Richiamando i principi affermati, in particolare, con la sentenza della Quarta Sezione della Suprema Corte, n. 7849 del 2022, si è ribadito che le linee guida non hanno carattere precettivo come quello attribuito alle regole cautelari codificate, poiché hanno un più ampio margine di flessibilità. Le linee guida hanno, infatti, rilievo sul piano orientativo della condotta dell'operatore sanitario, facendo salve le specificità del caso; il rispetto di linee guida accreditate presso la comunità scientifica non determina, perciò, di per sé, l'esonero dalla responsabilità penale del sanitario, ai sensi del previgente art. 3 comma 1 della legge Balduzzi, dovendo comunque accertarsi se la specificità del quadro clinico del paziente imponga un percorso terapeutico diverso rispetto a quello indicato da dette linee guida (Sez. 4, n. 24455 del 22/04/2015, Plataroti). Le linee guida non sono, infatti, in grado di offrire standard legali e precostituiti, non divengono cioè regole cautelari secondo il classico modello della colpa specifica (Sez. 4, n. 1 6237 del 29/01/2013, Cantore). Si è perciò osservato come da un lato la varietà, il diverso grado di qualificazione delle linee guida, e dall'altro, soprattutto, la loro natura di strumento di indirizzo e di orientamento privo della prescrittività propria di una regola cautelare, per quanto elastica, non costituiscono uno strumento di precostituita ontologica affidabilità. Da ciò deriva che, nel caso in cui tali raccomandazioni non siano adeguate rispetto all'obiettivo della miglior cura per lo specifico caso del paziente, l'esercente la professione sanitaria ha il dovere di discostarsene.
Successivamente, le Sezioni Unite Mariotti hanno osservato, al riguardo, che: "Non si tratta, infatti, di uno "scudo" contro ogni ipotesi di responsabilità, essendo la loro efficacia e forza precettiva comunque dipendenti dalla dimostrata "adeguatezza" alle specificità del caso concreto, che è anche l'apprezzamento che resta, per il sanitario, il mezzo attraverso il quale recuperare l'autonomia nell'espletare il proprio talento professionale e, per la collettività, quello per vedere dissolto il rischio di appiattimenti burocratici". Ed ancora, hanno ribadito che si tratta di "regole cautelari valide solo se adeguate rispetto all'obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente", tutto ciò perché le linee guida non hanno carattere cogente e non sono esaustive.
La precedente giurisprudenza di legittimità aveva già affermato tali principi nella vigenza del D.L. 158/2012, osservando che l'errore che sottrae alla sanzione penale presuppone, in ogni caso, che il sanitario si sia orientato secondo le indicazioni ricavate da linee guida: se le linee guida, tuttavia, non sono adeguate allo specifico paziente, e dovevano essere disattese, il medico che ciò nonostante se ne sia fatto osservante cade in errore; tale condotta, comunque, stante l'adesione alle linee guida, sia pure inadeguate, dev'essere considerata lecita, se connotata da colpa lieve (Sez. 4, n. 15258 del 11/02/2020, Agnello).
Alla luce di tali osservazioni, la Suprema Corte ha quindi ribadito come il mero rispetto delle linee guida non esoneri da responsabilità il sanitario, dovendo, nella pratica medica, essere valutata l'adeguatezza della regola cautelare posta in via astratta al caso concreto. Qualora la regola cautelare, posta in via astratta e non esaustiva dalle linee guida, si riveli inadeguata in relazione allo specifico profilo di rischio, valutato in rapporto alla situazione concreta, l'errore del sanitario nell'adattamento delle linee guida rispetto al caso concreto esonera la sua responsabilità solo se lieve.
Come rilevato dalla giurisprudenza di legittimità, se: "il professionista si orienti correttamente in ambito diagnostico terapeutico, si affidi cioè alle strategie suggeritegli dal sapere scientifico consolidato, inquadri correttamente il caso nelle sue linee generali e tuttavia, nel concreto farsi del trattamento, commetta qualche errore pertinente proprio all'adattamento delle direttive di massima alle evenienze ed alle peculiarità che gli si prospettano nello specifico caso clinico", ancora una volta "la condotta sarà soggettivamente rimproverabile, in ambito penale, solo quando l'errore sia non lieve" (Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, Rv. 255105). Dunque, non rileva ex se, quale circostanza di esonero dalla responsabilità penale, l'essersi attenuto alle linee guida, come astrattamente previste, dovendo queste essere adeguate alla situazione concreta e disattese in presenza di specifici fattori di rischio nel caso concreto e il sanitario risponde dell'evento solo quando l'errore sia non lieve.
Ciò posto, con riguardo al caso di specie, secondo la Suprema Corte, i giudici di merito hanno ritenuto, sulla base di un percorso argomentativo non manifestamente illogico che, in presenza della situazione di fatto accertata, sulla base della buona prassi medica del 2012, fosse necessario un controllo continuo, controllo che avrebbe rilevato le anomalie e la conseguente rottura dell'utero, e consentito un intervento rapido con effetti salvifici sul feto con elevato grado di probabilità.
La Corte d'Appello, si è quindi osservato, ha correttamente rilevato un elevato grado di colpa nella condotta dell'imputata, che aveva rimandato la paziente in stanza con la flebo contenente un farmaco che avrebbe bloccato le contrazioni solo per un periodo limitato, e nella scelta di non eseguire alcun monitoraggio e/o alcun controllo manuale, nelle ore successive, nonostante la donna continuasse a stare male, accusando sintomi che la medesima aveva indicato quali segni premonitori del parto nelle due precedenti gravidanze.
In conclusione, i giudici di legittimità hanno quindi affermato come le linee guida, che non prescrivevano il continuo monitoraggio, fossero inadeguate al caso concreto, senza che l'imputata abbia tuttavia declinato la norma cautelare astratta alla peculiarità del caso concreto, in rapporto allo specifico rischio di rottura dell'utero, che imponeva un controllo continuo: tale mancato adeguamento è stato ritenuto a lei imputabile quale colpa grave, essendo mancata, da parte del medico, non solo la valutazione dell'adeguatezza delle linee guida al caso concreto, ma altresì l'individuazione della regola cautelare per prevenire il rischio specifico della rottura dell'utero che, nel contesto specifico, non era affatto imprevedibile. Nella concomitante presenza di tutti i suddetti fattori - ossia il fatto che la gestante avesse in passato già subito due cesarei con correlata cicatrice, che presentasse algie pelviche e che accusasse i segni premonitori del parto, malgrado la mancata dilatazione dell'utero - si imponeva, pertanto secondo le buone prassi mediche, quale condotta doverosa, il monitoraggio costante della paziente.
Tale omissione è stata correttamente ritenuta dai giudici di merito tale da integrare la colpa grave, stanti i principi fissati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di responsabilità dell'esercente la professione sanitaria, nel giudizio sulla gravità della colpa deve tenersi conto - oltre che delle specifiche condizioni del soggetto agente, del suo grado di specializzazione e della situazione specifica in cui si è trovato ad operare - della natura della regola cautelare violata, in quanto l'eventuale natura elastica della stessa, indicando un comportamento determinabile in base a circostanze contingenti, incide sulla esigibilità della condotta doverosa omessa, richiedendo il previo riconoscimento delle stesse da parte dell'agente (Sez. 4 , n. 15258 del 11/02/2020).
Sulla base di tali motivazioni, la Suprema Corte ha pertanto rigettato il ricorso dell'imputata, confermandone la responsabilità penale.