sabato 26 ottobre 2019

Giurisprudenza penale processuale 2019 in tema di procedimenti speciali: le ultime pronunce della Suprema Corte in tema di applicazione della pena su richiesta delle parti.

In tema di procedimenti speciali, si segnalano le più recenti e rilevanti pronunce della giurisprudenza di legittimità concernenti l'applicazione della pena su richiesta delle parti.

Ricorso per cassazione avverso la sentenza di patteggiamento (art. 448 comma 2 bis c.p.p.):

1) con la Sentenza n. 28013, emessa all'udienza del 21 marzo 2019 (deposito motivazioni in data 26 giugno 2019), la Sesta Sezione Penale della Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi circa l'ammissibilità del ricorso per cassazione avverso la statuizione di condanna alla refusione delle spese di parte civile.
I giudici di legittimità, con tale pronuncia, hanno affermato l'ammissibilità di tale ricorso. In motivazione, si è stabilito come l'introduzione dell'art. 448 comma 2 bis c.p.p. - riguardante la parte della decisione che ha formato oggetto dell'accordo - non abbia determinato il superamento del principio di diritto stabilito dalle Sezioni Unite Tizzi del 2011 (n. 40288). In tale occasione, la Corte affermò la ricorribilità per cassazione della sentenza di patteggiamento nella parte relativa alla condanna alla refusione delle spese di parte civile, con particolare riferimento alla legalità della somma liquidata ed all'esistenza di una corretta motivazione sul punto, qualora sulla relativa richiesta, proposta all'udienza di discussione, nulla sia stato eccepito. Ciò a condizione che - come stabilito dalla giurisprudenza di legittimità successiva - siano indicate anche in modo sommario le ragioni di illegittimità della liquidazione e le violazioni dei limiti tariffari relativi alle attività difensive svolte dal patrono di parte civile.
Con la Sentenza in oggetto, il Collegio ha inoltre osservato, a sostegno della propria tesi - facendo proprio quanto affermato dalla Sentenza Calderan del 2018, n. 6538 - come la domanda di liquidazione delle spese a favore della parte civile sia estranea all'accordo intervenuto tra il pubblico ministero e l'imputato, rappresentando un autonomo capo della sentenza che deve essere sorretto da adeguata motivazione la quale deve dare conto, sulle singole voci, dell'attività svolta dal patrono di parte civile e della congruità delle somme liquidate. Tale valutazione deve inoltre avere riguardo ai limiti minimi e massimi della tariffa forense, al numero ed all'importanza delle questioni trattate ed alla natura ed entità delle singole prestazioni.

Sul punto, si segnala tuttavia una pronuncia della medesima sezione della Suprema Corte di segno esattamente opposto. Con la Sentenza n. 22527, pronunciata all'udienza del 16 gennaio 2019 (deposito motivazioni in data 22 maggio 2019), la Sesta Sezione Penale ha infatti dichiarato inammissibile un ricorso con il quale si deduceva violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo alla liquidazione delle spese in favore delle parti civili. I giudici di legittimità, in motivazione, hanno osservato come tale censura esuli da quelle che possono essere proposte con ricorso per cassazione avverso una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, a seguito della riforma apportata dalla l. 103/17. 
Tale ricorso non può quindi essere proposto per motivi diversi rispetto a quelli tassativamente indicati dal comma 2 bis dell'art. 448 c.p.p., attinenti all'espressione della volontà dell'imputato, al difetto di correlazione tra richiesta e sentenza, all'erronea qualificazione giuridica del fatto e all'illegalità della pena o della misura di sicurezza. Al di fuori di tali casi, la Corte, secondo la pronuncia in oggetto, deve dichiarare il ricorso inammissibile con procedura semplificata e non partecipata, in base al combinato disposto degli artt. 448 comma 2 bis c.p.p. e 610 comma 5 bis c.p.p..


2) Sempre con riferimento al tema del ricorso per cassazione avverso la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, si segnala poi la Sentenza n. 18942, pronunciata dalla Quarta Sezione Penale all'udienza del 27 marzo 2019 (deposito motivazioni in data 7 maggio 2019), avente ad oggetto la questione relativa all'ammissibilità del ricorso proposto dall'imputato per vizio di motivazione in ordine alla durata della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida.
Nella fattispecie in esame, la Corte ha ritenuto ammissibile tale ricorso. In applicazione dell'art. 448 comma 2 bis c.p.p., il Collegio ha infatti osservato come la giurisprudenza di legittimità abbia già chiarito - successivamente all'entrata in vigore della Riforma Orlando - come il ricorso per cassazione in punto di motivazione della sanzione amministrativa accessoria ben possa essere proposto secondo la disciplina generale dettata dall'art. 606 comma 2 c.p.p., non incontrando i limiti di cui all'art. 448 comma 2 bis c.p.p., in considerazione del carattere autonomo della sanzione amministrativa, non riconducibile alle categorie della pena e delle misure di sicurezza, indicate in tale norma.
La Corte ha quindi evidenziato come le sanzioni amministrative accessorie abbiano proprie caratteristiche peculiari, tali da distinguerle dalla pena, cui non possono essere equiparate, neppure in base all'eventuale ricorrenza di caratteri comuni, come già osservato dalla Sentenza n. 49/15 della Corte Costituzionale. Per tale motivo, esse si collocano al di fuori della sfera di operatività dell'accordo che investe il patteggiamento propriamente detto, ed il giudice deve quindi applicarle in via autonoma, indipendentemente dalla volontà delle parti, trattandosi di statuizione sottratta al loro accordo.

Anche in questo caso, tuttavia, deve essere evidenziato un contrasto giurisprudenziale in seno alla Corte di Cassazione. La Sesta Sezione Penale della Suprema Corte, infatti, con la Sentenza n. 15845, pronunciata all'udienza del 7 gennaio 2019 (deposito motivazioni in data 10 aprile 2019), ha affermato l'inammissibilità del ricorso per cassazione proposto in ordine al vizio di motivazione concernente la durata della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida.
I giudici di legittimità hanno infatti affermato come, dopo la modifica dell'art. 448 c.p.p., operata dalla l. 103/17, la possibilità di impugnare mediante ricorso per cassazione la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti sia ristretta alle quattro tassative ipotesi ivi previste, con la conseguenza per cui la possibilità di dedurre un vizio di motivazione riguardo alla durata della sanzione amministrativa accessoria deve ritenersi preclusa dal dettato dell'art. 448 comma 2 bis c.p.p..
Se così non fosse - ha infatti osservato la Corte - ne risulterebbe un'evidente asimmetria nel sistema dell'impugnazione della sentenza di patteggiamento: da un lato, risulterebbero radicali restrizioni, sul piano del vizio di motivazione, in relazione alle statuizioni aventi ad oggetto non solo il trattamento sanzionatorio, ma anche le misure di sicurezza, malgrado l'estraneità di quest'ultime all'oggetto dell'accordo negoziale; dall'altro, le statuizioni concernenti le sanzioni amministrative accessorie che non andrebbero invece incontro ad alcuna limitazione.
Tale asimmetria - secondo i giudici di legittimità - non si fonderebbe tuttavia su di alcuna razionale giustificazione: in questo modo l'ordinamento riconoscerebbe infatti una più ampia possibilità di reazione avverso la sanzione amministrativa accessoria, rispetto a quella nei confronti del reato, cui pure la prima inerisce quale automatica conseguenza, svolgendo una funzione riparatoria dell'interesse pubblico correlato al valore primario tutelato dalla norma penale, al punto di esserne demandata l'applicazione al giudice penale (l'ordinaria competenza prefettizia è infatti ripristinata solo nelle ipotesi di estinzione del reato per causa diversa dalla morte dell'imputato ex art. 224 comma 3 C.d.S., in quanto significative del venir meno della vis attrattiva esercitata dal giudizio penale). Anche in questa fattispecie, il Collegio ha affermato che il ricorso presentato per motivi estranei a quelli tassativamente previsti dall'art. 448 comma 2 bis c.p.p. deve essere dichiarato inammissibile con declaratoria effettuata senza formalità ex art. 610 comma 5 bis c.p.p..


3) Un'altra questione, concernente i motivi proponibili a sostegno del ricorso per cassazione avverso la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, è sorta con riferimento all'ammissibilità del ricorso proposto dal pubblico ministero volto a denunciare l'omessa applicazione della confisca obbligatoria (nella fattispecie si trattava di quella prevista dall'art. 12 bis D. Lgs. 74/00), nonostante la ricorrenza dei relativi presupposti.
La Terza Sezione Penale della Suprema Corte, con la Sentenza n. 29428, pronunciata all'udienza dell'8 maggio 2019 (deposito motivazioni in data 5 luglio 2019), ha dato al quesito risposta affermativa. La Corte ha infatti affermato come la limitazione delle ipotesi di ricorso per cassazione avverso sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti alle sole ipotesi di illegalità delle misure di sicurezza non esclude che, nei casi nei quali sia stata del tutto omessa una confisca obbligatoria, si versi proprio in un'ipotesi di illegalità di tale misura di sicurezza, come tale, quindi, ricorribile per cassazione; il divieto, infatti, di cui all'art. 445 c.p.p. è da considerarsi eccezionale e limitato alle sole pene accessorie e misure di sicurezza diverse dalla confisca obbligatoria.
La Corte ha quindi ricordato come la nozione di pena illegale fu definita dalle Sezioni Unite Pittalà del 2018 (n. 40986) e Jazouli del 2015 (n. 33040) come quella che, per specie ovvero per quantità, non corrisponde alla pena astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice in questione, così collocandosi al di fuori del sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale o che, comunque, è stata determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione basato su di una cornice edittale inapplicabile, perché dichiarata costituzionalmente illegittima o perché individuata in violazione del principio di irretroattività della legge penale più sfavorevole; a sua volta, quindi, anche la misura di sicurezza del tutto omessa, in ipotesi di obbligatorietà della sua applicazione, è da considerarsi illegale, in quanto, nonostante la ricorrenza dei presupposti che ne imponevano l'applicazione, essa è stata omessa: si determina, pertanto, in questo caso, un'illegalità sul piano quantitativo delle statuizioni conseguenti alla realizzazione di un reato per il quale sia prevista come obbligatoria una misura di sicurezza.
Il Collegio ha quindi affermato, come anticipato, la tesi dell'ammissibilità del ricorso avverso la sentenza di patteggiamento che contenga una tale lacuna, in quanto, in tale ipotesi, non è denunciato un vizio della motivazione sul punto, ma l'illegalità derivante dalla mancata applicazione di una misura di sicurezza obbligatoria.

Anche su tale questione si registra comunque un contrasto giurisprudenziale in seno alla Suprema Corte. Un diverso orientamento, infatti, la cui ultima pronuncia in ordine di tempo è avvenuta ad opera della Sesta Sezione Penale, con la Sentenza n. 9434, pronunciata all'udienza del 29 gennaio 2019 (deposito motivazioni in data 4 marzo 2019), ha affermato l'inammissibilità del ricorso in oggetto (nella fattispecie, si trattava della mancata espulsione dello straniero per uno dei reati indicati nell'art. 86 D.P.R. 309/90).
Nella fattispecie, la Corte di Cassazione riteneva erronea la qualificazione dell'atto di impugnazione del pubblico ministero quale ricorso per cassazione, stante la previsione di cui all'art. 448 comma 2 bis c.p.p., che individua ipotesi tassative per la proponibilità di tale impugnazione; motivo ammissibile del ricorso può essere l'illegalità della misura di sicurezza, presupponendo tuttavia che una misura di sicurezza sia stata legittimamente applicata, e non anche ne sia stata illegittimamente omessa l'applicazione.
Il Collegio ha quindi valutato la possibilità di convertire il ricorso ex art. 568 comma 5 c.p.p., tenuto conto, in particolare, della competenza funzionale del Tribunale di Sorveglianza prevista dal combinato disposto degli artt. 579 comma 2 e 680 comma 2 c.p.p., sulle impugnazioni proposte contro le sentenze di condanna o di proscioglimento sui soli punti della decisione concernenti le disposizioni che riguardano le misure di sicurezza. 
Tale disposizione - ha osservato la Corte - fuoriesce dall'ambito dell'accordo posto a base della sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p.: si è quindi ritenuto che, sotto tale limitato profilo, la sentenza di patteggiamento possa essere equiparabile ad una sentenza di condanna, essendo l'applicazione delle misure di sicurezza, anche se disposta in sede di applicazione concordata della pena, comunque soggetta alla valutazione da parte del giudice del presupposto sostanziale della pericolosità sociale, e quindi subordinata allo stesso vaglio che è richiesto nel caso di misura di sicurezza applicata con una sentenza di condanna. 
Con riguardo alle disposizioni della sentenza di patteggiamento che non siano state considerate nel contenuto dell'accordo concluso tra le parti, non vale l'inappellabilità di cui all'art. 448 comma 2 c.p.p.; la Corte ha quindi ritenuto che le parti abbiano diritto ad appellare la sentenza emessa ex art. 444 c.p.p.: non vi è infatti ragione per escludere l'appellabilità innanzi al tribunale di sorveglianza della sentenza, per le disposizioni che investano la decisione sull'applicazione delle misure di sicurezza, in quanto non comprese nell'accordo sulla pena. Il Collegio ha quindi concluso come - poiché l'attribuzione della competenza funzionale alla magistratura di sorveglianza in materia di misure di sicurezza personali e di accertamento della pericolosità sociale presuppone che l'impugnazione sia limitata alle sole disposizioni che riguardano le misure di sicurezza - si debba ritenere che l'omessa statuizione sulla misura di sicurezza possa essere impugnata davanti al tribunale di sorveglianza (in difetto di impugnazione degli altri capi della sentenza) anche nel caso di sentenza emessa ex art. 444 c.p.p., previa conversione del ricorso per cassazione. La tesi opposta, infatti, affermata da un più risalente orientamento giurisprudenziale, deve ritenersi superata - secondo i giudici della Sesta Sezione Penale - a fronte della sopravvenuta modifica normativa che ha limitato la proponibilità del ricorso per cassazione avverso la sentenza di patteggiamento.


4) Infine, sempre in tema di ricorso per cassazione avverso la sentenza di applicazione della pena, si registra la Sentenza n. 22187, pronunciata dalla Seconda Sezione Penale della Suprema Corte all'udienza del 19 aprile 2019 (deposito motivazioni in data 21 maggio 2019). Tale pronuncia ha affermato l'inammissibilità del ricorso proposto dall'imputato, sul presupposto dell'inapplicabilità del c.d. patteggiamento allargato, in ragione della contestata recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale, qualora nello stesso non sia indicato un interesse specifico all'annullamento della sentenza.
La Corte ha affermato come la giurisprudenza di legittimità abbia riconosciuto nell'accesso al patteggiamento allargato nei casi non consentiti, ex art. 444 comma 1 bis c.p.p., un'ipotesi di pena illegale, con la conseguenza per cui avverso la sentenza è ammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 448 comma 2 bis c.p.p..
Alle norme del codice di rito che disciplinano i riti premiali nella parte relativa alla previsione di riduzioni di pena dev'essere riconosciuta - ha osservato la Corte - natura sostanzialmente sanzionatoria, anche alla luce delle valutazioni effettuate dalla Corte EDU nella sentenza della Grande Camera del 17/9/2009, nel caso Scoppola c/ Italia in relazione al giudizio abbreviato. L'illegalità della pena deve essere infatti apprezzata tenendo presenti tutti i limiti che influiscono nella sua concreta determinazione, la cui violazione si presti ad essere qualificata come contraria al dettato normativo. Rimane tuttavia fermo come il controllo di legittimità incontri il limite costituito dal divieto di reformatio in peius, atteso che, nel giudizio di legittimità, l'illegalità "ab origine" della pena, inflitta in senso favorevole all'imputato, può essere corretta solo in presenza di specifico motivo di gravame da parte del pubblico ministero, essendo limitato il potere di intervento d'ufficio ai soli casi nei quali l'errore sia avvenuto in danno dell'imputato.
AI fine della delimitazione dell'area d'impugnabilità della sentenza ex art. 444 c.p.p. alla luce del tassativo catalogo enunziato all'art. 448 comma 2 bis c.p.p., appare invece controvertibile - ha osservato ancora la Corte -  la sussunzione nell'area dell'illegalità della pena delle violazioni che concernono i limiti oggettivi e soggettivi che restringono l'area di accesso al rito, non risultando all'uopo dirimente il richiamo alla giurisprudenza CEDU circa la natura sostanziale delle norme a carattere premiale. Alla stregua, infatti, dell'ampia elaborazione giurisprudenziale sul tema, deve ritenersi che l'illegalità della pena postuli come tratto qualificante un difetto di corrispondenza, qualitativo o quantitativo, tra la previsione sanzionatoria e il trattamento in concreto inflitto, tale da rendere quest'ultimo contrario al dettato della legge, di modo che l'estensione ermeneutica, finalizzata a ricomprendere in questo ambito violazioni di altra e diversa natura, prodromiche e strumentali rispetto alla determinazione della pena, appare, secondo i giudici di legittimità, dubbia.

Per quanto invece concerne la rilevabilità d'ufficio del vizio, si è osservato come l'orientamento che sostiene la ricorrenza di un'ipotesi di pena illegale in presenza di pena patteggiata in violazione dell'art. 444 comma 1 bis c.p.p., sulla base della necessaria pervasività del controllo sulla legalità della sanzione demandato alla Corte di Cassazione, riconosce, tuttavia, nel contempo, che tale controllo incontra, comunque, il limite rappresentato dal divieto di reformatio in peius che, in caso di illegalità ab origine della pena, inflitta in senso favorevole all'imputato, può essere superato solo in presenza di specifico motivo di gravame da parte del pubblico ministero.
In più occasioni, ha aggiunto il Collegio, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che è inammissibile il ricorso proposto dall'imputato avverso la sentenza di applicazione della pena, con deduzione del motivo concernente l'inapplicabilità del c.d. patteggiamento allargato, in ragione della contestata recidiva reiterata, specifica, infraquinquennale, qualora l'imputato non indichi nel ricorso lo specifico interesse all'annullamento della sentenza; tale principio è applicazione di quello, più generale, che vieta al giudice dell'impugnazione, in mancanza di uno specifico motivo di gravame da parte del pubblico ministero, di modificare la sentenza che abbia inflitto una pena illegale di maggior favore per il reo.

La Corte ha poi osservato come da tempo si sia chiarito (a partire dalla Sentenza delle Sezioni Unite Timpani del 1995, n. 42) che l'interesse richiesto dall'art. 568 comma 4 c.p.p., quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare, e sussiste solo se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l'eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l'impugnante rispetto a quella esistente; pertanto può ritenersi la sussistenza di un interesse concreto ad ottenere l'esatta applicazione della legge solo quando da tale violazione sia derivata una lesione dei diritti che si intendono tutelare, e nel nuovo giudizio possa ipoteticamente raggiungersi un risultato non solo teoricamente corretto, ma anche praticamente favorevole. 

Non esiste, dunque, hanno osservato i giudici di legittimità, un interesse in senso assoluto delle parti alla correttezza tecnico-giuridica delle decisioni che li riguardano, dovendo l'interesse ad impugnare tradursi nella concreta possibilità di conseguire - dalla riforma o dall'annullamento del provvedimento censurato - un plausibile vantaggio.
Per tali motivazioni, la Corte ha pertanto dichiarato inammissibile il ricorso proposto dall'imputato.