giovedì 6 settembre 2018

Richiesta di prestazione sessuale da parte del pubblico ufficiale ai fini del compimento di un atto vincolato: la condotta integra il delitto di concussione e non quello di induzione indebita.

La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 11369, pronunciata all'udienza del 15 febbraio 2018 (deposito motivazioni in data 13 marzo 2018), ha preso in esame il tema relativo alla qualificazione giuridica della condotta di un pubblico ufficiale il quale, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, pretenda che il privato soggiaccia ad una richiesta a sfondo sessuale, prospettando, in caso di mancata adesione da parte del medesimo, il mancato compimento di un atto del proprio ufficio. 
In particolare, la Suprema Corte si è posta il problema circa quale delitto, tra quelli di concussione (art. 317 c.p.) e di induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater c.p.), sia integrato in tale fattispecie.

Il giudizio di legittimità ha tratto origine dal ricorso presentato dall'imputato avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello di Milano aveva parzialmente riformato la pronuncia di condanna emessa dal Tribunale di Voghera per il delitto di cui agli artt. 56 e 317 c.p., riqualificando il fatto nella fattispecie di cui agli artt. 56 e 319 quater c.p..
Nel giudizio di merito, all'imputato era stato contestato di aver posto in essere atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre una donna ad appagare i propri desideri sessuali mediante abuso dei poteri inerenti alla propria qualifica di funzionario dell'ufficio urbanistico di Voghera, con competenza in ordine al rilascio del certificato di abitabilità. In particolare, egli era accusato di aver minacciato la propria interlocutrice di non procedere con il rilascio, adducendo e verbalizzando atti non veritieri, nel caso in cui la donna non avesse accettato di farsi palpeggiare il seno; tuttavia, il pubblico ufficiale non era riuscito nel proprio intento a causa della ferma opposizione della donna che lo aveva allontanato dalla propria abitazione, rappresentandogli che avrebbe in seguito informato il marito.

L'imputato aveva proposto due motivi di ricorso, uno concernente l'insussistenza del tentativo di induzione indebita a causa dell'inidoneità dell'azione, e l'altro relativo alla violazione del canone "oltre ogni ragionevole dubbio" di cui all'art. 533 c.p.p..
Entrambi i motivi sono stati tuttavia respinti dalla Suprema Corte, stante la completa ed adeguata motivazione a sostegno della sentenza pronunciata dalla Corte territoriale, impugnata dall'imputato attraverso motivi di ricorso volti ad ottenere una diversa ricostruzione dei fatti, e pertanto respinti dalla Corte di Cassazione. In particolare, in relazione all'asserita violazione dell'art. 533 c.p.p., la Corte ha ricordato come "la regola di giudizio compendiata nella formula "al di là di ogni ragionevole dubbio" rileva esclusivamente ove la sua violazione si traduca nella illogicità manifesta e decisiva della motivazione della sentenza, non avendo la Corte di cassazione alcun potere di autonoma valutazione delle fonti di prova".

I giudici di legittimità hanno tuttavia ritenuto di dover riqualificare nuovamente il fatto come tentativo di concussione, analogamente a quanto era avvenuto nel giudizio di primo grado.

La riqualificazione operata dalla Corte d'Appello di Milano, infatti, era stata fondata sull'intensità della condotta dell'agente, tesa a conseguire un vantaggio contra ius. In particolare, la Corte territoriale, interpretando la fattispecie di cui all'art. 319 quater c.p. secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite Maldera del 2013 (n. 12228), aveva affermato come tale delitto sia integrato da una condotta configurantesi come "persuasione, suggestione o inganno consistente in una pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione"; aveva quindi ritenuto come la vittima della condotta del pubblico ufficiale avesse disposto in realtà di margini decisionali più ampi, acconsentendo alla richiesta di utilità non dovuta da parte dell'imputato in quanto mossa dalla prospettiva di ottenere un tornaconto personale.

La Suprema Corte ha invece ritenuto come la vittima non potesse in realtà ottenere alcun tornaconto personale, fondando tale assunto su due distinti ordini di ragioni.

In primo luogo, la Corte ha rilevato come la donna avesse diritto al rilascio del certificato di abitabilità dell'immobile: in questo senso si era infatti già espresso, come accertato nel giudizio di merito, il dirigente dell'ufficio presso cui prestava servizio l'imputato, dal momento che quello richiesto era un atto vincolato, in quanto adottabile esclusivamente sulla base di una verifica dell'esistenza di presupposti di natura squisitamente tecnica. Inoltre, il rilascio del certificato non necessitava di alcun ulteriore accertamento se non di natura meramente cartolare.
Ciò premesso, la Corte ha quindi ricordato come la giurisprudenza di legittimità abbia affermato la riconducibilità al delitto di concussione della condotta del pubblico ufficiale che "ponga la persona offesa di fronte all'alternativa di accettare la pretesa indebita o subire un pregiudizio oggettivamente ingiusto"; al contrario, integra la condotta di induzione indebita ex art. 319 quater c.p. la formulazione, da parte dell'agente, di "una richiesta di dazione o di promessa come condizione per il mancato compimento di un atto doveroso o come condizione per il compimento di un atto a contenuto discrezionale, con effetti comunque favorevoli per l'interessato".

In secondo luogo, la Corte ha osservato come la richiesta del pubblico ufficiale, coinvolgente la sfera sessuale della donna, non può essere considerata come mero abuso induttivo. La condotta pretesa dall'agente, infatti, essendo strettamente connessa alla libertà sessuale della vittima, non può mai essere oggetto di negoziazione, con la conseguenza per cui il comportamento dell'imputato deve essere qualificato come abuso costrittivo: in tal senso - ha osservato la Corte - depone la giurisprudenza di legittimità, che afferma la necessità di valutare la proporzione tra i beni giuridici, nonché il sacrificio che l'extraneus è costretto ad effettuare, ai fini dell'esclusione del vantaggio indebito in capo a quest'ultimo. 
D'altra parte, la condotta dell'agente, incidente sulla sfera sessuale della vittima, non può essere considerata quale "mera pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perchè motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale", come richiesto dalle Sezioni Unite della Suprema Corte ai fini della riconoscibilità del delitto di induzione indebita di cui all'art. 319 quater c.p..
Dunque, in una fattispecie quale quella in oggetto, i giudici di legittimità hanno osservato come la vittima, a fronte di una richiesta per lei pregiudizievole, si trovi a sacrificare, con la propria prestazione indebita, un bene strettamente personale e di particolare valore come la libertà sessuale: ciò è sufficiente ad escludere la sussistenza di una proporzionalità tra i beni giuridici e quindi di un vantaggio indebito. 
Pertanto, un pubblico ufficiale che minacci un danno contra ius, pretendendo una prestazione di tipo sessuale, dunque concernente un bene giuridico ed una libertà non negoziabili, pone in essere il delitto di concussione, e non quello di induzione indebita a dare o promettere utilità.

La Suprema Corte ha pertanto dichiarato inammissibile il ricorso dell'imputato, previa riqualificazione del fatto nella fattispecie di cui agli artt. 56 e 317 c.p..