In materia di responsabilità medica, la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 7032, pronunciata all'udienza del 19 luglio 2018 (deposito motivazioni in data 14 febbraio 2019), ha preso in esame il tema relativo alla posizione di garanzia propria del medico di base, preposto al rilascio del certificato medico anamnestico propedeutico all'autorizzazione alla concessione del porto d'armi.
Il giudizio di legittimità è stato introdotto dal ricorso presentato da un medico avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello di Perugia, riformando la pronuncia del locale Tribunale, ne aveva riconosciuto la penale responsabilità per il delitto di omicidio colposo.
Il sanitario aveva rilasciato, in qualità di medico di base, ad un proprio paziente, un certificato anamnestico propedeutico al successivo accertamento delle condizioni psicofisiche per il rilascio dell'autorizzazione al porto di fucile per uso caccia ed esercizio dello sport del tiro a volo e del porto d'armi per difesa personale. In tale certificato, il sanitario aveva attestato l'assenza, nel paziente, di malattie del sistema nervoso e di turbe psichiche, nonché il mancato uso di sostanze psicoattive, allegando l'autocertificazione del paziente in ordine alla veridicità di tali dati.
In precedenza, nei confronti del paziente la Prefettura di Perugia aveva emesso un decreto mediante il quale aveva vietato al medesimo, già titolare di una licenza di porto di fucile, di detenere armi e munizioni, stante la sua sottoposizione a due trattamenti sanitari obbligatori.
Ottenuto il certificato richiesto, il paziente aveva consegnato la documentazione all'ufficiale medico della Polizia di Stato, ai fini della prosecuzione della pratica. L'ufficiale si era limitato a verificare esclusivamente gli apparati visivi ed uditivi del richiedente, non avendo motivo di dubitare di quanto asserito nel certificato anamnestico.
Presentata, in seguito, la richiesta di rinnovo della licenza di porto d'armi, il paziente aveva ottenuto la medesima dalla Questura di Perugia. Il relativo procedimento amministrativo, tuttavia, si era svolto in maniera erronea, in quanto il predetto provvedimento di divieto di detenzione di armi, emesso nei confronti dell'istante, era stato riferito da una funzionaria della Questura di Perugia, anziché al medesimo, al fratello: in conseguenza di tale errore, l'Ufficio aveva accompagnato, al rilascio del rinnovo della licenza, prescrizioni di sicurezza inadeguate alla situazione personale del richiedente.
Egli, in seguito, acquistata una pistola semiautomatica, aveva fatto irruzione in un ufficio pubblico sito in Perugia, esplodendo numerosi colpi di arma da fuoco nei confronti di due dipendenti regionali, le quali avevano perso la vita, e si era poi suicidato per mezzo della medesima arma da fuoco.
Al sanitario era stato contestato di non aver valutato, per colpa generica, che le false attestazioni contenute nel certificato anamnestico rilasciato al paziente avrebbero influenzato in maniera determinante il successivo operato dell'ufficiale medico della Polizia di Stato, indotto in errore nel rilascio del certificato d'idoneità al rinnovo del porto d'armi, avendo confidato nella correttezza dell'operato del collega.
L'imputato sarebbe stato invero consapevole che le dichiarazioni contenute nel certificato erano false: il paziente, infatti, era seguito da strutture specialistiche, a causa di disturbi mentali a lui diagnosticati, ed il medico gli aveva più volte prescritto il farmaco Depakin, indicato nel trattamento e nella prevenzione della mania correlata ai disturbi bipolari e nei casi di epilessia.
Proprio in relazione alla falsità delle dichiarazioni contenute nel certificato, al sanitario erano stati altresì contestati i reati di cui agli artt. 480 e 481 c.p..
La Corte d'Appello di Perugia, ribaltando la pronuncia assolutoria di primo grado, aveva riconosciuto l'imputato colpevole del delitto di omicidio colposo.
I giudici d'appello, in particolare, avevano:
- riconosciuto il nesso di causa tra il certificato anamnestico redatto dal medico ed il rilascio del rinnovo del porto d'armi, stante l'osservazione per cui la normativa che disciplina il procedimento amministrativo è finalizzata proprio a scongiurare il rischio che persone mentalmente instabili possano dotarsi di armi per provocare danni a terzi o a loro stesse;
- ravvisato, altresì, il carattere colposo della condotta dell'imputato, avendo egli rilasciato il certificato anamnestico in assenza di una previa verifica sull'archivio informatico dei pazienti, da cui poteva trarre informazioni circa la possibile presenza di un disturbo psichico del paziente, ed un uso, da parte del medesimo, di sostanze psicotrope;
- escluso invece la responsabilità del sanitario in relazione al suicidio del paziente, il quale aveva avuto infatti, a propria disposizione, mezzi alternativi all'uso dell'arma da fuoco per porre fine alla propria vita; pertanto, non si poteva affermare che la condotta doverosa del medico avrebbe evitato l'evento del suicidio del paziente.
Tramite il proprio ricorso per cassazione, il medico aveva contestato la sussistenza del nesso di causa tra la propria condotta e gli eventi omicidiari, nonché la rimproverabilità per colpa del proprio comportamento.
Egli aveva affermato, in relazione al primo profilo, come il fatto per cui il personale della Questura di Perugia non avesse adeguatamente considerato il Decreto relativo al divieto di detenere armi e munizioni, emesso tempo prima nei confronti del paziente dalla Prefettura di Perugia, fosse da considerarsi idoneo ad interrompere il nesso di causa, stante la sua imprevedibilità: tale Decreto, così come i disturbi psichici di cui soffriva il richiedente erano infatti perfettamente noti ai funzionari della Questura che avevano istruito la pratica.
In relazione alla colpa contestatagli, l'imputato aveva sostenuto la non prevedibilità ed evitabilità degli omicidi commessi dal proprio paziente.
Le parti civili, prossime congiunte del paziente, avevano, a loro volta, proposto ricorso per cassazione, contestando il mancato riconoscimento di un nesso di causa tra la condotta del sanitario e il suicidio del proprio congiunto: a loro dire, infatti, la posizione di garanzia del medico era tale da ricomprendervi anche l'obbligo giuridico di impedire la morte per suicidio del paziente medesimo, mediante l'osservanza delle norme cautelari relative alla procedura di rinnovo del porto d'armi.
La Corte di Cassazione ha, innanzitutto, operato una ricognizione delle posizioni di garanzia dei sanitari nella materia in questione, e delle correlative norme cautelari.
Si è così osservato come la disciplina di pubblica sicurezza relativa al rilascio dell'abilitazione all'acquisto, alla detenzione ed al porto d'armi (ed il relativo procedimento amministrativo) trova la propria finalità nell'impedire che esse si trovino nella disponibilità di soggetti che possano utilizzarle in violazione delle prescrizioni che sono state loro impartite e/o in danno dei consociati.
Il medico di base e l'ufficiale sono, di conseguenza, nell'ambito del relativo procedimento amministrativo, titolari di una posizione di garanzia di controllo, fondata sull'art. 2050 c.c., avente ad oggetto l'obbligo di neutralizzare i pericoli che l'istante può cagionare ai consociati. Tale posizione di garanzia contempla altresì il dovere giuridico di accertare il possesso, da parte del richiedente, dei necessari requisiti psicofisici: a questo fine, i medici dipendenti delle strutture medico - legali delle ASL, delle strutture militari o della Polizia di Stato emettono un'apposita certificazione, fondata, a sua volta, su di un certificato anamnestico rilasciato dal medico curante. Tale certificato, come anticipato, deve attestare l'assenza di alterazioni neurologiche, di disturbi mentali, di personalità o comportamentali, di dipendenza da (ma anche di assunzione occasionale di) sostanze stupefacenti o psicotrope o, ancora, dall'alcool.
Non c'è quindi dubbio, secondo i giudici di legittimità, che gli eventi omicidiari occorsi nel caso concreto, essendo strettamente collegati all'attività oggetto di autorizzazione, rappresentino esattamente la concretizzazione del rischio che le norme cautelari mirano ad evitare.
I giudici di legittimità hanno quindi rilevato come sicura rilevanza debba essere attribuita, nel concatenarsi degli eventi, alla condotta tenuta dal medico curante in relazione al certificato anamnestico, dovendo esso fornire una prima base informativa per le successive determinazioni dell'ufficiale sanitario e dei funzionari della Questura in ordine all'idoneità psichica del richiedente.
La possibilità che tale attestazione potesse essere recepita in maniera pedissequa dal medico certificatore è stata giudicata dalla Corte "non remota", con conseguente rilascio del certificato di idoneità e del porto d'armi.
Da un punto di vista causale, la condotta dolosa omicidiaria posta in essere dal paziente non è stata ritenuta tale da determinare l'interruzione del nesso di causa ai sensi dell'art. 41 c.p., per mancanza dei necessari caratteri dell'abnormità e dell'atipicità. Ciò in quanto "la valutazione dei problemi psichiatrici è imposta proprio al fine di escludere dal possesso di armi da sparo soggetti in condizioni psichiche tali da non dare sicuro affidamento sul pieno equilibrio e autocontrollo, data la estrema pericolosità che da esse può derivare".
Analoga conclusione è stata raggiunta dalla Corte anche in relazione alla condotta dei funzionari della Questura, che avevano trascurato l'esistenza del Decreto prefettizio, avente ad oggetto il divieto di detenere armi e munizioni. Ciò non costituisce, a sua volta, una causa sopravvenuta autonoma ed indipendente, ma una concausa del rilascio del provvedimento di autorizzazione da parte della Questura che aveva permesso all'omicida di acquistare l'arma da fuoco.
In relazione al suicidio commesso dal paziente, la Corte di Cassazione ha invece escluso che tale evento possa essere attribuito al sanitario, non potendo essere ricompreso nel novero di quelli che la regola cautelare da egli violata è finalizzata ad impedire, rigettando pertanto il motivo di ricorso proposto dai prossimi congiunti del paziente. Tale regola cautelare, infatti, è "incentrata sugli obblighi di controllo dello svolgimento delle attività pericolose e non già su quelli di protezione di colui che richiede l'autorizzazione al porto di armi".
In capo al sanitario non era quindi configurabile un obbligo giuridico di impedire l'evento suicidario, essendo il paziente equiparato, a livello giuridico, "ad una fonte di pericolo rispetto alla quale il garante ha il dovere di neutralizzarne gli effetti lesivi verso i terzi", non invece verso se stesso.
La responsabilità a titolo di colpa per l'evento suicidario è invece configurabile - hanno osservato i giudici di legittimità - a carico di chi riveste una posizione di garanzia c.d. di protezione, la quale impone di tutelare il bene giuridico protetto da qualunque rischio possa lederne l'integrità. Si tratta della situazione relativa al medico psichiatra ed agli altri operatori sanitari di tale settore i quali, avendo in cura il paziente affetto da malattia mentale, "hanno il dovere di tutelare il soggetto debole, non solo rispetto agli atti eterolesivi, ma anche a quelli pregiudizievoli per se stesso, in ragione della peculiare complessità della situazione rischiosa che sono tenuti a governare".
Il Collegio ha invece accolto il motivo di ricorso dell'imputato attinente alla prevedibilità dell'evento omicidiario, accertamento sempre imposto dal principio di colpevolezza in base alla c.d. "concretizzazione del rischio"; fermo restando che, come insegnato dalle Sezioni Unite Espenhahn, "la necessaria prevedibilità dell'evento anche sotto il profilo causale non può riguardare la configurazione dello specifico fatto in tutte le sue più minute articolazioni, ma deve mantenere un certo grado di categorialità, nel senso che deve riferirsi alla classe di eventi in cui si colloca quello oggetto del processo"; nell'ipotesi, quindi, di un omicidio colposo, trattasi della prevedibilità circa la lesione non già dell'integrità fisica, ma del bene vita.
A questo riguardo, la Corte d'Appello aveva affermato come le informazioni circa lo stato di salute del paziente, conoscibili da parte dell'imputato, fossero tali da far sorgere seri dubbi circa la patologia psichiatrica di cui egli soffriva, unitamente all'uso di sostanze psicotrope, con conseguente necessità di non rilasciare il certificato, attivandosi invece per ulteriori approfondimenti.
Pur essendo ciò indiscutibile, i giudici di legittimità hanno tuttavia rilevato come un profilo completamente differente sia rappresentato dalla connessione della condotta del medico all'evento omicidiario, e dalla prevedibilità di quest'ultimo.
Carente è infatti stata giudicata la motivazione, su tale punto, dei giudici d'appello, che avevano affermato come tale evento fosse prevedibile in quanto il procedimento amministrativo nel quale intervenne il sanitario è finalizzato ad evitare che persone pericolose entrino in possesso di armi utilizzabili al fine di recare offesa all'incolumità di terzi. Tale argomentazione è stata tuttavia ritenuta sufficiente al solo fine del giudizio in ordine alla prevedibilità dell'uso del certificato, da parte del paziente, per armarsi, ma non anche per togliere la vita ad altri o a se stesso.
Al fine, invece, di dimostrare la prevedibilità delle azioni omicidiarie, i giudici di merito avrebbero dovuto valutare la possibile sussistenza di altre circostanze, quali: la conoscenza della specifica patologia psichica del paziente, la conoscenza della personalità dello stesso, ma soprattutto di circostanze in grado di dare indicazioni circa l'orientamento della sua volontà rispetto alla frustrazione, all'inimicizia, al rispetto dell'altrui persona"; e considerando, altresì, l'abitudine del paziente ad assumere comportamenti ingannatori anche nei confronti del medico curante, cui aveva dichiarato di aver fornito dichiarazioni veritiere, pur essendo consapevole delle sanzioni previste dalla legge in caso di falsità.
La Corte ha pertanto ritenuto viziata la motivazione della Corte d'Appello sul punto relativo alla prevedibilità dell'evento omicidiario, annullando, di conseguenza, con rinvio la sentenza della Corte d'Appello di Perugia.