La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 50471, pronunciata all'udienza dell'8 novembre 2023 (deposito motivazioni in data 18 dicembre 2023) ha preso in esame la questione relativa alla prevalenza della confisca del patrimonio immobiliare della società, dichiarata fallita, sulla salvaguardia dei diritti di credito fatti valere dalla curatela del fallimento.
Il fatto.
Un curatore fallimentare di una società proponeva ricorso avverso l'ordinanza con cui il Tribunale di Firenze, in funzione di giudice dell'esecuzione, aveva rigettato l'opposizione proposta nei confronti del provvedimento adottato dal medesimo giudice, con cui era stata respinta l'istanza di revoca della confisca degli immobili - disposta ai sensi dell'art. 12 bis D.Lgs. n. 74 del 2000 - già di proprietà della fallita, e di restituzione degli stessi all'avente diritto.
Nella fattispecie, all'esito di una complessa vicenda processuale, era stata data esecuzione ad un sequestro preventivo, finalizzato alla confisca di due somme di denaro a carico di due diverse società, disposto in via diretta e, in caso di incapienza, anche per equivalente, dal tribunale del Riesame di Firenze. Successivamente, l'oggetto del sequestro era stato sostituito: in un primo momento, esso aveva, infatti, interessato le risorse liquide dei conti correnti delle società, ed in seguito, su istanza dell'amministratore, gli immobili di proprietà di una di esse.
Infine, il medesimo amministratore era stato condannato per il delitto di omesso versamento dell'Iva, con confisca dei beni già sottoposti a sequestro; successivamente alla sentenza di primo grado, la società era fallita.
Il Tribunale aveva rigettato i motivi dell'opposizione avanzati dalla difesa della curatela fallimentare, osservando, in primis, come non fosse accoglibile l'eccezione di difetto di legittimazione dell'amministratore al tempo della richiesta, accolta dal giudice per le indagini preliminari, di sostituzione del denaro con gli immobili di proprietà della società, avendo egli agito nomine proprio, dal momento che gli scopi dell'istanza riguardavano la società amministrata dal medesimo, le cui disponibilità erano state sottoposte al sequestro preventivo in via diretta per effetto del reato tributario a lui ascritto in tale veste.
Il giudice dell'esecuzione aveva, inoltre, ritenuto non fondata la questione relativa al "conflitto d'interessi" esistente sul presupposto che l'amministratore, in tale occasione, ed offrendo gli immobili societari in sostituzione delle liquidità, si sarebbe adoperato in primo luogo per "schermare" i propri beni personali, aggrediti dal sequestro in forma equivalente; ciò in quanto si trattava di istituto prettamente civilistico, posto a tutela dei soci, in concreto a conoscenza dell'attività svolta dall'amministratore.
Infine, il Tribunale aveva ritenuto non condivisibile l'argomento più specificamente attinente alla "legittimità" del provvedimento a suo tempo adottato dal g.i.p., funzionale al mutamento dell'oggetto del sequestro: esso non influiva, infatti sulla natura del sequestro, comunque diretto, atteso che all'epoca la società era "in bonis" e la scelta di consentirne il funzionamento, anche in vista del pagamento dei debiti erariali, con la restituzione delle risorse in denaro - rimpiazzate da una serie di beni immobili di più elevato valore di mercato - appariva legittima e ragionevole.
Tramite i propri motivi di ricorso, il curatore contestava, in primo luogo, l'affermazione secondo la quale la società in questione fosse una "società schermo" del suo amministratore, tale da consentire di identificare l'una nell'altro; l'amministratore, infatti, aveva presentato l'istanza personalmente, non in qualità di amministratore, e senza alcuna previa autorizzazione del Consiglio di Amministrazione. Il ricorrente ribadiva, inoltre, come questi avesse agito in conflitto d'interessi - rilevante anche in ambito penale - perché attraverso quell'iniziativa egli aveva ottenuto di liberare anche i beni personali dall'esecuzione del sequestro preventivo. Infine, egli si lamentava dell'avvenuta "sostituzione" del denaro sequestrato con le immobilizzazioni, in presenza di un principio generale - applicabile al caso di specie - sancito dall'art. 517 c.p.c., in tema di pignoramento, a riguardo della necessità di vincolare in principalità le somme di denaro - di immediato utilizzo rispetto agli immobili, da sottoporre a vendita forzata - sostenuto da un indirizzo giurisprudenziale che impropriamente il giudice del provvedimento impugnato aveva confinato ai provvedimenti genetici di emissione della misura reale.
La decisione: la Sentenza delle Sezioni Unite n. 40797/2023.
La Suprema Corte ha, in primis, rilevato come l'art. 12 bis D.Lgs. n. 74/2000 stabilisca che "nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'art. 444 c.p.p. per uno dei delitti previsti dal presente decreto è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto".
Sul punto, hanno osservato i giudici di legittimità, si sono recentissimamente pronunciate le Sezioni Unite della Suprema Corte, esprimendo il principio di diritto secondo il quale "l'avvio della procedura fallimentare non osta all'adozione o alla permanenza, se già disposto, del provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca relativa ai reati tributari" (Sez. Un. 22/6/2023 - 6/10/2023).
Nell'occasione, il massimo consesso nomofilattico ha, tra l'altro, osservato che: "la predetta legittimazione (della curatela del fallimento all'impugnativa delle misure cautelari reali) non vale cioè ad alterare l'assetto dei rapporti tra procedura fallimentare e sequestro penale, dovendosi ribadire che la misura ablatoria reale, in virtù del suo carattere obbligatorio, da riconoscere sia alla confisca diretta che a quella per equivalente, è destinata a prevalere su eventuali diritti di credito gravanti sul medesimo bene, a prescindere dal momento in cui intervenga la dichiarazione di fallimento, non potendosi attribuire alla procedura concorsuale che intervenga prima del sequestro effetti preclusivi rispetto all'operatività della cautela reale disposta nel rispetto dei requisiti di legge, e ciò a maggior ragione nell'ottica della finalità evidentemente sanzionatoria perseguita dalla confisca espressamente prevista in tema di reati tributari, quale strumento volto a ristabilire l'equilibrio economico alterato dal reato. Se è così, dunque, è lo stesso dettato letterale del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12-bis a dettare il criterio risolutivo: nel caso di confisca diretta o per equivalente il sequestro opera "sempre" (e dunque anche in caso di apertura delle procedure concorsuali, anteriore o successiva che sia al sequestro), sicché, in particolare, le criticità segnalate dall'orientamento opposto relativamente alla invocata irragionevolezza del sacrificio delle posizioni dei creditori non erariali restano recessive dinanzi al chiaro dettato normativo, non per questo, peraltro, suscettibile di attriti con principi costituzionali. Proprio la natura del profitto in generale dei reati tributari - e, quindi, l'interesse dell'Erario al recupero di quanto evaso - dà luogo ad un interesse sanzionato penalmente con riflessi obbligatori sulla confisca, che giustifica dunque anche il sacrificio dei creditori "privati". E questa perenne applicabilità della confisca, fatta salva la deroga del "terzo estraneo" di cui al richiamato art. 12-bis, trova corrispondenza nell'argomento della necessità di evitare, sempre fatta salva tale deroga, la circolazione di beni provenienti da evasione.
Le Sezioni Unite hanno, inoltre, affermato che: "Il curatore fallimentare, conclusivamente, non può disporre dei beni costituenti l'attivo della massa fallimentare per la semplice ragione che detti beni (rectius, il loro valore), costituendo il profitto del reato, vanno sottratti alla liquidazione giudiziale ed all'amministratore pro-tempore del patrimonio della società dichiarata fallita, ossia al curatore, per evitare anche la paradossale conseguenza di rendere disponibile (e commerciabile mediante la vendita fallimentare) un bene costituente profitto di un illecito penale, sottraendolo alla conseguenza sanzionatoria obbligatoriamente prevista dalla legge, ossia la definitiva confisca, purché ovviamente ne sussistessero ab origine le condizioni legittimanti; e alla sola verifica di tali condizioni è preordinata la legittimazione ad impugnare del curatore, non precludendo quindi la stessa la sequestrabilità, non importa se antecedente o successiva alla procedura di apertura della liquidazione giudiziale, dei beni. Ai fini della confisca, non assume, dunque, rilevanza il criterio dell'effettiva disponibilità dei beni, ma quello, più ampio, della non estraneità al reato tributario del fallito, che conserva la titolarità dei beni attratti alla massa fallimentare sino alla conclusione della procedura.
A conferma di quanto sopra, del resto, milita anche la stessa disciplina normativa di cui al combinato disposto della L.Fall., art. 42, u.c. e L.Fall., art. 104-ter, comma 8, (rispettivamente trasfusi nell'art. 142 e nell'art. 213, comma 2, c.c.i.) a proposito dell'istituto della c.d. derelictio. Ed invero, proprio il fatto che, nel caso di abbandono del bene per antieconomicità della sua conservazione al fallimento, lo stesso torni automaticamente nella piena disponibilità del fallito - tant'è che l'art. 104 impone al curatore l'onere di avvisare di ciò i creditori evidentemente affinchè gli stessi intraprendano, se lo ritengano, in deroga all'art. 51 (oggi, art. 150, c.c.i.), azioni individuali verso il fallito con riguardo a detto bene - dimostra che, con l'apertura del fallimento, non muta la titolarità del bene, che resta sempre "del fallito", laddove il curatore ne è il mero "detentore", come del resto anche la stessa giurisprudenza amministrativa, in sede di adunanza plenaria, ha riconosciuto (Cons. Stato, n. 3 del 26/01/2021, che, con riferimento all'obbligo di rimozione dei rifiuti, incombente al curatore, ha evidenziato che ciò che rileva è la "la sussistenza di un rapporto gestorio, inteso come "amministrazione del patrimonio altrui", ciò che certamente caratterizza l'attività del curatore fallimentare con riferimento ai beni oggetto della procedura").
Ne consegue, per quanto particolarmente rilevante con riguardo alla questione oggetto di esame, che alla curatela fallimentare, che ha un compito esclusivamente gestionale e mirato al soddisfacimento dei creditori, non si attaglia il concetto di appartenenza, preclusiva della confiscabilità D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 12-bis, (v., Sez. 3, n. 30605 del 24/05/2022, Fallimento M.G. Group Srl , 18 non mass. sul punto; Sez. 5, n. 1926 del 30/03/2000, Vasaturo, Rv. 216540 - 01) anche nella più ampia accezione, riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 9 del 18/05/1994, Comit Leasing Spa in proc. Longarini, Rv. 199174 - 01; Sez. 1, n. 3117 del 08/07/1991, Mendella, Rv. 187903 - 01) come non circoscritta al diritto di proprietà e, invece, estesa ai diritti reali di godimento e di garanzia. Conclusivamente, l'obbligatorietà della confisca del profitto dei reati tributari comporta la prevalenza del vincolo penalistico rispetto ai diritti incidenti, per effetto della pendenza di una procedura concorsuale, sul patrimonio del soggetto sottoposto alla cautela reale, proprio perchè i beni restano nella titolarità del fallito e non "passano" al curatore, essendo quindi necessario sottrarli al primo, non potendosi applicare la deroga del "terzo estraneo" di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12-bis. La finalità del legislatore di ristabilire l'equilibrio economico alterato dal reato non è, pertanto, vanificabile in alcun modo; va aggiunto che, ove si ragionasse diversamente, si verrebbe ad annettere alla procedura concorsuale un effetto di "improcedibilità" e, nel caso di confisca per equivalente, di "estinzione" della sanzione del tutto extravagante rispetto agli specifici casi contemplati dal sistema codicistico...".
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Richiamate tali affermazioni delle Sezioni Unite, i giudici della Quinta Sezione, hanno quindi osservato come si registri un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui: "in tema di sequestro preventivo, il terzo che affermi di avere diritto alla restituzione del bene oggetto di sequestro, può dedurre, in sede di merito e di legittimità, unicamente la propria effettiva titolarità o disponibilità del bene e l'inesistenza di un proprio contributo al reato attribuito all'indagato, senza potere contestare l'esistenza dei presupposti della misura cautelare (Sez. 3, n. 36347 del 11/07/2019, Pica;, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente ex art. 12-bis D.Lgs. 74/2000; sez.3, n. 13706 del 01/02/2022, dep. il 11/4/2022, Cesare).
Tale opzione interpretativa, in quanto espressiva di un principio generale, è stata, inoltre, ritenuta naturalmente estensibile alla tematica sottesa alla posizione del terzo che formalizzi opposizione alla confisca per far valere un diritto di credito o un diritto reale sulla cosa confiscata e la sua estraneità all'addebito penale, ma non può rimettere in discussione i presupposti applicativi che hanno giustificato la misura ablatoria, ostandovi il principio di intangibilità del giudicato (in motivazione, Cass. sez. 3, 25/03/2013, n. 25883, Pasqui e altri; Cass. sez. 1, 11/11/2011, n. 47312, Lazzoi).
Ciò posto, con riguardo al caso in esame, i giudici di legittimità hanno rilevato come il curatore fallimentare si sia doluto di pretese lacune di legittimazione dell'allora indagato amministratore nella formulazione di un'istanza di sostituzione dell'oggetto del sequestro preventivo, già disposto nella più ampia forma c.d. "mista", finalizzato alla confisca e di una assunta illegittimità del mutamento della res, traslata da una previsione di "confisca diretta" sulle risorse in denaro a quella di una confisca (di valore) "equivalente" sui beni immobili comunque di proprietà della società titolare dell'obbligazione tributaria; beni che, peraltro, possedevano un valore di mercato superiore all'entità della somma originariamente sequestrata e del debito erariale). Ciascuno di tali profili, tuttavia, in quanto attinenti alla legittimità del vincolo, non possono essere contestati dal terzo estraneo.
A fronte di tale contesto ermeneutico, la Corte - avendo i motivi di ricorso, quale oggetto, aspetti estranei all'unico, circoscrivibile, thema decidendum - ha dunque concluso come l'intervenuta ed irrevocabile decisione che ha ordinato la confisca del patrimonio immobiliare della società - dichiarata fallita nelle more tra il primo ed il secondo grado del giudizio di merito - prevalga in ogni caso sulla salvaguardia dei diritti di credito fatti valere dalla curatela del fallimento, a prescindere dalla natura diretta o indiretta della misura di sicurezza, che ha per oggetto "beni nella disponibilità del reo", destinati alla "restitutio in integrum" a favore dell'Erario, in misura per quanto possibile corrispondente al profitto derivato dalla commissione del reato.
Sulla base di tali motivazioni, la Suprema Corte ha pertanto rigettato il ricorso proposto dal curatore fallimentare.