La Sesta Sezione Penale della Suprema Corte, con la Sentenza n. 26216, pronunciata all'udienza del 14 marzo 2023 (deposito motivazioni in data 16 giugno 2023) ha preso in esame il tema concernente la prova della finalità di spaccio in relazione alla condotta di detenzione di sostanza stupefacente.
Il fatto.
Un imputato proponeva ricorso avverso la Sentenza con cui la Corte di appello di Palermo ne aveva confermato la penale responsabilità per il reato di cui all'art. 73, comma 5 D.P.R. n. 309 del 1990. La condotta ad egli contestata consisteva nell'aver detenuto, ai fini di spaccio, all'interno del frigorifero della propria abitazione, un involucro di carta stagnola contenente marijuana, dalla quale erano ricavabili 45 dosi medie singole. Unitamente alla sostanza era stato, inoltre, rinvenuto un bilancino di precisione.
Tramite il proprio ricorso, l'imputato lamentava come la sussistenza del reato fosse stata ritenuta provata unicamente sulla base del valore ponderale della sostanza rinvenuta, pur in difetto di ulteriori indici sintomatici di una possibile immissione nella stessa nel mercato; per quanto concerneva il bilancino di precisione rinvenuto nella propria disponibilità, il medesimo era da considerarsi come avente una valenza neutra.
La decisione.
La Corte ha, innanzitutto, rilevato come, con riguardo alla ritenuta sussistenza del fine di spaccio, elemento costitutivo della fattispecie contestata, la Corte d'appello abbia sostenuto la desumibilità di tale destinazione della sostanza dal valore ponderale della stessa e dal rinvenimento di un bilancino di precisione. I giudici di merito, tuttavia, avevano omesso di confrontarsi con le circostanze oggetto di deduzioni difensive, con particolare riferimento al fatto che la droga non era suddivisa in dosi, e che all'interno dell'appartamento dell'imputato non era stato rinvenuto non solo materiale necessario per il confezionamento, ma neanche denaro.
Irragionevolmente erano, invece, stati considerati elementi fattuali di significato tutt'altro che univoco: le modalità di custodia erano, infatti, ben compatibili con una destinazione delle sostanze al consumo personale, e non era stata accertata l'esistenza di alcun concreto dato seriamente collegabile ad un'attività di spaccio in favore di terzi, non potendo, in tal senso, essere valorizzata la mera disponibilità di un bilancino di precisione.
Sotto il profilo giurisprudenziale, la Corte di Cassazione ha ritenuto di ribadire, sul punto, il principio di diritto secondo il quale, ai fini della configurabilità del reato di illecita detenzione di cui all'art. 73 D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, la destinazione all'uso personale della sostanza stupefacente non ha natura giuridica di causa di non punibilità e non è onere dell'imputato darne la prova, gravando invece sulla pubblica accusa l'onere di dimostrare la destinazione allo spaccio (Sez. 6, n. 26738 del 18/09/2020, Canduci, fattispecie in cui era stata annullata senza rinvio la sentenza di condanna che aveva ritenuto non dimostrata la detenzione per l'uso personale, nonostante l'imputato fosse tossicodipendente, fosse stata rinvenuta una quantità minima di sostanze stupefacenti e non vi fossero specifici elementi dai quali desumere la destinazione delle stesse alla cessione a terzi).
Nel caso di specie - hanno osservato i giudici di legittimità - non è stata in alcun modo provata la finalità di spaccio; di contro, la condotta dell'imputato è stata ritenuta compatibile con l'acquisto ad uso personale della sostanza stupefacente, anche per fini di scorta. Per quanto concerne il dato ponderale della sostanza, ad esso era, invece, da attribuire un valore esclusivamente indiziario. Ciò posto, il Collegio ha ritenuto come l'impostazione argomentativa fatta propria dai giudici di merito sia incorsa in un erroneo impiego di massime di esperienza, con conseguente mancanza assoluta di prova circa l'esistenza di un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice contestata. Sulla base di tali motivazioni, la Corte ha pertanto annullato senza rinvio la sentenza impugnata, stante la mancanza di alcuna possibilità di ulteriore sviluppo motivazionale, con conseguente superfluità dello svolgimento di un giudizio di rinvio.