La Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 34911, pronunciata all'udienza del 12 maggio 2023 (deposito motivazioni in data 14 agosto 2023), ha preso in esame il tema concernente l'elemento soggettivo del delitto di appropriazione indebita di un veicolo concesso in leasing.
Il fatto.
Un imputato proponeva ricorso avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello di Milano ne aveva confermato la responsabilità in ordine al delitto di appropriazione indebita di un veicolo ad egli concesso in leasing, a seguito e per effetto della risoluzione del contratto per l'omesso pagamento dei canoni e della comunicazione, da parte della società che si era resa cessionaria dei diritti contrattuali della concedente, della richiesta di restituzione del veicolo.
Tramite il proprio ricorso, la difesa dell'imputato lamentava la violazione degli artt. 43 e 646 c.p., in relazione alla ritenuta sussistenza dell'elemento soggettivo del delitto di appropriazione indebita. Secondo la Corte territoriale, l'invio della raccomandata contenente l'intimazione a restituire il veicolo concesso in leasing all'imputato (per essersi risolto il contratto per inadempimento nel pagamento dei canoni), la cui notificazione era avvenuta "per compiuta giacenza" e a cui non aveva fatto seguito la restituzione del veicolo, costituiva prova del dolo dell'imputato, il quale non aveva fornito giustificazione circa le ragioni del mancato ritiro della lettera raccomandata; ciò costituiva, pertanto, una palese forma di inversione dell'onere probatorio dei fatti costitutivi della responsabilità dell'imputato.
La decisione.
La Suprema Corte ha rilevato come sia pacifico, nella giurisprudenza di legittimità, che, in relazione allo schema negoziale del contratto di leasing, la condotta di appropriazione indebita si realizza non già per il solo dato del mancato pagamento dei canoni e dell'eventuale previsione pattizia della risoluzione del contratto, essendo, altresì, necessario che il debitore venga a conoscenza della volontà del concedente di rientrare nel possesso del bene, intimandone la restituzione, e che manifesti l'avvenuta interversione del possesso, comportandosi uti dominus, non restituendo il bene senza giustificazione (Sez. 2, n. 25288 del 31/05/2016, Trovato; Sez. 2, n. 25282 del 31/05/2016, Nunzella).
Elemento decisivo è dunque costituito dalla conoscenza della volontà del creditore, la quale, ove sia affidata alla comunicazione attraverso il mezzo dell'invio di intimazioni mediante il servizio postale, può dirsi realizzata esclusivamente solo ove sia data la prova - gravante sulla parte pubblica - della materiale ricezione del plico in cui sia contenuta la richiesta di restituzione.
Da ciò deriva, pertanto, come l'omessa consegna del plico postale, pur se conseguenza del mancato ritiro della corrispondenza giacente presso l'ufficio postale da parte del destinatario, non può integrare la prova richiesta, a causa - hanno rilevato i giudici di legittimità - di un duplice ordine di ragioni.
In primis, se il debitore non consegue la materiale disponibilità del plico non può, evidentemente, venire a conoscenza del suo contenuto e, quindi, dell'intimazione rivolta dal creditore alla consegna del bene. Peraltro, si è osservato in relazione al caso di specie, nell'ipotesi in cui colui che invia la richiesta sia soggetto diverso dall'originario concedente il bene concesso in leasing (nella fattispecie, la società concedente il bene aveva ceduto il credito nei confronti dell'imputato, oltre che tutte le ragioni derivanti dal contratto di leasing, ad una società terza e non risultava dal testo delle decisioni l'avvenuta notifica all'utilizzatore della cessione del contratto), il dato del tentativo di consegna di un plico postale inviato da una società che non corrisponde a quella con cui era stato originariamente stipulato il contratto di leasing non consente di trarre alcuna inferenza logica in ordine alla consapevolezza del destinatario dell'attinenza di quell'invio al rapporto contrattuale e, in particolare, all'intimazione a restituire il veicolo oggetto del contratto.
In secondo luogo, ha evidenziato il Collegio come non possano trovare applicazione, in tale contesto, le presunzioni derivanti dal sistema delle notificazioni mediante il servizio postale, previsto ai fini del perfezionamento del procedimento di consegna di atti giudiziari. Tale sistema, infatti, prevede, innanzitutto, una serie di garanzie, costituite dalla reiterazione delle comunicazioni dirette al destinatario, con espressa menzione delle indicazioni sull'identità del richiedente la notificazione (ai sensi dell'art. 8, comma 4 L. n. 890 del 1982), al fine di assicurare l'effettiva conoscenza "dell'avvenuto deposito dell'atto, ritenendosi evidentemente insufficiente l'affissione del relativo avviso alla porta d'ingresso o la sua immissione nella cassetta della corrispondenza dell'abitazione, dell'azienda o dell'ufficio ed individuandosi nella successiva comunicazione a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento lo strumento idoneo a realizzare compiutamente lo scopo perseguito" (Corte Cost. n. 346 del 23/9/1998). Il medesimo sistema non è, tuttavia, previsto per l'invio delle raccomandate ordinarie, per le quali, qualora non avvenga la consegna al destinatario, è previsto unicamente il rilascio dell'avviso "che indica l'ufficio postale o il centro di distribuzione presso il quale resta in giacenza tutta la corrispondenza che non è possibile recapitare a domicilio".
Ciò posto, ha affermato la Corte, non può dunque operare, nella fattispecie in esame, la presunzione di conoscenza stabilita dall'art. 1335 c.c., ove si prevede che: "La proposta, l'accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all'indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell'impossibilità di averne notizia".
In tal caso, difetta infatti il requisito dell'arrivo dell'atto all'indirizzo del destinatario: ne consegue che la prova del necessario presupposto dell'elemento soggettivo del reato (oltre che della stessa condotta di interversione del possesso) manca, e tale carenza non può essere certo superata tramite un'inversione, come noto non consentita in sede penale, dell'onere probatorio, spostato a carico del destinatario, in riferimento all'indicazione dei motivi del mancato ritiro del plico.
Sulla base di tali motivazioni, la Corte di Cassazione ha pertanto annullato senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste.