giovedì 13 settembre 2018

Omicidio colposo in danno di lavoratori esposti ad amianto: è necessario il vaglio dibattimentale e l'espletamento di una perizia in caso di contrapposizione di orientamenti nella comunità scientifica circa le questioni sorte durante le indagini preliminari.

La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 1886, emessa all'udienza del 3 ottobre 2017 (deposito motivazioni in data 17 gennaio 2018), si è pronunciata sul tema concernente la necessità o meno di procedere a dibattimento, nei procedimenti penali per omicidio colposo in danno di lavoratori esposti ad amianto, nell'ipotesi in cui, all'esito delle indagini preliminari, emergano questioni tecniche di difficile soluzione, contrassegnate da una contrapposizione di orientamenti all'interno della comunità scientifica internazionale.

Il giudizio di legittimità è stato originato dal ricorso proposto dal Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Trieste avverso la sentenza di non luogo a procedere pronunciata dal G.U.P. della medesima città in un procedimento penale per il delitto di cui all'art. 589 c.p.. 
All'imputato era stato contestato di aver cagionato per colpa la morte di un proprio dipendente per esposizione ad amianto, ricoprendo diverse qualità all'interno dell'azienda tra la seconda metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta.
I profili di colpa erano stati così individuati : 1) aver omesso di informare i lavoratori circa i rischi specifici derivanti dalle inalazioni di polvere di amianto e le misure idonee a evitare tali rischi; 2) aver omesso di mettere a disposizione dei lavoratori esposti maschere respiratorie o altri dispositivi idonei, disponendo ed esigendo che essi venissero utilizzati dai lavoratori stessi; 3) aver omesso di disporre che le lavorazioni pericolose o insalubri venissero eseguite in luoghi separati; 4)  aver omesso di dotare gli ambienti di lavoro di idonei impianti, fissi e mobili, di aspirazione localizzata; 5) aver omesso di provvedere alla sostituzione dell'amianto con materiali alternativi, cagionando così una massiccia e incontrollata esposizione alle polveri di amianto.

Con il proprio ricorso, volto ad ottenere l'annullamento della sentenza di non luogo a procedere, il Procuratore Generale aveva affermato come il G.U.P. avesse travisato la funzione dell'udienza preliminare, trasformata, da filtro volto ad eliminare imputazioni azzardate, a sede di verifica dell'ipotesi accusatoria.
Il Giudice si era infatti limitato a rilevare un contrasto tra le conclusioni raggiunte dai consulenti di parte, ritenendo al contempo inutile l'espletamento di una perizia in dibattimento nonché l'acquisizione integrale di due diverse perizie, effettuate in altri processi celebrati a Milano e Trieste, e sui quali il magistrato si era fondato nel pronunciare la sentenza impugnata.
Il G.U.P. aveva inoltre ritenuto impossibile dimostrare il nesso di causa tra il mesotelioma e l'esposizione dovuta all'attività lavorativa della vittima nel periodo in cui l'imputato ricopriva una posizione di garanzia; tuttavia, secondo il ricorrente, il Giudice non aveva considerato come la vittima fosse stata esposta ad amianto proprio a causa delle funzioni lavorative espletate e come il mesotelioma fosse proprio notoriamente una patologia asbesto-correlata.
Ancora, la vittima era stata esposta all'amianto, nel periodo in cui l'imputato rivestiva la posizione di garanzia, per dieci anni, dopo un precedente periodo di esposizione di vent'anni: ciò aveva indotto il G.U.P. a ritenere  penalmente irrilevante la seconda fase di esposizione. Tale conclusione era stata contestata dal Procuratore Generale, che aveva affermato come tale conclusione non potesse fondarsi su certezze scientifiche, circostanza che rendeva quindi ancor più necessaria una verifica dibattimentale. 
Peraltro, secondo il ricorrente, la conclusione per cui il decesso fosse da correlarsi all'esposizione lavorativa, si fondava altresì sull'accertamento istologico dell'inalazione delle fibre di amianto, come dimostrato dalla diagnosi di asbestosi, non indicata nella diagnosi clinica, ma rilevata dall'anatomopatologo.
Infine, nel ricorso si era rilevata una contraddizione nel confronto tra la sentenza di non luogo a procedere di cui al caso in esame ed il rinvio a giudizio del medesimo imputato per il decesso di un altro lavoratore, che si trovava in condizioni lavorative analoghe e che, per giunta, era anche un fumatore.

La Suprema Corte si è innanzitutto soffermata sull'attuale funzione della sentenza di non luogo a procedere all'interno del sistema processuale. Si è così evidenziato che, mentre in origine tale pronuncia era consentita solo nelle situazioni di evidenza probatoria, impedendo al giudice un reale controllo sulla plausibilità dell'accusa, dopo la riforma apportata dalla l. 479/99 la sentenza in discorso è consentita anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori e non idonei a sostenere l'accusa in giudizio.
Attualmente, quindi, la sentenza di non luogo a procedere può essere emanata - ha osservato la Corte - in tre differenti ipotesi:
1) pacifica evidenza probatoria circa l'innocenza dell'imputato o la mancanza di prova della colpevolezza del medesimo;
2) insufficienza o contraddittorietà del quadro probatorio;
3) assenza di elementi sufficienti a sostenere l'accusa in giudizio.
Quest'ultima ipotesi si distingue, in particolare, perché fondata su di un'analisi prognostica e valutativa circa la "potenzialità espansiva degli elementi di prova disponibili", prognosi relativa all'esito del giudizio che deve essere effettuata considerando gli strumenti di formazione della prova in dibattimento, con particolare riferimento all'accertamento giudiziale mediante l'esercizio del contraddittorio. Il parametro per la declaratoria di non luogo a procedere è dunque da individuarsi nella prognosi di "scarsa plausibilità dell'ipotesi di evoluzione del materiale probatorio".
Pertanto, l'incremento dei poteri cognitivi e decisionali del G.U.P. permettono a quest'ultimo, da un lato, di considerare la prospettiva di probabilità della colpevolezza dell'imputato, ma dall'altro ancorano la sua regola di giudizio sulla prognosi di maggior grado di probabilità logica e di successo dell'ipotesi accusatoria, da cui dipende la valutazione circa l'utilità della fase dibattimentale. Nelle fattispecie aperte a soluzioni alternative, dunque, gli esiti decisori dell'udienza preliminare ricalcano i parametri indicati dall'art. 125 disp. att. c.p.p. in tema di archiviazione.
In definitiva, l'esito liberatorio si impone nelle fattispecie in cui si prevede che l'istruzione dibattimentale non possa fornire ulteriori e significativi apporti per superare il quadro di insufficienza o contraddittorietà probatoria e sia quindi da considerarsi inutile.

I giudici di legittimità hanno quindi rilevato come nella fattispecie oggetto del giudizio la motivazione posta a sostegno della sentenza di non luogo a procedere non sia idonea a sostenere la tesi dell'inutilità del vaglio dibattimentale.
La vittima, infatti, era stata esposta all'amianto a partire dal 1961, mentre l'imputato aveva assunto la posizione di garanzia nel 1980, quindi dopo vent'anni di continua esposizione del lavoratore alla sostanza cancerogena; tale esposizione, tuttavia era continuata fino al 1993.
La Corte ha quindi osservato come sia ignoto il momento di innesco della patologia, a partire dal quale si possa affermare che il processo neoplastico sia ormai instaurato e irreversibile.
Nondimeno, analogamente a quanto avviene nella gran parte dei processi per neoplasie dovute ad esposizione ad amianto, anche nel giudizio in discorso si è posto il problema circa i reali effetti dell'esposizione successiva al formarsi della patologia, ossia se tale esposizione abbia avuto un qualche ruolo eziologico nel progredire della malattia, accelerandone il decorso e anticipando dunque l'esito mortale.
Al riguardo, si registra nella comunità scientifica la compresenza di diversi ed opposti orientamenti. Il primo ritiene infatti irrilevante l'esposizione successiva a quella che ha innescato la malattia, in quanto, attesa la capacità delle fibre di amianto di permanere nei tessuti umani, senza subire alcuna alterazione, la causa della neoplasia non potrebbe in alcun modo dipendere da successive, ulteriori esposizioni.
E' tuttavia nota la presenza di altro orientamento che ritiene come tale ulteriore esposizione provochi il c.d. "effetto acceleratore" del processo carcinogenetico, a causa dell'esistenza di una relazione tra intensità e durata dell'esposizione e sviluppo della malattia.
Alla luce di tale divergenza di teorie, il G.U.P. aveva quindi sostenuto in motivazione come ci fosse "una radicale ed insuperabile carenza di prova circa il nesso eziologico".
La Suprema Corte ha invece affermato come la presenza di questioni di difficile soluzione, in relazione alla quale si registri la presenza di una "diversificazione e contrapposizione di orientamenti in seno alla comunità scientifica internazionale" imponga il vaglio dibattimentale. Nella sentenza impugnata, invece, si era sostenuto il contrario, proprio a causa della presenza di elementi confliggenti e suscettibili di diverse valutazioni ed interpretazioni.
Secondo i giudici di legittimità, invero, la tesi dell'inutilità del vaglio dibattimentale è incompatibile con la sussistenza di un quadro probatorio "fluido e aperto ad ogni esito", perché caratterizzato dalla sussistenza di elementi di natura tecnico-scientifica il cui vero significato deve essere approfondito e chiarito così da superare, proprio con il contraddittorio dibattimentale, l'incertezza di tale quadro probatorio.
Nella fattispecie in esame, la Corte ha quindi ricordato come, in tema di nesso eziologico tra la violazione di norme cautelari da parte del datore di lavoro e il decesso del lavoratore esposto all'amianto nel corso della sua attività lavorativa, vada accertato:
1) "se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide e obiettive basi, una legge scientifica in ordine all'effetto acceleratore della protrazione dell'esposizione dopo l'iniziazione del processo carcinogenetico"
2) "in caso affermativo, se si tratti di una legge universale o solo probabilistica, in senso statistico";
3) "nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica, se l'effetto acceleratore si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali".
Al fine di rispondere a tali interrogativi, la Corte ha quindi ritenuto come nel contesto dibattimentale sarebbe stato opportuno l'espletamento di una perizia, la quale, ai sensi dell'art. 220 c.p.p., deve essere disposta ogni qual volta sia necessario svolgere indagini od acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze di natura tecnica, esulanti dal patrimonio di conoscenze dell'uomo medio in un dato momento storico e in un determinato contesto sociale. Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha sì osservato come l'ammissione di tale prova sia rimessa alla valutazione discrezionale del giudice; tuttavia, è stato anche sostenuto come essa rappresenti "un indispensabile strumento probatorio, allorché si accerti il ricorrere del presupposto inerente alla specificità delle competenze occorrenti per l'acquisizione e la valutazione di dati, perfino laddove il giudice possieda le specifiche conoscenze dell'esperto, perché l'eventuale impiego, ad opera del giudicante, della sua scienza privata costituirebbe una violazione del principio del contraddittorio e del diritto delle parti sia di vedere applicato un metodo scientifico sia di interloquire sulla validità dello stesso".
Inoltre, la terzietà del sapere scientifico - si è osservato in sentenza - costituisce lo strumento posto a disposizione del giudice, nonché delle parti, per attribuire carattere oggettivo, da un lato, al precetto e, dall'altro, al giudizio di rimprovero personale. 
Pur essendo infatti il giudice, come noto, peritus peritorum, egli non è certo autorizzato ad effettuare un percorso motivazionale avulso dal sapere scientifico e fondato su valutazioni personali, così ignorando il contributo offerto dagli esperti e dal sapere tecnico-scientifico. 
Al contrario, il giudice, proprio con l'aiuto dell'esperto, è tenuto ad individuare il sapere scientifico che possa orientare in un determinato senso la decisione, dando una spiegazione razionale all'evento oggetto del giudizio. Dal canto suo, il perito deve esporre al giudice il quadro del sapere in un determinato ambito attinente al giudizio e in un dato momento storico, spiegando quale sia lo stato delle conoscenze scientifiche e se vi sia incertezza circa l'affidabilità degli enunciati cui si perviene. 
Sulla base di tale contributo tecnico-scientifico, il giudice dovrà valutare se si sia pervenuti ad una spiegazione affidabile circa l'eziologia dell'evento e se siano quindi state fornite "concrete, significative ed attendibili informazioni, che possano supportare adeguatamente l'argomentazione probatoria inerente allo specifico caso esaminato".
Il giudice, infatti, è tenuto a valutare la stessa autorità scientifica dell'esperto, comprendendo se gli enunciati da lui proposti siano effettivamente condivisi all'interno della comunità scientifica internazionale. Pertanto, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto in proposito come sia compito del giudice "esaminare le basi fattuali sulle quali le argomentazioni del perito sono state condotte, l'ampiezza, la rigorosità e l'oggettività della ricerca, l'attitudine esplicativa dell'elaborazione teorica nonché il grado di consenso che le tesi sostenute dall'esperto raccolgono nell'ambito della comunità scientifica".
Non va tuttavia trascurato come il nesso causale possa essere ricostruito anche sulla base di una legge scientifica non unanimemente riconosciuta, essendo infatti sufficiente il riferimento alle tesi maggiormente accolte e condivise, stante la "relatività e mutabilità delle conoscenze scientifiche".
Naturalmente, il giudice dovrà dare conto in motivazione dello sviluppo di tale indagine, esponendo quali informazioni scientifiche siano state utilizzate e dando al contempo una giustificazione razionale, completa e comprensibile dell'apprezzamento da lui compiuto. Nel giudizio di legittimità potrà poi essere valutata solo la razionalità, completezza e rigore metodologico di tale apprezzamento, con l'indispensabile verifica critica circa l'affidabilità delle informazioni utilizzate, non potendo evidentemente la Corte di Cassazione valutare se sia o meno fondata una legge scientifica utilizzata nella ricostruzione dell'eziologia dell'evento.

Infine, la Corte ha rilevato come il Giudice dell'Udienza Preliminare, nel valutare le questioni concernenti il c.d. "effetto acceleratore", si sia avvalso di apporti tecnico-scientifici relativi a perizie espletate in altri processi, ma non acquisite agli atti, e dunque completamente sottratte al contraddittorio delle parti: da ciò deriva una palese violazione delle regole processuali, dovendo ogni dato fattuale, posto a fondamento della motivazione del giudice, essere introdotto nel processo rispettando le modalità previste dalla legge, così da permettere un'analisi di esso nell'ambito della dialettica tra le parti.
La Corte ha dunque ritenuto illegittima l'utilizzazione, a fini decisori, di dati fattuali non enucleabili dal materiale probatorio ritualmente acquisito agli atti, ciò determinando infatti "l'inclusione nello spettro cognitivo e valutativo del giudice di elementi di derivazione extraprocessuale, su cui le parti non hanno avuto alcuna possibilità di interloquire".

La Quarta Sezione Penale della Suprema Corte ha dunque annullato, con rinvio al G.U.P. di Trieste, la sentenza impugnata.