mercoledì 22 agosto 2018

Procedimento di reclamo ex art. 410 bis c.p.p.: quale rimedio è esperibile in caso di violazione del diritto al contraddittorio?

Con l'Ordinanza n. 17535, pronunciata all'udienza del 23 marzo 2018, la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha preso in esame una questione relativa all'istituto del reclamo avverso il decreto di archiviazione, introdotto dalla l. n. 103/2017. In particolare, la Suprema Corte si è soffermata sui possibili rimedi esperibili in caso di violazione del contraddittorio e del diritto di difesa nel corso della procedura prevista dall'art. 410 bis c.p..

Il giudizio innanzi alla Corte era stato introdotto dal ricorso presentato dalla persona offesa avverso l'ordinanza con cui il Tribunale di Palmi aveva dichiarato inammissibile il reclamo proposto dalla persona offesa contro il decreto di archiviazione emesso nei confronti dell'imputato per il delitto di cui all'art. 392 c.p., sebbene essa avesse proposto rituale atto di opposizione.
Il Tribunale aveva motivato tale decisione sulla base della genericità della contestazione, da parte della persona offesa, delle ragioni poste dal G.I.P. alla base del decreto di archiviazione.

La persona offesa fondava il proprio ricorso, in particolare, sulla violazione dell'art. 410 bis c.p.p., atteso che il Tribunale aveva omesso di avvisare la medesima p.o. della data di fissazione dell'udienza per la decisione in ordine al reclamo, con conseguente impossibilità di esercitare la facoltà di presentare memorie fino a cinque giorni prima dell'udienza, come previsto dall'art. 410 bis comma 3 c.p.p..
La persona offesa proponeva che fosse rimessa alla Corte Costituzionale una questione di legittimità circa lo stesso art. 410 bis c.p.p., in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui esso non prevede alcuna possibilità di proporre impugnazione, pur in presenza di un'evidente violazione del diritto di difesa come quella verificatasi nel caso di specie. Al riguardo, si evidenziava come la "non impugnabilità" dell'ordinanza emessa all'esito del procedimento di reclamo, di cui all'art. 410 bis comma 3 c.p.p., andasse interpretata con esclusivo riferimento alla fondatezza delle doglianze, e non invece in relazione al rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa, esercitabile nella fattispecie mediante il deposito di memorie difensive.

La Suprema Corte ha innanzitutto affermato come tale ultima tesi difensiva non possa essere accolta, dovendo la non impugnabilità dell'ordinanza in discorso intendersi come riferita anche alle ipotesi di violazione del diritto al contraddittorio, alla luce altresì del principio di tipicità dei mezzi di impugnazione e della legittimazione ad impugnare ex art. 568 c.p.p.; pertanto il provvedimento conclusivo della procedura di reclamo non è neppure ricorribile per cassazione.
Al riguardo, la Corte ha infatti osservato come tale non impugnabilità sia conforme ai principi costituzionali e sovranazionali: l'art. 111 comma 7 Cost. prevede infatti che sia sempre possibile il ricorso per violazione di legge contro i provvedimenti sulla libertà personale nonché contro le sentenze. A tale ultima categoria non può tuttavia essere ricondotto il provvedimento in materia di archiviazione, come più volte affermato in passato dalla giurisprudenza di legittimità: decisiva in tal senso è sempre risultata "l'intrinseca differenza fra le sentenze e altri provvedimenti sforniti di uno specifico valore decisorio che non sia quello rebus sic stantibus, come l'ordinanza o il decreto di archiviazione".
Inoltre - ha osservato la Corte - in caso di decreto di archiviazione, provvedimento caratterizzato da una limitata efficacia di accertamento, la persona offesa può esercitare i propri diritti consistenti, da un lato, nel sollecitare la riapertura delle indagini, anche sulla base di proprie indagini difensive e, dall'altro, di proseguire la propria azione in sede civile.

In tal senso si è pronunciata altresì la giurisprudenza costituzionale, la quale ha evidenziato "la natura "interlocutoria e sommaria…,finalizzata a un controllo di legalità sull'esercizio dell'azione penale e non a un accertamento sul merito dell'imputazione, dell'archiviazione e la ratio, esclusivamente servente il controllo di legalità e obbligatorietà dell'azione penale, che tradizionalmente si riconosce assistere lo ius ad loquendum e gli strumenti di tutela dell'offeso (C. cost. ord. nn. 153 del 1999, 150 del 1998, 54 del 2003; sent. n. 319 del 1993)".
Altre pronunce della Consulta - ha aggiunto la Suprema Corte - sono pervenute alla medesima conclusione circa l'insuperabile differenza tra ordinanze e sentenze (anche di non luogo a procedere), facendo leva sulla già citata possibilità di riapertura delle indagini nonché sul fatto che il decreto di archiviazione consiste in un mero accertamento di superfluità del processo, funzione dunque ben distinta da quella delle sentenze, da rinvenirsi invece nell'accertamento della sussistenza del fatto, della sua riferibilità al soggetto e della sua qualificazione in termini di reato.

Ad analoghe conclusioni è pervenuta la giurisprudenza civile, che ha statuito come "un provvedimento qualificato dalla legge come ordinanza o decreto in tanto può (...) essere impugnato con ricorso per Cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., in quanto abbia natura e carattere sostanziale di sentenza e, cioè, decida, con efficacia di giudicato, su una domanda proposta da una parte nei confronti dell'altra, riconoscendo o negando un diritto soggettivo oggetto di controversia, sì che la eventuale ingiustizia comporterebbe per la parte un pregiudizio definitivo ed irreparabile, se non fosse assicurato quel controllo di legittimità della Corte di Cassazione sui provvedimenti giurisdizionali decisori, che la norma costituzionale ha inteso inderogabilmente garantire" (da ultimo, Cass. Civ., 24155/2014).

Infine, i giudici di legittimità hanno osservato come l'ordinanza adottata in sede di reclamo, essendo funzionale all'accertamento dell'esistenza di nullità concernenti il decreto o l'ordinanza di archiviazione, trae da questi ultimi il proprio fondamento sistematico, da ciò derivando come non possa avere, rispetto ad essi, una più ampia efficacia di accertamento sui fatti, dato anche il suo ristretto ambito di cognizione. Peraltro, come in precedenza osservato in relazione agli altri provvedimenti in materia di archiviazione, si è aggiunto come anche successivamente al provvedimento di reclamo, resti esperibile il rimedio consistente nella richiesta di riapertura delle indagini.

Prendendo poi in esame la questione di legittimità costituzionale prospettata dalla persona offesa, la Suprema Corte ha affermato come l'art. 410 bis c.p.p. non sia in contrasto né con l'art. 3 né con l'art. 24 Cost.: in relazione a quest'ultimo, in particolare, si è osservato come il reclamo sia già di per sé strumento di verifica della correttezza della decisione del G.I.P. di accogliere la richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero; d'altra parte, si è aggiunto, prevedere un ulteriore controllo significherebbe prefigurare come necessaria la proponibilità di impugnazioni tendenzialmente all'infinito.

Dopo aver giudicato l'art. 410 bis c.p.p. non in contrasto con la disciplina costituzionale, la Corte ha preso in esame la sua compatibilità con le norme CEDU e con il diritto dell'Unione Europea.
In relazione alle norme convenzionali, si è osservato come la garanzia del doppio grado di giurisdizione sia stata prevista solo con riferimento alle ipotesi di "condanna in materia penale" (art. 2, VII protocollo addizionale CEDU), ferma comunque restando la facoltà del legislatore nazionale di delimitare i motivi di impugnazione, confinandoli per esempio alle sole questioni di diritto o prevedendo eccezioni per i reati minori. Nessuna disposizione convenzionale, invece, prevede la garanzia della possibilità di sottoporre a verifica ogni provvedimento giudiziario.

Per quanto invece concerne la legittimità della norma in discorso rispetto al diritto dell'Unione, i giudici di legittimità hanno ricordato come in passato la giurisprudenza della Corte abbia respinto la tesi dell'incompatibilità con le norme comunitarie dell'assetto normativo precedente alla Riforma Orlando. A questo proposito, si è infatti evidenziato come l'art. 11 della Direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012  si limiti, in materia, a stabilire che: "Gli Stati membri garantiscono alla vittima, secondo il ruolo di quest'ultima nel pertinente sistema giudiziario penale, il diritto di chiedere il riesame di una decisione di non esercitare l'azione penale. Le norme procedurali per tale riesame sono determinate dal diritto nazionale". Pertanto, fu respinta la questione di legittimità costituzionale degli artt. 409 comma 6 e 127 c.p.p. nella parte in cui non prevedono il diritto della persona offesa di ottenere il riesame della decisione circa il non esercizio dell'azione penale anche in relazione a vizi di motivazione; al riguardo, si affermò infatti come l'ordinamento italiano preveda un equilibrato sistema di controllo in ordine alla decisione del P.M. di non esercitare l'azione penale, attraverso il provvedimento motivato di un giudice emesso a seguito del riesame dei fatti, e con l'intervento della persona offesa. 
Da questo punto di vista - ha osservato la Corte - nulla è cambiato in seguito all'entrata in vigore della l. 103/2017, che ha conservato la facoltà per la persona offesa di chiedere la verifica del rispetto del proprio diritto a formulare osservazioni e richieste al G.I.P. in merito alla richiesta di archiviazione dell'organo inquirente. Tale controllo è stato affidato al Tribunale monocratico anziché alla Corte di Cassazione, ma tale modifica è da considerarsi del tutto irrilevante in relazione alle garanzie previste dal diritto dell'Unione Europea.

Premesse, dunque, le statuizioni circa la non impugnabilità dell'ordinanza conclusiva della procedura di reclamo e la compatibilità di tale sistema con le fonti costituzionale, convenzionale e comunitaria, la Suprema Corte  si è chiesta se sia ipotizzabile, a tutela del diritto di difesa, un rimedio giurisdizionale nelle ipotesi come quella in esame in cui l'ordinanza in discorso sia emessa in violazione del diritto al contraddittorio in capo all'istante.
La risposta, secondo i giudici di legittimità, deve necessariamente essere positiva. Se infatti l'ordinamento prevede un rimedio avverso una decisione, il soggetto cui esso è riconosciuto deve poterne fruire, esercitando le relative facoltà, nel rispetto dell'art. 24 comma 2 Cost., il quale dispone che la difesa è un diritto inviolabile "in ogni stato e grado del procedimento".
La violazione dell'art. 410 bis c.p.p. in merito alla possibilità di esercitare il diritto al contraddittorio potrebbe d'altronde configurare una nullità di ordine generale la quale, tuttavia, in caso di rigetto o di dichiarazione di inammissibilità del reclamo, non potrebbe mai essere dedotta.

La Corte di Cassazione dunque, nel caso di specie, ha individuato un rimedio consistente nella richiesta di revoca del provvedimento emesso dal giudice del reclamo in difetto di contraddittorio: tale provvedimento infatti, pur essendo non impugnabile, non può altresì essere considerato non revocabile, essendo anzi da considerarsi, come detto, privo di stabilità, alla luce della già menzionata possibilità di riapertura delle indagini preliminari.

Tale soluzione, secondo la Corte, non è contrastante con l'orientamento giurisprudenziale (maturato, peraltro, anteriormente alla Riforma Orlando) per cui è da considerarsi abnorme il provvedimento con cui il G.i.p. revoca, per violazione del contraddittorio, il decreto di archiviazione, emesso de plano sull'erroneo presupposto che l'opposizione proposta dalla persona offesa sia intempestiva, in quanto gli effetti del provvedimento archiviativo sono suscettibili di essere rimossi solo tramite ricorso per cassazione o tramite la riapertura delle indagini disposta ex art. 414 c.p.p.. 
Al riguardo, si è infatti osservato come tale orientamento fosse volto ad escludere provvedimenti di "autotutela" da parte del G.I.P. con riferimento a violazioni che potevano essere denunciate mediante ricorso per cassazione. Nella fattispecie in esame, invece, in assenza della possibilità di impugnare il provvedimento del G.I.P., la violazione del contraddittorio non può essere rimediata mediante lo strumento della riapertura delle indagini, essendo quest'ultimo uno strumento di natura sostanziale, dunque inidoneo a far valere violazioni di natura formale.
In definitiva, dunque, l'applicazione di tale principio di diritto all'ipotesi di emissione del provvedimento con cui viene respinto o dichiarato inammissibile il reclamo comporterebbe un impedimento, insuperabile per l'istante, a far valere la nullità di ordine generale derivante dalla violazione del contraddittorio, con la conseguente irrimediabile preclusione all'esercizio del diritto di difesa.

Infine, la Suprema Corte ha stabilito come al vizio in discorso non si possa porre rimedio con altri strumenti, quali, per esempio, la restituzione nel termine e l'incidente di esecuzione.
Per quanto concerne il primo, infatti, si tratta, come noto, dell'ipotesi di "un termine stabilito a pena di decadenza", che il Pubblico Ministero, le parti private o i difensori non hanno potuto osservare per caso fortuito o forza maggiore. Nel caso di violazione del diritto al contraddittorio nel procedimento di reclamo, invece, il soggetto che non ha osservato il termine è il giudice e, ovviamente, tale termine non è stabilito a pena di decadenza. 
Per quanto invece riguarda l'istituto dell'incidente di esecuzione, la Corte ha ragionevolmente escluso in radice la pertinenza alla fattispecie in oggetto. L'ordinanza che decide sul reclamo, infatti, non è certamente un provvedimento cui deve essere data esecuzione né, tantomeno, un titolo esecutivo.

Sulla base di tali motivazioni, dunque, la Suprema Corte, attesa la non impugnabilità dell'ordinanza conclusiva del procedimento di reclamo ex art. 410 bis comma 3 c.p.p. e la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del medesimo articolo, ha dichiarato inammissibile il ricorso ai sensi dell'art. 591 comma 1 lett. b c.p.p..
Tuttavia, i giudici di legittimità non hanno condannato il ricorrente al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende, riconoscendo come egli non abbia avuto colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, stante la novità e rilevanza della questione posta nel ricorso.