La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 39268, pronunciata all'udienza del 10 luglio 2019 (deposito motivazioni in data 25 settembre 2019), ha preso nuovamente in esame il tema relativo al principio di correlazione tra imputazione e sentenza nei reati colposi in ambito sanitario.
Il giudizio di legittimità ha tratto origine dal ricorso presentato da un medico ginecologo, imputato del delitto di omicidio colposo, per avere cagionato la morte di una paziente, sottoposta a taglio cesareo ed a successiva isterectomia, in cooperazione con un collega, anch'egli ginecologo, ed un anestesista-rianimatore.
In particolare, agli imputati era stato contestato di avere dapprima ritardato l'intervento di isterectomia totale, pur in presenza di shock emorragico conseguente a parto cesareo con placenta accreta, e di non essersi quindi adoperati tempestivamente per l'approvvigionamento delle sostanze ematiche necessarie a fronteggiare l'emergenza in atto, omettendo così di trasfondere plasma fresco per correggere il difetto di coagulazione. I medesimi erano stati chiamati altresì a rispondere del fatto di aver ritardato il trasferimento della paziente in un ospedale dotato di reparto di rianimazione, cagionando in questo modo, il giorno seguente, il decesso della medesima.
A fronte dell'assoluzione, nel giudizio d'appello, dei due colleghi, il medico ginecologo proponeva impugnazione avverso la sentenza della Corte territoriale, lamentando, tra gli altri motivi, violazione di legge in relazione agli artt. 521 comma 2 e 522 c.p.p..
L'imputato osservava come il giudice di primo grado avesse riconosciuto la sua responsabilità, unitamente a quella dei colleghi successivamente assolti, in relazione alla gestione, ritenuta erronea, dell'urgenza emorragica insorta nel corso dell'intervento ed alla successiva gestione della paziente nella fase post-operatoria.
Stante la condanna per tali profili di colpa, l'imputato aveva sostenuto, con il proprio atto d'appello, come il Tribunale avesse erroneamente valutato le risultanze istruttorie relativamente alla gestione dell'urgenza operatoria e post-operatoria, essendo invece state attuate tempestivamente tutte le condotte rese necessarie dalle criticità emerse nel corso dell'intervento d'urgenza.
La Corte d'Appello di Caltanissetta, tuttavia, invece di valutare tali doglianze, aveva individuato in capo all'imputato un nuovo e diverso profilo di colpa: esso consisteva nella mancata diagnosi della placenta previa (da cui può derivare il rischio di placenta accreta), e dunque in un'omissione che non avrebbe permesso di prevedere i rischi connessi a tale condizione clinica. Di conseguenza, secondo la Corte di merito, l'intervento non era stato programmato con modalità idonee ad evitare l'exitus.
In questo modo tuttavia - affermava l'imputato - la Corte d'Appello era pervenuta ad una condanna per un fatto diverso da quello risultante sia dalla contestazione sia dalla sentenza di primo grado; fatto sul quale egli non aveva avuto possibilità alcuna di esercitare il proprio diritto di difesa, non essendo stato, il fatto de quo, oggetto di interlocuzione processuale. I giudici di merito avevano infatti spostato la condotta omissiva causante l'evento mortale in una fase differente rispetto a quelle in precedenza individuate, ossia in quella pre-operatoria, coincidente con la gravidanza, sebbene tale fase non fosse mai stata oggetto del giudizio.
La Corte di Cassazione, esaminando tale motivo di ricorso, ha riconosciuto, come affermato dall'imputato, che il fatto ad egli addebitato sia, in effetti, nuovo ed ulteriore rispetto a quello oggetto di contestazione, con conseguente violazione del principio di cui all'art. 521 c.p.p..
I giudici di legittimità hanno infatti osservato come l'originaria contestazione riguardasse essenzialmente la cattiva gestione da parte dell'imputato dell'emergenza operatoria e post-operatoria, con particolare riguardo al momento in cui si era manifestato un imponente shock emorragico derivante dalla predetta patologia placentare. La sentenza della Corte d'Appello, invece, anche sulla base di una perizia integrativa da essa disposta, aveva individuato un ulteriore profilo di colpa in capo all'imputato, riguardante, come da quest'ultimo rilevato nel proprio ricorso, la sottovalutazione del caso durante il decorso della gravidanza.
La Corte di merito, in particolare, aveva affermato come l'imputato (ginecologo di fiducia della paziente) avrebbe dovuto valutare con attenzione la presenza di eventuali anomalie di impianto e di sede della placenta e considerare la possibile diagnosi di rischio di placenta accreta, rischio che risultava accentuato in capo ad una paziente che aveva già subito due tagli cesarei. La perizia disposta dalla Corte aveva infatti stabilito come la placenta accreta sia un evento rappresentante una tra le più gravi complicazioni ostetriche, con potenziale rischio di vita per la donna; pertanto, nei casi di sospetto diagnostico ante-partum di placenta accreta, il parto dev'essere programmato mediante taglio cesareo pretermine in centri di terzo livello, con predisposizione di un approccio multidisciplinare e con l'individuazione di specialisti in chirurgia pelvica.
Secondo la Corte d'Appello, pertanto, la mancata diagnosi di placenta previa, da cui può derivare la condizione di placenta accreta, aveva determinato una serie di "eventi sfavorevoli, coinvolgendo anche altre figure professionali e facendo emergere tutte le criticità di una struttura non organizzata per la gestione delle emergenze". I giudici di merito avevano ancora aggiunto: "Non si tratta di addebitare all'imputato la mancata previsione di un evento imprevedibile quale l'accretismo placentare, ma piuttosto l'omissione della doverosa prevenzione di un evento prevedibile quale la placenta previa, rischio ricorrente per la paziente bicesarizzata e, per conseguenza, la mancata "organizzazione" del parto in struttura adeguata e con operatori specializzati".
Tali argomentazioni sono state tuttavia ritenute incorrenti in un errore logico-giuridico da parte della Corte di Cassazione.
I giudici di legittimità hanno riconosciuto come il fatto per cui è intervenuta condanna sia cronologicamente antecedente e strutturalmente autonomo rispetto a quello contestato.
La Corte ha infatti ricordato come, in tema di correlazione tra accusa e sentenza, il "fatto nuovo" debba essere inteso come "un fatto ulteriore ed autonomo rispetto a quello contestato, ossia un episodio storico che non si sostituisce ad esso, ma che eventualmente vi si aggiunge, affiancandolo quale autonomo "thema decidendum"; la definizione di "fatto diverso" consiste invece non solo in "un fatto che integri un'imputazione diversa, restando esso invariato, ma anche un fatto che presenti connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, rendendo necessaria una puntualizzazione nella ricostruzione degli elementi essenziali del reato, pur nell'ambito della stessa vicenda fattuale oggetto di imputazione".
Stanti tali definizioni, la Corte ha quindi affermato come il reato per cui, nella fattispecie, è intervenuta condanna integri un "fatto nuovo", essendo stata la responsabilità penale attribuita esclusivamente sulla base dell'omessa diagnosi di placenta previa nella fase ante-partum, mai contestata dall'accusa.
E' vero - hanno osservato i giudici di legittimità - come in tema di reati colposi sia costante la giurisprudenza di legittimità secondo cui non vi sarebbe violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nell'ipotesi in cui sia aggiunto un ulteriore profilo di colpa non menzionato nell'imputazione, a condizione che l'imputato abbia avuto la concreta possibilità di apprestare in modo completo la sua difesa in relazione ad ogni possibile profilo dell'addebito.
Tuttavia, tale solido orientamento è stato equivocato dai giudici di merito: esso - si è osservato - presuppone "pur sempre che il profilo di colpa nuovo attenga al medesimo fatto storico oggetto di imputazione". In altri termini, è necessario evitare di confondere le nozioni di "fatto" e di "colpa": da un "fatto" possono derivare uno o più distinti profili di colpa, i quali non devono necessariamente essere stati tutti contestati nel capo d'imputazione originario. Nei reati colposi, infatti, "la contestazione riguarda in genere la condotta dell'imputato globalmente considerata, nell'ambito della vicenda fattuale in contestazione, sicché questi è (solitamente) in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti del comportamento tenuto in occasione dell'evento di cui è chiamato a rispondere, indipendentemente dalla specifica norma che si assume violata".
Pertanto, il "nuovo" profilo di colpa emerso nel corso del processo deve necessariamente derivare dalle circostanze di fatto come descritte nel capo d'imputazione: l'individuazione di tale ulteriore profilo di colpa si limita quindi a costituire una "definizione giuridica diversa", come indicato dall'art. 521 c.p.p..
Rimane inoltre fermo il principio per cui - in virtù del rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa - tale nuovo profilo di colpa emergente dal processo sia inserito nella dialettica processuale, così da consentire all'imputato "di apprestare una difesa effettiva e consapevole anche in relazione all'ulteriore e diverso profilo giuridico dell'addebito colposo oggetto di contestazione"; solo nel rispetto di questa condizione il mutamento dell'imputazione non determina un mutamento del fatto e non viola pertanto il principio di correlazione tra accusa e sentenza. Tuttavia, il nuovo profilo di colpa deve emergere dalla medesima vicenda fattuale descritta nel capo d'imputazione: diversamente - ha osservato la Corte - "l'analisi colposa riconducibile ad un fatto ulteriore, posto "a sorpresa" a base della condanna, non potrebbe che incidere negativamente sulle prerogative difensive dell'imputato".
La Corte di Cassazione ha quindi rilevato come, nella fattispecie, i giudici di merito, nonostante abbiano riconosciuto l'omessa contestazione all'imputato del nuovo profilo di colpa descritto nella sentenza, non si siano minimamente interrogati circa il rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa dell'imputato, non spiegando se nel contraddittorio si sia realizzata e sia stata garantita un'interlocuzione processuale da parte della difesa rispetto al nuovo profilo di colpa riconosciuto, ex artt. 516 ss. c.p.p..
Tale silenzio serbato dalla Corte di merito sul punto costituisce un vizio di carenza di motivazione su di un aspetto decisivo come il rispetto del diritto di difesa: i giudici di legittimità hanno infatti affermato il principio di diritto per cui "il giudice di merito, qualora il giudizio faccia emergere un profilo di colpa nuovo e diverso rispetto a quanto contestato nell'imputazione, deve dare conto in motivazione delle modalità processuali con le quali è stato garantito, rispetto ad esso, il concreto esercizio del diritto di difesa dell'imputato...qualora la condanna si fondi proprio sulla valorizzazione di un addebito colposo ulteriore rispetto a quanto specificamente contestato".
La Corte di Cassazione si è infine posta il problema di quali conseguenze processuali debbano derivare dalla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nel caso di specie.
La Corte territoriale, a fronte del fatto "nuovo" emerso durante il processo, avrebbe dovuto trasmettere gli atti al Pubblico Ministero ai fini della formazione di una nuova imputazione, così come previsto dagli artt. 521 commi 2 e 3 c.p.p..
La violazione dell'art. 521 c.p.p. determina la nullità della sentenza di condanna nei confronti dell'imputato in relazione al fatto nuovo: la Corte ha quindi pronunciato sentenza di annullamento senza rinvio sia della sentenza impugnata sia di quella di primo grado; la prima condanna era stata infatti implicitamente riformata in senso assolutorio dalla sentenza d'appello, con la conseguenza per cui il solo annullamento di quest'ultima avrebbe determinato un'inammissibile reviviscenza della condanna di primo grado.
La Corte ha inoltre rilevato l'inutilità della trasmissione degli atti al Pubblico Ministero in relazione al fatto nuovo riconosciuto nella sentenza di secondo grado, essendo ormai il reato estinto per intervenuta prescrizione.