lunedì 6 luglio 2020

E' responsabile di lesioni volontarie dolose, e non colpose, colui che cagioni una malattia esercitando l'attività medica in mancanza di un titolo abilitativo valido in Italia.

La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 4759, pronunciata all'udienza del 16 novembre 2018 (deposito motivazioni in data 30 gennaio 2019), ha preso in esame il tema relativo alla responsabilità di colui che cagioni ad alcuno una malattia, esercitando un'attività sanitaria, pur nella consapevolezza di essere privo di un titolo abilitativo valido in Italia.

Il giudizio di legittimità ha tratto origine dal ricorso presentato da un imputato avverso la Sentenza con cui la Corte d'Appello di L'Aquila ne aveva confermato la penale responsabilità per il delitto di lesioni volontarie gravi. Egli aveva infatti sottoposto a cure dentistiche un paziente, provocandogli un indebolimento dell'apparato dentario e dell'organo della masticazione. Tale attività sanitaria era stata posta in essere senza che l'imputato fosse in possesso di una laurea riconosciuta in Italia, ma solo di un titolo conseguito in Serbia; egli non era quindi iscritto nell'albo professionale e non aveva un'adeguata competenza tecnica. Inoltre, era risultato come non fosse stato prestato, da parte del paziente, alcun consenso informato circa i requisiti professionali dell'imputato.

Con uno dei motivi di ricorso, l'imputato contestava la natura dolosa del fatto di lesioni per cui era stata affermata la sua responsabilità. Egli sosteneva come non fosse corretto riconoscere nella sua condotta il dolo eventuale: da un lato, non si era infatti rappresentato di provocare un nocumento al paziente e, dall'altro, aveva conseguito un titolo di studio che, sulla base di quanto gli era stato prospettato, riteneva fosse abilitante all'esercizio della professione sanitaria in tutti i paesi europei.

La Corte di Cassazione ha osservato come la mancanza, in capo all'imputato, di un diploma di laurea riconosciuto in Italia e di un'abilitazione professionale che lo legittimasse a praticare terapie ed interventi chirurgici sui pazienti sia tale da collocare la sua condotta al di fuori della copertura costituzionale riconosciuta a colui che eserciti un'attività medica. Tale "copertura", come noto, prevede che la condotta volontaria del medico che incida sull'integrità fisica del paziente giaccia al di fuori del campo di applicazione del delitto di lesioni personali dolose (principio affermato dalle Sezioni Unite Giulini n. 2437/2008).
Tanto più - ha affermato la Corte - che l'attività posta in essere dall'imputato, incidente sull'integrità personale della persona offesa, era svolta nella consapevolezza di non essere a ciò legittimato.

I giudici di legittimità hanno quindi approvato il riconoscimento del dolo eventuale nella condotta dell'imputato (richiamando, altresì, il precedente rappresentato dalla Sentenza n. 3222/12 della stessa Quarta Sezione): egli infatti, consapevole di essere privo di un'abilitazione professionale, aveva accettato il rischio che la propria attività cagionasse lesioni al paziente, determinandosi quindi ad agire nonostante tale rappresentazione; ciò senza aver informato il paziente della mancanza della necessaria abilitazione, ma avendo anzi continuato a praticare nei suoi confronti le cure per un lungo periodo di tempo e con esito negativo.
Tali elementi sono stati pertanto considerati indicativi della sussistenza, in capo all'imputato, non di negligenza, imprudenza o imperizia, ma di una volontarietà: egli aveva infatti accettato il possibile verificarsi dell'evento lesivo pur di conseguire comunque il profitto derivante dall'attività da lui esercitata.
Inoltre, tale asserzione è stata giudicata dalla Corte compatibile con quanto affermato, in tema di dolo eventuale, dalle Sezioni Unite Espenhahn: "la determinazione manifestata dall'imputato nell'agire abusivamente e nel protrarre il trattamento nonostante gli esiti che via via venivano alla luce, infatti, induce a ritenere logicamente evincibile che l'imputato si fosse chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell'evento concreto, e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito (l'ottenimento del compenso dal paziente) e l'eventuale prezzo da pagare (la sottoposizione del paziente ad un'attività abusiva cui questi non aveva validamente acconsentito e per la quale l'imputato non era in possesso dell'abilitazione), si fosse determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l'evento lesivo".

Infine, i giudici di legittimità hanno altresì escluso che nella condotta dell'imputato fosse riconoscibile la c.d. colpa cosciente: tale forma di colpa, infatti, presuppone che la volontà del soggetto agente non sia diretta verso l'evento; egli, al contrario, dopo essersi rappresentato il nesso causale tra la violazione delle norme cautelari e l'evento, si determina a non tenere la condotta doverosa per ragioni di esclusiva trascuratezza, imperizia, insipienza o irragionevolezza, nella convinzione di poter, comunque, evitare il verificarsi dell'evento.

Sulla base di tali motivazioni, la Corte di Cassazione ha pertanto giudicato manifestamente infondata la doglianza dell'imputato, dichiarandone inammissibile il ricorso.