domenica 27 ottobre 2019

Custodia cautelare in carcere per il delitto di associazione mafiosa: la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari e di esclusiva adeguatezza della misura carceraria ex art. 275 comma 3 c.p.p. e le cause di sostituzione di tale misura con altra meno grave ex art. 275 comma 4 c.p.p.. Le più recenti pronunce della Corte di Cassazione sull'argomento.

In tema di misure cautelari personali, si segnalano le più recenti e rilevanti pronunce della giurisprudenza di legittimità concernenti l'applicazione della misura della custodia cautelare in carcere nell'ipotesi di contestazione di un delitto associativo.

1) Presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari per l'applicazione della  misura della custodia cautelare in carcere ex art. 275 comma 3 c.p.p., in relazione ad uno dei delitti previsti da tale disposizione.

In tema di presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari per l'applicazione della misura custodiale carceraria, ex art. 275 comma 3 c.p.p., in relazione ad uno dei delitti ivi previsti, si segnalano due interessanti pronunce della Suprema Corte.
Con la prima di esse, la n. 19787, pronunciata dalla Sesta Sezione Penale all'udienza del 26 marzo 2019 (deposito motivazioni in data 8 maggio 2019), la Corte si è interrogata, in una fattispecie nella quale era contestato all'indagato il delitto di cui all'art. 416 bis c.p., circa il possibile superamento della predetta presunzione, per effetto del decorso di un tempo considerevole tra l'emissione della misura ed i fatti contestati, nell'ipotesi in cui risultino accertate la consolidata esistenza dell'associazione mafiosa, la pregressa partecipazione alla stessa da parte dell'indagato, nonché la perdurante adesione del medesimo ai valori del sodalizio 'ndranghetista.

La Corte ha innanzitutto osservato come il Tribunale di Reggio Calabria avesse ritenuto, in relazione alla presunzione di cui all'art. 275 comma 3 c.p.p., che non fossero emersi elementi tali da superarne la valenza, non potendo i medesimi essere individuati nel tempo trascorso dalle manifestazioni di concreta partecipazione dell'indagato all'associazione (il c.d. "tempo silente"), e non essendo peraltro mai intervenuta, da parte del medesimo, una formale dissociazione dal sodalizio. Il Tribunale aveva poi attribuito rilievo, ai fini della dimostrazione del pericolo di reiterazione, alle modalità della partecipazione, al legame del ricorrente con esponenti della 'ndrangheta, ai propositi delittuosi manifestati - con la disponibilità a vendicare anche con il sangue la morte di un congiunto - ed infine alla più generale adesione alle regole della 'ndrangheta.
Il ricorrente, dal canto suo, aveva insistito sulla concreta incidenza del tempo silente a determinare il superamento della presunzione di cui all'art. 275 comma 3 c.p.p., essendo le evidenze probatorie risalenti al 2014.
I giudici di legittimità, dopo aver osservato come il ricorrente non si fosse confrontato con la motivazione resa dal Tribunale in punto pericolo di reiterazione, hanno preso in esame la questione relativa alla rilevanza del c.d. "tempo silente", affermando come esso non possa mai essere valorizzato in termini astratti, dovendo sempre, al contrario, essere calato nella concretezza della fattispecie. 
In effetti, il decorso di un lungo lasso di tempo dalle manifestazioni di partecipazione al sodalizio criminale può assumere rilievo ai fini del superamento della presunzione di cui all'art. 275 comma 3 c.p.p., imponendo pertanto - si è affermato - una puntuale analisi del caso di specie. Sebbene, infatti, si registrino pronunce giurisprudenziali (come la Sentenza Trifirò emessa dalla Quinta Sezione Penale della Suprema Corte nel 2018, n. 35848) le quali richiedono, prevalentemente, la prova della dissociazione dal sodalizio criminoso, il Collegio ha osservato come la rilevanza del decorso temporale sia assolutamente in linea con quanto già affermato nella nota Sentenza delle Sezioni Unite n. 111 del 2017, con riguardo al tema della pericolosità qualificata in materia di misure di prevenzione.
Tanto premesso, la Corte ha comunque ribadito come "l'astratta e generica deduzione del tempo trascorso" non possa essere considerata sufficiente come censura avverso la valenza della presunzione in discorso, a fronte di una suffragata partecipazione ad un sodalizio mafioso, ed in assenza di un puntuale riferimento al tipo di sodalizio ed alla qualità e durata della partecipazione al medesimo. Pertanto - hanno aggiunto i giudici di legittimità - la dimensione temporale viene ad assumere un significato diverso a seconda delle caratteristiche del sodalizio e del tipo di partecipazione da parte dell'imputato: al fine, quindi, di poter superare la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, è necessario un confronto con le caratteristiche del sodalizio e della partecipazione al medesimo, così da poter valorizzare la protratta mancanza di ulteriori manifestazioni, quale dato sintomatico di un sostanziale allontanamento.

Nel caso di specie, tuttavia - ha osservato la Corte - era stato dato conto delle seguenti evidenze fattuali: della consolidata esistenza della cosca, capace di mantenersi in vita e di stringere alleanze e rapporti con altre realtà criminali, non essendo stata definitivamente disarticolata dall'indagine effettuata e dai relativi arresti; la partecipazione dell'indagato era già stata accertata con sentenza irrevocabile di condanna, e nel caso di specie era emersa una nuova partecipazione del medesimo al sodalizio, senza che la precedente condanna avesse quindi potuto allontanarlo da quest'ultimo; lo stesso ricorrente - era stato accertato - aveva profondamente aderito alla logica 'ndranghetistica, tanto che la sua esistenza, le sue scelte ed i suoi comportamenti erano stati fortemente permeati dalla stessa. 
Pertanto, non solo non era emersa una formale dissociazione dell'indagato dal sodalizio, ma doveva ritenersi perdurante la sua concreta adesione al medesimo, malgrado la mancanza di elementi attestanti una sua recente attiva partecipazione.

Per tali ragioni, la Corte ha ritenuto "totalmente aspecifica" la deduzione difensiva concernente la rilevanza da attribuire al "tempo silente", in quanto "non correlata alla reale dimensione temporale del sodalizio e soprattutto alla natura della consolidata partecipazione ad esso da parte dell'indagato"; tali elementi infatti incidono direttamente sulla consistenza e rilevanza del tempo trascorso, il quale può quindi diversamente influire sulla presunzione in discorso: infatti, "può considerarsi sufficiente un numero maggiore o minore di anni in rapporto alla verifica di quegli elementi, non potendosi invece validamente individuare in termini generali e astratti un lasso di tempo di per sé idoneo a quello scopo, ferma restando la necessità che esso sia comunque notevole".
Stante, quindi, l'astrattezza e l'aspecificità del motivo proposto dall'indagato, la Corte ha  dichiarato inammissibile il ricorso.


La seconda pronuncia relativa all'argomento della presunzione di cui all'art. 275 comma 3 c.p.p. è la n. 25246, pronunciata dalla Seconda Sezione Penale all'udienza del 2 maggio 2019 (deposito motivazioni in data 7 giugno 2019). In tale pronuncia la Corte si è interrogata sulla questione se la presunzione di esclusiva adeguatezza della custodia in carcere operi anche quando la misura coercitiva sia applicata contestualmente alla sentenza di condanna (con specifico riferimento al delitto di associazione mafiosa).

A questo riguardo, la Suprema Corte ha innanzitutto ribadito il solido orientamento giurisprudenziale per cui la pronuncia di una sentenza di condanna costituisce di per sé non solo un fatto nuovo che legittima l'emissione di una misura coercitiva personale, a prescindere dalla formazione di un precedente giudicato cautelare, ma anche un elemento idoneo a fondare la presunzione di pericolosità che impone la misura cautelare carceraria, qualora sia contestato uno dei reati di cui all'art. 275 comma 3 c.p.p..
Tanto premesso, i giudici di legittimità hanno osservato come l'art. 275 comma 3 c.p.p. preveda in realtà una doppia presunzione, una (relativa) di pericolosità sociale, l'altra (assoluta) di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere. 
La prima di esse può essere superata, ma solo quando, sulla base degli elementi a disposizione del giudice, emerga che l'imputato abbia rescisso i vincoli che lo tenevano legato al sodalizio criminale o quando sia dimostrato l'effettivo e irreversibile allontanamento dell'indagato dal gruppo criminale (ma tale prova non può essere rinvenuta nella mancanza di prova di rapporti dell'indagato con altri esponenti della cosca). 
La seconda presunzione non può invece essere superata: già la Corte Costituzionale, con la Sentenza n. 48/15, aveva infatti dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 275 comma 3 c.p.p., nella parte in cui tale norma prevede la presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare della custodia in carcere nei confronti del concorrente esterno nel delitto di associazione mafiosa; solo in questo caso non si può ravvisare infatti - osservò la Consulta - quel vincolo di adesione permanente al gruppo criminale, tale da legittimare il ricorso in via esclusiva alla misura carceraria nei confronti del soggetto che risulti inserito a pieno titolo nell'associazione. 
Analogamente, la Corte Costituzionale, con la Sentenza n. 57/13, aveva dichiarato costituzionalmente illegittima la medesima disposizione nella parte in cui prevedeva la presunzione assoluta in discorso in relazione agli indagati per delitti non associativi, ma solo aggravati ai sensi dell'art. 7 l. 203/91 (oggi 416 bis.1 c.p.): anche tali fattispecie - si osservò - si differenziano infatti dall'ipotesi della diretta partecipazione al sodalizio, difettando il vincolo di adesione permanente al medesimo.

Sulla base di tali osservazioni, la Corte ha quindi affermato "l'assoluta specificità" della posizione dell'indagato, o dell'imputato, per il delitto associativo: tale posizione non muta nel corso delle diverse fasi del processo, con la conseguenza per cui, anche quando si applica la misura cautelare nei modi e nei tempi di cui all'art. 275 comma 1 bis c.p.p., quindi nei confronti del condannato in primo grado per il delitto di associazione di tipo mafioso, valgono ugualmente le presunzioni previste dall'art. 275 comma 3 c.p.p.; così deve infatti essere interpretato il richiamo al pericolo di fuga ed al pericolo di reiterazione delle condotte contenuto nello stesso comma 1 bis.
Quando poi, come accaduto nel caso di specie, una prima ordinanza sia annullata dal Tribunale del Riesame per mancanza dei gravi indizi di colpevolezza, non v'è ragione per escludere la presunzione in oggetto: da una parte, infatti - ha osservato il Collegio - gli elementi sopravvenuti devono essere valutati anche con quelli preesistenti, allo scopo della formulazione del giudizio sull'esistenza delle esigenze cautelari; dall'altra, una diversa interpretazione determinerebbe un ingiustificato trattamento di favore nei confronti di imputati già raggiunti non più da indizi, ma da prove della commissione di reati di tale gravità da giustificare già nel corso delle indagini preliminari una presunzione di pericolosità, non certo venuta meno per effetto della condanna.
La Suprema Corte ha quindi affermato come, nel caso di specie, il Tribunale abbia fatto puntuale applicazione di tali principi, nella valutazione delle esigenze cautelari ex art. 275 comma 3 c.p.p., in modo tale da evidenziare come la gravità delle condotte sfociate in una pena di elevato spessore e l'assenza di elementi favorevoli di valutazione, a causa della totale mancanza di segnali di resipiscenza, abbiano impedito il superamento della presunzione di cui all'art. 275 comma 3 c.p.p.. Tali circostanze, infatti, sono state ritenute tali da denotare l'estrema pericolosità dell'indagato, oltre a dare atto dell'esistenza di un concreto pericolo di fuga del medesimo, proprio in virtù della possibilità di avvalersi dell'appoggio dell'associazione mafiosa di appartenenza. 
Pertanto, il Collegio ha rigettato il ricorso proposto dall'indagato.


2) Cause di impossibilità di disposizione o mantenimento della custodia cautelare in carcere in relazione ai soggetti che si trovino nelle condizioni di cui all'art. 275 comma 4 prima parte c.p.p..

Un altro tema nuovamente affrontato di recente dalla giurisprudenza di legittimità, con la Sentenza n. 23268, pronunciata dalla Quarta Sezione Penale in data 19 aprile 2019 (deposito motivazioni in data 28 maggio 2019), è stato quello relativo alle condizioni in presenza delle quali la custodia cautelare in carcere dell'indagato, padre di figli minori di sei anni, può essere disposta o mantenuta, stante l'assoluta impossibilità della madre a dare assistenza alla prole, oppure quando la medesima sia deceduta.
La Corte ha innanzitutto osservato come la disposizione di cui all'art. 275 comma 4 c.p.p. abbia inteso assicurare una tutela ai minori, entro il limite di età di sei anni, prevalente sulle esigenze cautelari, quand'anche la misura sia stata applicata per uno dei delitti di cui all'art. 275 comma 3 c.p.p., con l'unica eccezione relativa all'ipotesi di sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. La giurisprudenza di legittimità ha infatti affermato come la presunzione di cui all'art. 275 comma 4 c.p.p. prevalga rispetto alla presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere di cui al comma 3 del medesimo articolo, nell'ipotesi di contestazione dei reati ivi previsti.

Tanto premesso, il Collegio ha poi osservato come la prova della sussistenza del presupposto di cui all'art. 275 comma 4 c.p.p., ossia l'impossibilità dell'altro genitore ad attendere alla cura efficace della prole, incombe sul soggetto che chiede l'applicazione della misura attenuata. 
Nella fattispecie in esame, il Tribunale della Libertà di Palermo aveva escluso la sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere con altra meno grave, stante la non acclarata impossibilità della madre di assicurare al figlio della coppia, di età minore di sei anni, un adeguato sostegno genitoriale.
A questo proposito, la Corte ha affermato come tale impossibilità debba essere valutata non in relazione alla presenza fisica del genitore lungo il corso della giornata, ma "alla possibilità di far fronte allo sviluppo psicofisico del minore, potendo le altre incombenze materiali essere diversamente risolte". L'assoluta impossibilità richiesta dalla norma non è dunque integrata dal non poter seguire il minore di sei anni per tutto il corso della giornata, essendo chiaro - hanno osservato i giudici di legittimità - come l'attività lavorativa del genitore non detenuto sia di per sé compatibile con la possibilità di attendere alla cura del figlio.
Al contrario, affinché possa dirsi integrata tale impossibilità, "deve prospettarsi una situazione nella quale si palesi un difetto assistenziale non altrimenti colmabile, tale da compromettere il processo evolutivo-educativo del figlio"; questa situazione, ha aggiunto la Corte, può rinvenirsi nell'ipotesi di "malattia, di detenzione o di impegno lavorativo che comporti una tale alternanza tra presenza ed assenza del genitore da compromettere la sussistenza di uno stabile e continuativo rapporto di cura del minore".

Nella fattispecie in esame, la Corte ha rilevato come tale situazione non sia stata in alcun modo dimostrata, essendosi unicamente insistito sulla difficoltà di trovare qualcuno che accudisse il minore in luogo della madre tra le ore 18 e le ore 22, quando la medesima si trovava impegnata al lavoro, e si è quindi ritenuto non sussistere i presupposti di cui all'art. 275 comma 4 c.p.p., con conseguente rigetto del ricorso proposto dall'indagato.


3) Sempre con riferimento all'ipotesi di applicazione di una misura cautelare in relazione ad un delitto associativo, la giurisprudenza di legittimità si è interrogata se si possa riconoscere un interesse dell'indagato a ricorrere per cassazione avverso l'ordinanza del tribunale del riesame, al fine di ottenere l'esclusione della qualifica di organizzatore di un'associazione criminale

La Sentenza che ha affrontato tale questione è la n. 31633, pronunciata all'udienza del 15 marzo 2019 (deposito motivazioni in data 18 luglio 2019) dalla Terza Sezione Penale della Suprema Corte. I giudici di legittimità hanno affermato come il ricorrente non avesse alcun interesse a proporre tale motivo di ricorso. 
La Corte ha innanzitutto evidenziato come la sussistenza dell'associazione per delinquere (nella fattispecie, ex art. 74 D.P.R. 309/90) non sia stata oggetto di specifica censura, non avendo l'imputato contestato di avervi preso parte, proponendo invece deduzioni che presupponevano esplicitamente il suo ruolo di partecipe al sodalizio. 
Ciò posto, i giudici di legittimità hanno osservato come la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della sola misura custodiale a far fronte alle medesime, ex art. 275 comma 3 c.p.p., non può subire "flessioni o declinazioni di sorta a seconda del ruolo svolto da ciascun partecipe all'interno del sodalizio". D'altra parte, nel caso in esame, l'ordinanza impugnata non aveva valorizzato, ai fini del giudizio cautelare, il ruolo contestato dall'indagato. Il Tribunale, applicando il criterio di giudizio di cui all'art. 275 comma 3 c.p.p., aveva preso atto della mancanza di elementi da cui desumere l'assenza delle esigenze cautelari, nonché l'adeguatezza della sola custodia cautelare a soddisfare le medesime.
D'altro lato, con specifico riferimento alla predetta questione, la Corte ha ribadito il principio per cui l'interesse richiesto dall'art. 568 comma 4 c.p.p. deve essere "concreto ed attuale, correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste solo se l'impugnazione sia idonea a costituire, attraverso l'eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l'impugnante rispetto a quella esistente".
L'assenza della qualifica di "organizzatore", tuttavia, anche qualora effettivamente riscontrata, non avrebbe prodotto - ha osservato la Corte -  alcuna conseguenza favorevole per il ricorrente: da un lato, infatti, il fatto costitutivo della presunzione cautelare è costituito dalla mera partecipazione al sodalizio, a prescindere dal ruolo svolto; dall'altra, l'ordinanza non aveva neppure valorizzato, a fini cautelari, il ruolo organizzativo dell'indagato.