sabato 1 settembre 2018

Procedimento per decreto: le Sezioni Unite affermano la non abnormità del provvedimento di restituzione degli atti da parte del G.I.P. al Pubblico Ministero ai fini della valutazione circa la possibile richiesta di archiviazione ex artt. 131 bis c.p. e 411 comma 1 bis c.p.p..

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono pronunciate con la Sentenza n. 20569, emessa all'udienza del 18 gennaio 2018 (deposito motivazioni in data 9 maggio 2018), in tema di decreto penale, sulla questione relativa alla legittimità del provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di emissione del decreto penale di condanna, restituisca gli atti al Pubblico Ministero perché questi valuti la possibilità di chiedere l'archiviazione del procedimento penale per particolare tenuità del fatto ai sensi dell'art. 131 bis c.p..

Nella fattispecie, il Procuratore della Repubblica di Bologna aveva richiesto l'emissione di un decreto penale di condanna nei confronti di un imputato cui era contestato il tentativo di furto dell'esigua somma di 4,60 euro e di due pacchetti di sigarette, delitto non consumato a causa dell'intervento di una pattuglia delle forze dell'ordine.
Il Giudice per le Indagini Preliminari non aveva respinto la richiesta di emissione del decreto, ma, acquisito il certificato penale dell'imputato, aveva restituito gli atti al P.M. affinché valutasse la richiesta di archiviazione del procedimento ex art. 131 bis c.p..
Il Pubblico Ministero aveva quindi proposto ricorso per cassazione avverso tale provvedimento del G.I.P., lamentando l'abnormità dell'atto ed affermando come il giudice avesse indebitamente superato i limiti impostigli dall'ordinamento processuale nell'esercizio della sua funzione di controllo sulle determinazioni del Pubblico Ministero circa l'esercizio dell'azione penale. Il P.M. aveva chiesto che il provvedimento impugnato fosse annullato, con restituzione degli atti al G.I.P., cosicché questi provvedesse sulla richiesta di emissione del decreto penale di condanna.
In sintesi, nel proprio ricorso, il magistrato inquirente aveva affermato che:
1) il G.I.P., investito della richiesta di emissione del decreto penale, in assenza dei presupposti per pronunciare sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p., può respingere la richiesta del P.M., ma solo per motivi concernenti la legittima introduzione del rito, la qualificazione giuridica del fatto o l'adeguatezza della pena in relazione al caso concreto;
2) è invece vietato al giudice il respingimento della richiesta del P.M. per "mere ragioni di opportunità", di natura dunque diversa dai motivi sopra menzionati;
3) il provvedimento di restituzione degli atti motivato dalla valutazione circa la possibile richiesta di archiviazione ex art. 131 bis c.p. è da considerarsi abnorme, perché non consentito, in quanto nel procedimento speciale in discorso non può essere applicata la causa di non punibilità per particolare tenuità: essa infatti implica la previa instaurazione del contraddittorio con l'imputato (determinando peraltro l'iscrizione della sentenza nel casellario giudiziale), mentre nel procedimento monitorio il contraddittorio è assente, non essendovi pertanto spazio per una sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p..

La Quarta Sezione penale della Corte di Cassazione aveva rimesso la decisione alle Sezioni Unite, rilevando un contrasto giurisprudenziale sul punto.
Oltre infatti al menzionato orientamento che afferma l'abnormità del provvedimento de quo, e al quale aveva aderito il ricorrente, nella giurisprudenza di legittimità se ne era formato uno opposto, cui invece aveva manifestato adesione la Sezione rimettente.
Secondo tale ultimo orientamento, il provvedimento in discorso non sarebbe abnorme, se non motivato esclusivamente su ragioni di opportunità.
Il Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione aveva chiesto l'annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato, sostenendo come esso costituisse lo sviamento dell'esercizio di un potere dallo scopo per il quale è attribuito dall'ordinamento, stante la sua incidenza sulle scelte già operate dal pubblico ministero all'atto di esercitare l'azione penale, con implicita esclusione anche della sussistenza della causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis c.p.. 

Le Sezioni Unite hanno dapprima rilevato come l'orientamento che esclude l'abnormità del provvedimento di restituzione degli atti al Pubblico Ministero da parte del G.I.P., formatosi anche con riferimento a fattispecie analoghe  a quella oggetto del giudizio, sia fondato sulla funzione di controllo demandata al giudice per le indagini preliminari sulle determinazioni del P.M. in ordine all'esercizio dell'azione penale.
Tale provvedimento di restituzione, non impugnabile alla luce del principio di cui all'art. 568 c.p.p., non sarebbe neppure ricorribile per cassazione con riferimento al vizio di abnormità: esso infatti è riscontrabile solo in presenza di "anomalie genetiche o funzionali così radicali da porre il provvedimento al di fuori dello schema legale delineato dall'ordinamento e da rivelare l'assenza del potere decisorio". Pertanto, secondo tale orientamento, la restituzione degli atti al P.M. rientrerebbe nei poteri conferiti al giudice dall'art. 459 comma 3 c.p.p.; tale provvedimento, infatti, non imporrebbe alcun adempimento da cui possa derivare la pronuncia di un atto nullo né comporterebbe uno sviamento, dallo scopo stabilito dalla legge, della funzione assegnata al G.I.P. in sede di controllo sulla richiesta del Pubblico Ministero. In definitiva, dunque, la restituzione degli atti al P.M. costituirebbe un mero invito ad assumere una differente determinazione in ordine all'esercizio dell'azione penale e non rappresenterebbe affatto né un'indebita interferenza con le prerogative del magistrato inquirente, che rimarrebbero impregiudicate, né un apprezzamento di opportunità circa l'introduzione del procedimento per decreto.
A  sostegno di tale primo orientamento - ha osservato la Suprema Corte - possono essere poste altre pronunce riguardanti una fattispecie diversa, ossia quella relativa alla restituzione degli atti al P.M. a causa dell'impossibilità di definizione del procedimento penale in mancanza di ulteriori accertamenti istruttori. Tali sentenze hanno infatti evidenziato la natura "interlocutoria e non definitiva" del provvedimento del giudice, estendendo la sua attività di controllo ad "ogni utile risultanza", nel cui ambito deve essere altresì ricondotta la consistenza degli elementi di prova posti a sostegno della richiesta di emissione del decreto ex art. 460 comma 1 lett. c c.p.p.. Né si potrebbe temere in questo modo il determinarsi di uno stallo processuale, in quanto il P.M. conserverebbe comunque il suo potere di reiterare la richiesta o procedere nelle forme ordinarie.

L'orientamento opposto, invece, che afferma, come si è visto, l'abnormità del provvedimento in discorso per carenza di potere giurisdizionale, si fonda sulle motivazioni già illustrate nel ricorso proposto dal Pubblico Ministero nella vicenda in esame; ad esse può ancora essere aggiunta l'osservazione per cui il rito monitorio, caratterizzato dalla finalità premiale, non può essere conciliato con la disposizione di cui all'art. 131 bis c.p., avente ad oggetto una causa di non punibilità accertata come sussistente e riferibile alla persona dell'imputato.

Tanto premesso, le Sezioni Unite hanno innanzitutto ricordato la definizione del concetto di abnormità, così come consolidatasi nel tempo nella giurisprudenza di legittimità, al fine di verificare se a tale nozione può essere ricondotto il provvedimento in esame.
In sintesi, si è così affermato come l'abnormità sia un tipo di patologia dell'atto giudiziario (elaborato da dottrina e giurisprudenza) che riguarda provvedimenti non impugnabili altrimenti e affetti da "anomalie genetiche o funzionali, che li rendono difformi ed eccentrici rispetto al sistema processuale e con esso radicalmente incompatibili". Essa deve comunque essere tenuta ben distinta sia dalle anomalie di un atto innocue, e dunque irrilevanti, sia dalle ipotesi di contrasto dell'atto con singole norme processuali presidiate dalla sanzione della nullità.
Già nove anni or sono, le Sezioni Unite (Sent. n. 25957/2009) individuarono in maniera precisa il contenuto della patologia in oggetto, distinguendo l'abnormità strutturale da quella funzionale. Nei rapporti tra giudice e pubblico ministero, la prima si riscontra nel caso di "esercizio da parte del giudice di un potere non attribuitogli dall'ordinamento processuale (carenza di potere in astratto), ovvero di deviazione del provvedimento giudiziale rispetto allo scopo di modello legale nel senso di esercizio di un potere previsto dall'ordinamento, ma in una situazione processuale radicalmente diversa da quella configurata dalla legge e cioè completamente al di fuori dei casi consentiti, perché al di là di ogni ragionevole limite (carenza di potere in concreto). La seconda, invece, ricorre nel caso di stasi processuale con conseguente impossibilità di proseguirlo, nei casi in cui il provvedimento del giudice imponga al pubblico ministero l'adozione di un atto nullo rilevabile nel corso del procedimento.
Il provvedimento, dunque, è frutto di uno sviamento di potere e fonte di un pregiudizio potenzialmente insanabile per le parti, alla luce del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione.

Ricostruita in questi termini la nozione di abnormità, le Sezioni Unite hanno stabilito come il provvedimento del giudice per le indagini preliminari di restituzione degli atti al P.M. affinché egli valuti una possibile richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto non sia riconducibile in nessun modo alla categoria dell'abnormità.

L'ordinanza in discussione, infatti, è innanzitutto espressione del "legittimo esercizio del potere cognitivo conferito al giudice per le indagini preliminari dall'art. 459 comma 3 c.p.p."; tale disposizione riconosce dunque al giudice un "ampio sindacato sul merito dell'istanza, in coerenza con il suo ruolo funzionale". 
La Corte ha inoltre osservato come vada escluso che dalla presentazione della richiesta del P.M. derivino effetti vincolanti per il giudice, consentendo al contrario essa vari esiti decisori, rimessi alla discrezionalità del magistrato. Oltre al provvedimento di emissione del decreto ed a quello di pronuncia di sentenza di assoluzione ex art. 129 c.p.p., è prevista infatti la possibilità per il giudice di restituire gli atti al magistrato richiedente: tuttavia, in assenza di una specifica previsione normativa, l'ambito del sindacato del giudice deve essere ricostruito mediante l'interpretazione operata da giurisprudenza e dottrina.

Il sindacato da parte del G.I.P. ha certamente, innanzitutto, ad oggetto gli aspetti relativi all'applicabilità al caso specifico della pena pecuniaria ed alla sua misura, oltre agli altri presupposti di ammissibilità dell'introduzione del rito speciale, quali la tipologia di reato, il momento di formulazione della richiesta, la qualificazione giuridica del fatto e la congruità della pena.
E' inoltre altrettanto certo come il giudice non possa invece sindacare la richiesta di emissione del decreto per ragioni di mera opportunità, ossia affermando il proprio dissenso rispetto alla scelta, esclusivamente rimessa alla parte pubblica, di introdurre il rito monitorio, sulla base di considerazioni relative all'utilità di tale rito ed ai suoi futuri sviluppi.
A completamento della ricostruzione del potere di sindacato del G.I.P., la Corte ha osservato come la giurisprudenza di legittimità abbia riconosciuto ipotesi di abnormità allorché alla base del provvedimento di restituzione degli atti al P.M. sono state poste le seguenti motivazioni:
1) "ritenuta immotivata inopportunità del diniego";
2) "prevedibile opposizione da parte dell'imputato con conseguente verifica dibattimentale per la gravità dell'addebito";
3) "mancato accesso da parte dell'imputato alla possibilità di definire in via amministrativa l'illecito contestato", scelta apprezzata "quale manifestazione della volontà di accedere al rito dibattimentale con conseguente inutilità del decreto di condanna, fonte di inutile dispendio di attività giurisdizionale";
4) "applicabilità della continuazione con altri reati, contestati allo stesso imputato in separato procedimento, per il quale era stata formulata richiesta di emissione di altro decreto penale di condanna a carico dello stesso imputato";

5) "proposizione della richiesta nei confronti di un solo imputato previa separazione della sua posizione personale da quella degli altri indagati";
6) "formulata prognosi negativa circa l'adempimento da parte dell'imputato dell'obbligo di pagamento della pena pecuniaria".
Tali ipotesi - hanno osservato le Sezioni Unite - sono accomunate dal fatto per cui l'apprezzamento discrezionale del giudice finisce per interferire con le attribuzioni del pubblico ministero relative alle modalità di esercizio dell'azione penale ed alla struttura dell'imputazione, essendo dunque fondate su criteri di mera opportunità. Pur rientrando nell'esercizio di un potere attribuito in via astratta al giudice, tali provvedimenti stravolgono la ripartizioni delle funzioni tra i due magistrati e si collocano al di fuori della previsione normativa a causa della loro eccentricità e singolarità, con l'effetto di produrre un'indebita regressione del procedimento.
Non è invece stata riscontrata alcuna interferenza con le attribuzioni del pubblico ministero in relazione alle ipotesi di restituzione degli atti determinate da disaccordo del giudice circa:
1) "qualificazione giuridica da assegnare al reato, perché, pur accertato nella sua materialità, è ritenuto rientrare in una diversa fattispecie astratta;
2) "insufficienza delle acquisizioni probatorie, da approfondire ulteriormente anche per l'eventuale riscontro dell'estinzione del reato per prescrizione";
3) "necessità di imporre la confisca di beni, non adottabile col decreto penale di condanna, specie se il pubblico ministero ne chieda il dissequestro";
4) "insussistenza dei presupposti per la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria"
5) "incongruità della pena da irrogare rispetto alla gravità della violazione accertata";
6) "inidoneità dell'elezione di domicilio presso il difensore d'ufficio da parte di cittadino extracomunitario privo di fissa dimora".

Le Sezioni Unite hanno poi osservato come l'orientamento interpretativo che consente al giudice un più ampio sindacato sulla richiesta del pubblico ministero trovi sostegno altresì da parte della giurisprudenza costituzionale. La Consulta, infatti, nei primi anni di applicazione del nuovo codice di rito fu chiamata a giudicare la legittimità costituzionale dell'art. 460 comma 2 c.p.p. nella parte in cui preclude al giudice l'applicazione della pena in una misura diversa da quella richiesta dal pubblico ministero. Il giudice rimettente aveva infatti sostenuto che tale limitazione non fosse ovviabile mediante il rigetto della richiesta e la contestuale restituzione degli atti al P.M., dal momento che tale provvedimento sarebbe stato possibile solo per motivi attinenti al rito. Tuttavia, la Corte Costituzionale non accolse tale interpretazione, affermando invece come l'art. 459 comma 3 c.p.p. attribuisca al giudice un potere di controllo completo sia nel rito sia nel merito circa la richiesta del pubblico ministero, che può essere respinta anche qualora il giudice non ritenga la misura della pena adeguata al caso concreto; inoltre, aveva affermato ancora la Consulta, la restituzione degli atti, non determina alcun effetto vincolante e limitativo dei poteri del pubblico ministero, il quale può reiterare la richiesta adeguandosi ai rilievi critici del giudice, instaurare differenti riti speciali o decidere di procedere nelle forme ordinarie. 

Soffermandosi quindi specificamente sull'ordinanza di restituzione degli atti al P.M. al fine di valutare una richiesta di archiviazione ex art. 131 bis c.p., la Corte ha osservato come, aderendo ai principi in precedenza esposti circa l'estensione del potere del G.I.P. in questa sede, si possa affermare che tale provvedimento non si esaurisce in una valutazione di non opportunità dell'introduzione del procedimento monitorio e non può pertanto essere ricondotto alla nozione di abnormità così come delineata nel 2009 dalle Sezioni Unite.
D'altra parte, tale valutazione circa la lesività del delitto contestato, la quale non è individuata "in termini conclusivi e certi" come di minima entità, ma è "rimessa ad un'ulteriore successiva delibazione", non determina alcuna interferenza con le attribuzioni del pubblico ministero, ma, al contrario rientra nell'attività di qualificazione giuridica del fatto: il giudice, infatti, riscontrati nel caso concreto gli elementi costitutivi della fattispecie tipica, procede con la considerazione del disvalore del fatto antigiuridico. 
Dunque, il giudizio circa la tenuità del fatto non riguarda, secondo la Corte, "la ricostruzione della dimensione storico-naturalistica e l'identificazione della sua componente materiale", ma "la valutazione del grado maggiore o minore di aggressione del bene giuridico protetto e della complessiva manifestazione dell'attività criminosa al fine di riscontrare se, attraverso una "ponderazione quantitativa rapportata al disvalore di azione, a quello di evento, nonché al grado di colpevolezza", l'incidenza lesiva, insita nel fatto rientrante nel tipo legale di illecito, sia talmente esigua da non meritare punizione".
Le Sezioni Unite hanno dunque ritenuto non fondato l'orientamento giurisprudenziale che colloca il provvedimento in discussione nell'ambito di un giudizio di mera inopportunità dell'emissione del decreto penale di condanna, a causa di una presunta "carenza di potere in concreto".
Secondo la Corte, infatti, non è ravvisabile alcun ostacolo, stante quanto detto circa l'estensione del potere del G.I.P. in questa sede, a ricomprendere nell'attività di qualificazione giuridica anche "l'apprezzamento dell'effettivo e reale disvalore del fatto" oggetto del richiesto decreto penale di condanna.
Tale giudizio rientra infatti nel modello legale dell'attività del giudice per le indagini preliminari delineato dall'art. 459 comma 3 c.p.p., in cui si prevede una delibazione circa l'istanza di emissione del decreto penale che ricomprende, oltre alla ricognizione di tutti gli elementi integrativi della fattispecie, anche la valutazione circa l'entità dell'offesa ex art. 131 bis c.p.. Non si può quindi affermare che tale provvedimento esprima un potere esercitato oltre i limiti delineati dal legislatore o sia addirittura in contrasto con i principi generali dell'ordinamento giuridico: non c'è infatti alcun dubbio, hanno osservato i giudici di legittimità, circa il fatto che il potere di qualificazione giuridica sia connaturale all'esercizio stesso della giurisdizione, sia esercitabile in tutte le fasi ed in tutti i gradi del processo e non sia limitabile alla sola individuazione del nomen iuris corretto da attribuire al fatto, investendo anche gli elementi accidentali e la punibilità in concreto dell'imputato.

Le Sezioni Unite si sono poi confrontate con un'altra fondamentale obiezione alla tesi della non abnormità del provvedimento in esame. Si è infatti affermato che esso sarebbe abnorme per il fatto di intervenire dopo l'esercizio dell'azione penale, e dunque in assenza di qualunque contraddittorio con la difesa. Pertanto, al giudice, una volta accertata la non punibilità per particolare tenuità del fatto (riscontrato nei suoi elementi costitutivi), non resterebbe altra possibilità che l'emissione del decreto penale, mentre il rilievo della causa di non punibilità sarebbe rimesso all'eventuale fase di opposizione proposta dall'imputato.
A questo riguardo, la Corte ha osservato come effettivamente l'istituto di cui all'art. 131 bis c.p. sia stato configurato dal legislatore come rientrante nel diritto sostanziale: dunque, la sua applicazione rende necessaria in linea generale l'instaurazione del contraddittorio tra tutte le parti, implicando l'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità e della sua attribuibilità all'imputato; peraltro, l'applicazione di tale causa di non punibilità non comporta effetti pienamente liberatori per l'imputato, ragione per cui la garanzia del contraddittorio viene attuata anche nello speciale procedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 411 comma 1 bis c.p.p..
In questi casi, secondo la Corte, sarebbe impossibile non solo pronunciare il proscioglimento dell'imputato ai sensi dell'art. 129 c.p.p., ma anche emettere il decreto penale di condanna, a causa dell'ostacolo procedurale per cui il rito monitorio viene promosso dall'accusa nella totale assenza di contraddittorio con l'imputato e la sua difesa.
L'unica soluzione possibile è quindi individuabile nella restituzione degli atti al pubblico ministero, provvedimento consentito dal sistema e non eccentrico, neanche in questa fattispecie, rispetto alla sfera di controllo attribuita al giudice per le indagini preliminari.

Infine, la Corte si è posta il problema relativo alla possibile configurabilità, con il provvedimento in esame, di un'abnormità di tipo funzionale, come delineata dalla predetta pronuncia delle Sezioni Unite.
Tale questione riguarda il possibile originarsi di una situazione di stallo processuale, nonché l'ostacolo rappresentato dall'irretrattabilità dell'azione penale.
Secondo una risalente ed isolata pronuncia della Suprema Corte (n. 35185/2009), la restituzione degli atti al pubblico ministero a seguito del rigetto della richiesta di emissione del decreto penale di condanna non consentirebbe la successiva proposizione della richiesta di archiviazione: a ciò sarebbe infatti d'ostacolo il già avvenuto esercizio dell'azione penale il quale, stante il principio di cui all'art. 112 Cost., è da considerarsi irretrattabile, senza poter quindi essere posto nel nulla da un'opposta determinazione. Pertanto, il pubblico ministero, avendo già esercitato l'azione penale, null'altro potrebbe fare se non procedere con il rito ordinario.
A tale orientamento se ne contrappone tuttavia un altro, sostenuto da una giurisprudenza più copiosa, secondo il quale, a seguito della restituzione degli atti da parte del G.I.P., si riespanderebbero i poteri del pubblico ministero, nel pieno rispetto di quanto previsto dall'art. 459 comma 3 c.p.p.. Dunque, venuta meno "la funzione propulsiva dell'ulteriore corso del procedimento", propria della richiesta di emissione del decreto penale, non accolta, il pubblico ministero verrebbe reintegrato nella totalità dei suoi poteri ex art. 405 c.p.p. circa l'esercizio dell'azione penale e le sue modalità. Per tale ragione, secondo tale orientamento, è da considerarsi abnorme il provvedimento che sancisce l'inammissibilità della richiesta di archiviazione intervenuta dopo la restituzione degli atti al pubblico ministero per l'irretrattabilità dell'azione penale, che è invece posta nel nulla dalla mancata emissione del decreto penale di condanna.

La Corte ha giudicato corretto tale secondo orientamento. 
Si è infatti osservato come l'art. 459 comma 3 c.p.p. non contenga alcuna previsione sullo sviluppo del procedimento successivo alla restituzione degli atti al pubblico ministero, senza quindi porre alcun limite alle iniziative assumibili da parte dell'organo requirente. A questo proposito, è stato giudicato significativo da parte della Consulta, nella già citata Sentenza n. 447/1990, come nel nuovo codice, a differenza di quanto previsto nel progetto preliminare del 1978, non sia stato previsto che il giudice possa, contestualmente al rigetto dell'emissione del decreto penale di condanna, emettere il decreto di citazione per procedere con il giudizio dibattimentale; ciò a conferma di come si sia inteso favorire l'instaurazione di riti speciali, diversi da quello monitorio.
Non mancano inoltre, si è aggiunto, analogie con un altro rito speciale, il giudizio immediato, anch'esso ispirato da esigenze di celerità ed economia processuale, ove l'esito negativo della verifica giudiziale circa le condizioni di ammissione del rito, con il conseguente rigetto della richiesta del pubblico ministero, comporta il regresso del procedimento alla fase delle indagini preliminari. Tale decisione - ha osservato la Corte - non è contestabile mediante impugnazione né sussistono successivamente vincoli all'esercizio dell'azione penale nelle forme ordinarie.
Sulla base di tali premesse, la Suprema Corte ha affermato che "con la restituzione degli atti al pubblico ministero ai sensi  dell'art. 459 c.p.p. non si realizza né un indebito ritorno ad una fase del procedimento già esaurita e conclusa, né una paralisi irrimediabile del suo corso. Il pubblico ministero è nuovamente titolare degli originari poteri di iniziativa e di impulso processuale, che può esercitare, sia ripresentando la richiesta di emissione del decreto penale di condanna emendata dagli eventuali errori segnalati, sia procedendo con altro rito e, infine, mediante richiesta di archiviazione del procedimento".
Le successive determinazioni del pubblico ministero, a loro volta, non possono essere considerate contrastanti con nessuna disposizione di legge, né affette da nullità, per il solo fatto di essere assunte dopo la restituzione degli atti ex art. 459 c.p.p..
Pertanto, secondo le Sezioni Unite, il provvedimento oggetto del giudizio non è abnorme, non presentando alcuna anomalia tale da porlo al di fuori dell'ordinamento processuale.

In conclusione, dunque, le Sezioni Unite hanno affermato il principio di diritto per cui "non è abnorme, e quindi non è ricorribile per cassazione, il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di emissione di decreto penale di condanna, restituisca gli atti al pubblico ministero perché valuti la possibilità di chiedere l'archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto, ex art. 131 bis c.p.".

La Corte ha perciò dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, avendo esso ad oggetto un'ordinanza non abnorme, né sotto il profilo strutturale né sotto quello funzionale.