sabato 18 agosto 2018

Estorsione da parte del datore di lavoro nei confronti dei dipendenti ed autoriciclaggio dei profitti ottenuti.

La Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 25979, pronunciata all'udienza del 4 maggio 2018 (deposito motivazioni in data 7 giugno 2018), ha preso in esame una fattispecie di estorsione consumata da parte del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti, seguita da una successiva condotta di autoriciclaggio dei profitti in tal modo conseguiti.

Il giudizio di legittimità ha tratto origine dall'impugnazione presentata dagli imputati avverso l'ordinanza con la quale il Tribunale del riesame di Brindisi aveva rigettato l'istanza ex art. 324 c.p.p. proposta dagli indagati nei confronti del decreto di sequestro preventivo emesso dal G.I.P. e finalizzato alla confisca diretta o per equivalente di denaro, beni o altre utilità costituenti profitto di reato.

Nella fattispecie, agli indagati (uno amministratore unico, Presidente del consiglio di amministrazione e coamministratore con poteri disgiunti di una S.r.l., l'altro amministratore delegato e coamministratore della società) era innanzitutto contestato il delitto di estorsione nei confronti di propri dipendenti. Secondo l'ipotesi accusatoria, infatti, essi, minacciando una molteplicità di lavoratori di non assunzione o di licenziamento, li avrebbero costretti ad accettare retribuzioni inferiori a quelle risultanti dalle buste paga e a sopportare orari superiori a quelli contrattualmente stabiliti; gli indagati, così come la medesima società, avrebbero conseguito un ingiusto profitto in danno dei dipendenti.
In secondo luogo, ai ricorrenti era contestato il delitto di autoriciclaggio. Tale fattispecie di reato sarebbe stata integrata dalla condotta consistente nel destinare il denaro proveniente dal delitto estorsivo (pari a circa 508.000 euro) alla retribuzione in nero di dipendenti legati agli indagati da un rapporto di fiducia.

Con il ricorso, i datori di lavoro contestavano entrambe le ipotesi accusatorie. 
Quanto al delitto di estorsione, essi affermavano come l'ordinanza fosse mancante di motivazione sul punto, avendo, tra l'altro, il giudice accolto la richiesta di sequestro preventivo del Pubblico Ministero solo limitatamente a quattro dipendenti, rigettando l'ipotesi di un'estorsione ambientale implicita; inoltre, due di tali dipendenti avevano già raggiunto, in sede di conciliazione, un accordo transattivo relativamente alle pretese economiche insoddisfatte; infine, mancava, a detta dei ricorrenti, non trovava riscontro l'ipotesi del licenziamento, mai verificatosi, da eseguirsi in caso di mancata firma di prospetti per importi decurtati.

Con riferimento al delitto di autoriciclaggio, i datori di lavoro contestavano la mancanza dell'elemento oggettivo di tale delitto, attesa l'inidoneità delle condotte contestate ad ostacolare concretamente l'individuazione della provenienza illecita dei beni. 
In particolare, la tesi difensiva poggiava sull'interpretazione del concetto di "ostacolare" di cui all'art. 648 ter.1 c.p., da intendersi come "interposizione di un mezzo di qualunque genere allo svolgimento di un'azione o all'esplicazione di una facoltà così che devono considerarsi tipiche esclusivamente le attività di reimmissione nell'economia legale di beni di provenienza delittuosa costituenti ostacolo idoneo e preordinato alla loro identificazione".

La Suprema Corte, relativamente al primo motivo di ricorso, ha riconosciuto la piena integrazione, nella fattispecie in esame, del delitto di estorsione. I giudici di legittimità hanno infatti ribadito un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale: "integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell'offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, in particolare consentendo a sottoscrivere buste paga attestanti il pagamento di somme maggiori rispetto a quelle effettivamente versate".
Nel caso in esame, infatti, si era verificata l'accettazione di condizioni retributive non corrispondenti al lavoro svolto, come conseguenza delle frequenti intimidazioni da parte dei datori di lavoro, che prospettavano la perdita del posto di lavoro oppure trasferimenti in sedi disagiate, così costringendo di fatto le dipendenti a rinunciare a parte del salario.

Per quanto invece concerne l'ipotesi di autoriciclaggio, la Suprema Corte si è innanzitutto soffermata sulle caratteristiche della condotta di tale delitto, ed in particolare sulla sua idoneità ad "ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa", come richiesto dalla norma di cui all'art. 648 ter.1 c.p.. 
I giudici di legittimità hanno quindi osservato come la condotta debba essere "dotata di particolare capacità dissimulatoria, cioè idonea a provare che l'autore del delitto presupposto abbia effettivamente voluto attuare un impiego finalizzato ad occultare l'origine illecita del denaro o dei beni oggetto del profitto sicché rilevano penalmente tutte le condotte di sostituzione che avvengano attraverso la reimmissione nel circuito economico-finanziario ovvero imprenditoriale del denaro o dei beni di provenienza illecita, finalizzate a conseguire un concreto effetto dissimulatorio che sostanzia il quid pluris che differenzia la condotta di godimento personale, insuscettibile di sanzione, dall'occultamento del profitto illecito, penalmente rilevante".
Nella fattispecie oggetto del giudizio, la Corte ha quindi riconosciuto l'integrazione anche di tale fattispecie di reato. Infatti, l'ottenimento di liquidità mediante le condotte estorsive, consistenti nella mancata corresponsione degli anticipi solo formalmente versati in contanti, delle quattordicesime mensilità, del corrispettivo dei permessi non goduti, ed il successivo utilizzo di tali fondi per pagare provvigioni od altri benefit aziendali in nero è riconducibile alla tipologia di condotta prevista dall'art. 648 ter.1 c.p.. In tali fatti - ha osservato la Corte - è riconoscibile una condotta di reimmissione dei fondi illeciti nel circuito aziendale, concretamente ed efficacemente elusiva dell'identificazione della provenienza delittuosa della provvista.
I giudici di legittimità hanno inoltre affermato come non sia fondata la tesi difensiva secondo la quale, ai fini dell'integrazione del delitto de quo, rilevino le condotte che importano un mutamento della formale titolarità del bene o delle disponibilità. 
Il delitto di autoriciclaggio, infatti, non presuppone e non implica che l'autore ponga in essere altresì un trasferimento fittizio ad un terzo dei cespiti provenienti dal reato presupposto, dal momento che l'eventuale coinvolgimento di un "prestanome" impedisce di ricondurre questa diversa condotta nell'ambito delle operazioni idonee ad ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa dei beni ex art. 648 ter.1 c.p., che si riferiscono al solo soggetto agente del delitto in questione.
Proprio per tale ragione, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che sussista un concorso di reati tra la fattispecie di autoriciclaggio e quella di trasferimento fraudolento di valori ex art. 12 quinquies D.L. 306/1992 (ora art. 512 bis c.p.). Al riguardo si è infatti affermato il principio di diritto per cui: "Il delitto di trasferimento fraudolento di valori, di cui all'art. 12 quinquies del D.L. 8 giugno 1992, n. 306 (convertito, con modificazioni, in l. 7 agosto 1992, n. 356) concorre con il delitto previsto dall'art. 648-ter.1 cod. pen., in quanto la condotta di autoriciclaggio non presuppone e non implica che l'autore di essa ponga in essere anche un trasferimento fittizio ad un terzo dei cespiti rivenienti dal reato presupposto" (Cass. pen., Sez. II, n. 3935/2017).
La Corte non ha inoltre ritenuto pertinente al caso in esame un precedente giurisprudenziale citato dalla difesa in sede di discussione, e riguardante un caso di versamento del profitto di un furto su carta di credito prepagata, intestata allo stesso autore del reato presupposto: infatti, ai sensi degli artt. 2082 c.c. e 106 T.U. delle leggi in materia bancaria e creditizia, le modalità di sostituzione esulavano dall'attività "economica" o "finanziaria" prevista dalla norma relativa all'autoriciclaggio, mentre il mero versamento del provento illecito sulla carta non costituisce attività idonea ad occultare la provenienza delittuosa del denaro oggetto di profitto, a causa del difetto del requisito della capacità dissimulatoria.

Il ricorso è stato pertanto dichiarato inammissibile dalla Suprema Corte, in quanto manifestamente infondato.