La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 19100, pronunciata all'udienza del 21 febbraio 2024 (deposito motivazioni in data 14 maggio 2024), ha preso in esame la questione concernente la nozione di "convivenza", ai fini dell'integrazione del delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi, e la possibile rilevanza dello stato di coabitazione.
Il fatto.
Un imputato proponeva ricorso avverso la sentenza con cui la Corte di appello di Napoli ne aveva confermato la penale responsabilità per il reato di cui all'art. 572 c.p. Si contestava al medesimo di avere maltrattato la propria convivente, dal 2014 fino al mese di agosto del 2016, percuotendola reiteratamente, anche quando la donna si trovava in stato di gravidanza, nonché in presenza della figlia minore.
Tramite i propri motivi di ricorso, l'imputato lamentava una violazione di legge, in relazione all'art. 572 c.p., rilevando come la relazione tra se medesimo e la persona offesa fosse priva del rapporto di stabile affidamento e solidarietà costituente il presupposto della fattispecie incriminatrice de qua. Tale relazione era, infatti, nata, come ammesso dalla stessa persona offesa, quale rapporto clandestino, essendo i due sentimentalmente legati ad altre persone. La successiva decisione della donna di separarsi dal marito non aveva mutato la relazione con l'imputato, il quale aveva mantenuto la propria relazione sentimentale ufficiale; i due avevano, pertanto, continuato ad incontrarsi occasionalmente in un appartamento che avevano affittato a tal fine. L'episodio più significativo verificatosi nel corso della relazione, la gravidanza della persona offesa, poteva definirsi come un evento occasionale ed imprevisto, tanto da diventare motivo di litigi e discussioni: dal canto proprio, l'imputato aveva dichiarato di essersi opposto all'interruzione volontaria della gravidanza, essendo contrario alla pratica dell'aborto. In definitiva, comunque, nell'appartamento preso in affitto non si era mai concretizzata una convivenza, ed era comunque sempre mancata la comune volontà delle parti di costituire un legame stabile e duraturo.
Infine, si osservava, l'avvenuto concepimento ai un figlio in comune non costituiva in alcun modo un sicuro indice della volontà delle parti - e, in particolare, dell'imputato - di costruire un rapporto stabile e duraturo.
La decisione.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, osservando, in primis, come i giudici partenopei, nel ritenere sussistente la fattispecie contestata, abbiano fatto propria un'impostazione esegetica propria di un indirizzo giurisprudenziale ormai minoritario e superato (da ultimo, Sez. 6, n. 22915 del 7/05/2013, L.).
I giudici di legittimità hanno, invece, ritenuto di aderire ad altro e contrario orientamento, secondo il quale, in tema di rapporti fra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici impone di intendere i concetti di "famiglia" e di "convivenza" di cui all'art. 572 c.p. nell'accezione più ristretta, ossia quale comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale, e da una duratura comunanza di affetti implicante reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché non necessariamente continuativa. Ne consegue, pertanto, come sia configurabile, secondo tale maggioritario orientamento, l'ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all'art. 612-bis comma 2 c.p., e non il reato di maltrattamenti in famiglia, quando le reiterate condotte moleste e vessatorie siano perpetrate dall'imputato dopo la cessazione della convivenza more uxorio con la persona offesa (ex multis, Sez. 6, n. 31390 del 30/03/2023, P.,; Sez. 6, n. 38336 del 28/09/2022, D.; Sez. 6, n. 15883 del 16/03/2022, D.)
Sul punto, il Collegio ha infatti affermato come sia "indispensabile rispettare la lettera della norma incriminatrice di diritto sostanziale in argomento, e non modificarne la portata operativa in termini tali da formulare opzioni applicative fondate su soluzioni che rispondono ad una logica di interpretazione analogica in malam partem, non consentita in materia penale".
A tal riguardo, si è ritenuta particolarmente significativa la sentenza della Corte Costituzionale n. 98/2021, in cui i giudici delle leggi, nell'esaminare una specifica questione processuale avente ad oggetto l'art. 521 c.p.p., hanno posto in evidenza il rischio che l'esercizio del relativo potere da parte del giudice possa determinare una violazione del principio di tassatività sancito dall'art. 25 Cost., che impone che "in materia penale il possibile significato letterale della legge fissa il limite estremo della sua legittima interpretazione". Nella fattispecie, peraltro, la Consulta aveva preso in esame proprio il rapporto tra le due norme incriminatrici previste dagli artt. 572 e 612-bis c.p., sottolineando come:
"il divieto di analogia in malam partem imponga di chiarire se il rapporto affettivo dipanatosi nell'arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro possa già considerarsi, alla stregua dell'ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di "convivenza" ...(e se)... davvero possa sostenersi che la sussistenza di una (tale) relazione consenta di qualificare quest'ultima come persona appartenente alla medesima "famiglia" dell'imputato. In difetto di una tale dimostrazione, l'applicazione dell'art. 572 cod. pen. in casi siffatti - in luogo dell'art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l'ipotesi di condotte commesse a danno di persona "legata da relazione affettiva" all'agente - apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice" (Corte cost., sent. n. 98 del 2021).
La Corte di Cassazione, in adesione al principio espresso dalla Consulta, ha dunque affermato come, sulla base di un'esegesi rispettosa del principio costituzionale di legalità, ai fini della applicazione della norma incriminatrice dell'art. 572 c.p., lo stato di "convivenza" ricorra solamente "laddove risulti acclarata l'esistenza di una relazione affettiva qualificata dalla continuità e connotata da elementi oggettivi di stabilità". Il concetto di "convivenza", inoltre, non può essere confuso con la mera coabitazione, ma "deve essere espressione di una stabile relazione personale caratterizzata da una reale condivisione e comunanza materiale e spirituale di vita".
Nel caso di specie, gli Ermellini hanno dunque giudicato viziata la sentenza impugnata, avendo essa sostenuto che il delitto di cui all'art. 572 c.p. fosse configurabile anche per le condotte tenute dall'imputato in danno della persona offesa, sebbene con la medesima l'uomo avesse instaurato una mera relazione clandestina e non avesse mai condiviso l'abitazione. La Corte di appello, in particolare, non aveva indicato sulla base di quali elementi avesse desunto la comune volontà delle parti di costituire un legame stabile e duraturo.
Sulla base di tali motivazioni, la Corte di Cassazione ha pertanto annullato con rinvio la sentenza impugnata.