mercoledì 8 maggio 2024

Responsabilità medica: natura e finalità delle linee guida e considerazione delle medesime ai fini della valutazione della condotta del sanitario nel singolo caso concreto.

 La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 17678, pronunciata all'udienza del 14 marzo 2024 (deposito motivazioni in data 6 maggio 2024), ha preso in esame il tema concernente la natura e finalità delle "linee guida" e la considerazione delle medesime quale parametro di legittimità e di valutazione della condotta dell'esercente la professione sanitaria.

Il fatto.

Un medico, specialista endoscopista in servizio presso una struttura ospedaliera, proponeva ricorso avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello di Venezia ne aveva confermato la penale responsabilità in ordine al reato di cui all'art. 589 c.p..

Nella fattispecie, la persona offesa, di anni 86, aveva fatto accesso presso il pronto soccorso di una struttura ospedaliera, lamentando disorientamento, sonnolenza, proctorragia, anemia e sospetto pneumotorace in quadro broncopneumonico; ivi ricoverato, il paziente era stato sottoposto ad indagine gastroscopica e colonscopica, in regime di sedazione, da parte dell'imputato, il quale aveva agito senza assistenza anestesiologica. La procedura era stata eseguita iniziando con la gastroscopia, ed era terminata dopo trentacinque minuti: la colonscopia era stata interrotta per "scadente toilette intestinale" e per le "strette angolazioni del viscere", tali da rendere pericolosa la relativa procedura.

Al termine dell'esame, il paziente era stato ricondotto in reparto, dove si era manifestato un quadro clinico tale da imporre la chiamata di un anestesista; la situazione clinica, rimasta inizialmente stazionaria, era successivamente precipitata, stante l'intervento di una tachiaritmia trattata con infusione endovenosa di apposito farmaco. L'ulteriore peggioramento delle condizioni del paziente aveva causato, ai danni del medesimo, uno stato "comatoso, non risvegliabile", ed era stata quindi effettuata una emogasanalisi, da cui era emersa una grave acidosi respiratoria e ipossemia; l'uomo era stato, in seguito, trasferito presso l'unità di anestesia e rianimazione, ove era infine deceduto.

Era stato quindi contestato all'imputato, nella propria qualità di medico specialista endoscopista, di aver effettuato una sedazione mediante somministrazione combinata dei farmaci Meperidina e Midazolam in autonomia e senza ricorrere, ai fini dell'affidamento della gestione della sedazione, all'ausilio di uno specialista in anestesia e rianimazione, il quale avrebbe potuto evitare il verificarsi di eventi avversi dovuti al sovradosaggio farmacologico, o comunque garantire una loro immediata gestione. 

I giudici di merito avevano ritenuto fondato tale addebito; il Tribunale - sulla base della perizia disposta - aveva rilevato che le condizioni cliniche del paziente rendevano non solo opportuna, ma doverosa, la presenza di un anestesista, ai fini di un competente monitoraggio, durante e dopo la procedura; ciò alla luce delle linee guida applicabili nel caso di specie, ed in conseguenza dell'inquadrabilità del paziente nella categoria di rischio anestesiologico ASA 3, con conseguente raccomandazione della presenza di un anestesista in riferimento alla procedura di sedazione.

I giudici d'appello, dal canto proprio, avevano ritenuto che il richiamo al protocollo aziendale vigente nella struttura, quale elemento derogatore rispetto alle linee guida, non potesse determinare l'esclusione di responsabilità del medico: tale protocollo era stato, infatti, ritenuto dai periti come non corrispondente al gold standard applicabile a tali procedure.

Tramite i propri motivi di ricorso, il medico lamentava la sussistenza di vizi della motivazione in relazione alle linee guida, con erronea applicazione dell'art. 590 sexies c.p., in riferimento alla scelta di una delle varie linee guida sull'endoscopia e colonscopia. Egli deduceva, in particolare, con riguardo alla specifica condizione del paziente e alla sua classificazione nell'ambito dell'ASA 3, la sussistenza di diverse linee guida applicabili al caso concreto: in particolare, le linee guida ASGE consentivano, in relazione alla qualificazione dello stato di salute del paziente, l'esecuzione dell'esame endoscopico senza l'assistenza di un anestesista. Erroneamente, si era, inoltre, ritenuta la prevalenza delle linee guida sui protocolli aziendali; essi erano, infatti, documenti di carattere più rigido rispetto alle linee guida, con conseguente, asserita, contraddittorietà dell'affermazione di responsabilità, pur a fronte dell'attinenza a tali direttive, oltre tutto da ritenere conformi rispetto alle richiamate linee guida ASGE.

L'imputato contestava, infine, la sussistenza del nesso di causa, in relazione al giudizio controfattuale: le sentenze di merito non avevano, infatti, specificato in cosa sarebbe consistito il monitoraggio salvifico astrattamente derivante dall'assistenza di un anestesista durante la procedura, anche alla luce della scarsa professionalità tenuta in concreto dagli anestesisti successivamente intervenuti. Inoltre, si rilevava la violazione dell'art. 41 comma 2, c.p., atteso che le omissioni ascrivibili agli anestesisti intervenuti dopo la procedura dovevano intendersi tali da interrompere il nesso causale con la condotta dell'imputato.

La decisione.

La Suprema Corte, con riguardo alla natura ed alla finalità delle linee guida emesse in ambito sanitario, ha, in primisrichiamato la motivazione resa dalla stessa Quarta Sezione Penale con la Sentenza n. 7849 del 3 febbraio 2022. Tale pronuncia aveva osservato come, sotto il profilo penale, per l'indicazione della condotta doverosa in ambito sanitario (ossia del comportamento ideale che l'esercente la professione sanitaria dovrebbe tenere in relazione a ciascuna singola attività), si ponga la necessità di ricercare leges artis contenenti le raccomandazioni operative, per i sanitari, in relazione alle diverse tipologie di attività a loro affidate, e di cui dev'essere anche valutata la pertinenza in relazione al singolo caso concreto.

Lo strumento per definire in modo (per quanto possibile) omogeneo i criteri comportamentali dei sanitari nelle diverse situazioni - hanno osservato i giudici di legittimità - è costituito da previsioni a carattere generale (ancorché talora molto articolate e minuziose) elaborate a livello scientifico e/o operativo, variamente definite e caratterizzate; ossia, a seconda dei casi, dalle linee guida, dai protocolli e dalle best practices.

Nell'esperienza italiana, fatta eccezione per la non infrequente ipotesi di indicazioni operative particolarmente dettagliate, le linee guida sono qualificate come raccomandazioni di ordine generale, rispetto alle quali, tuttavia, resta salva la libertà di scelta professionale (e la responsabilità) del sanitario nel rapportarsi al caso concreto, nelle sue molteplici varianti e peculiarità, e nel rispetto della c.d. relazione terapeutica tra medico e paziente.

La Corte ha quindi rilevato come l'approccio al problema non possa non tenere conto della portata multilivello delle prassi sanitarie potenzialmente incidenti sui risultati dell'attività diagnostico-terapeutica: sono, pertanto, interessate non solo le attività proprie del medico generico o specialista, così come quelle del chirurgo o quelle prettamente infermieristiche, ma anche i profili organizzativi, ed economici, delle strutture sanitarie, nei loro diversi gradi di complessità. Inoltre, si è osservato, non tutti i pazienti sono uguali, né è necessariamente uguale la loro risposta alla medesima terapia, anche se identica è la patologia che li affligge; ciò, a talune condizioni, comporta, pertanto, un adattamento delle predette regole al caso concreto ed alle variabili che, nell'ambito di esso, entrano in gioco, e suggeriscono di attenersi in misura maggiore o minore a "protocolli" e linee guida", o addirittura impongono, in certi casi, di discostarsene

Da tali premesse deriva, quindi, la natura delle linee guida come regole di massima flessibili ed adattabili alle specificità del caso concreto. Pertanto, ha rilevato la Corte, l'approccio giurisprudenziale tradizionale si è sempre mostrato tendenzialmente cauto, nel senso di non considerare le linee-guida come idonee ad esaurire le regole di condotta sanitaria in rapporto a ogni singolo caso concreto. In altri termini, nel praticare la professione sanitaria, "il medico deve, con scienza e coscienza, perseguire un unico fine: la cura del malato utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui al tempo dispone la scienza medica, senza farsi condizionare da esigenze di diversa natura, da disposizioni, considerazioni, valutazioni, direttive che non siano pertinenti rispetto ai compiti affidatigli dalla legge ed alle conseguenti relative responsabilità".

Il rispetto delle "linee guida" non può, pertanto, essere univocamente assunto quale parametro di riferimento della legittimità e di valutazione della condotta del medico; e quindi "nulla può aggiungere o togliere al diritto del malato di ottenere le prestazioni mediche più appropriate né all'autonomia ed alla responsabilità del medico nella cura del paziente". Di conseguenza, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che: "Non può dirsi esclusa la responsabilità colposa del medico in riguardo all'evento lesivo occorso al paziente per il solo fatto che abbia rispettato le linee guida, comunque elaborate, avendo il dovere di curare utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui al tempo la scienza medica dispone" (Sez. 4, n. 8254 del 23/11/2010 - dep. 2011, Grassini).

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Gli interventi legislativi succedutisi negli anni, ha osservato la Corte, hanno, in qualche misura, cercato di recepire le istanze del personale sanitario, tese a modulare e circoscrivere i termini della responsabilità professionale (anche attraverso il contrasto al fenomeno della c.d. medicina difensiva).

Così, tramite la riforma apportata dalla legge 189/2012 (legge di conversione, con modifiche, del D.L. 158/2012, c.d. decreto Balduzzi), il legislatore ha introdotto una sostanziale modifica alle previsioni che, fino ad allora, avevano regolato la responsabilità penale in campo sanitario, prevedendo, fra l'altro, all'art. 3, comma 1, che "l'esercente le professioni sanitarie che, nello svolgimento della propria attività, si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, non risponde penalmente per colpa lieve".

Successivamente, la c.d. legge Gelli - Bianco, n. 24/2017, é nuovamente intervenuta a disciplinare la responsabilità dei sanitari sotto il profilo sia civile sia penale. In particolare, l'art. 5 comma 1 obbliga gli esercenti le professioni sanitarie - nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, ad attenersi, "salve specificità del caso concreto", alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 dello stesso art. 5, elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati, nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con un emanando decreto del Ministro della salute (sulla base dei criteri di cui al successivo comma 2), da aggiornare con cadenza biennale. Viene, inoltre, precisato che, in mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si dovranno attenere "alle buone pratiche clinico-assistenziali".

L'articolo 6 della legge, si è quindi rilevato, ha introdotto nel codice penale l'art. 590 sexies (recante "Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario"), ove si è previsto che: "1. Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell'esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma". "2. Qualora l'evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico - assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto".

Ciò posto, la Corte di Cassazione ha affermato come le linee guida costituiscano parametri precostituiti, ai quali il giudice deve, tendenzialmente, attenersi nel valutare l'osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza e perizia, e non veri e propri precetti cautelari vincolanti, capaci di integrare, in caso di violazione rimproverabile, ipotesi di colpa specifica, con conseguente obbligo di discostarsene nel caso in cui esse risultino inadeguate rispetto all'obiettivo della migliore cura per lo specifico caso in esame (Sez. Un., n. 8770 del 21/12/2017, dep. 2018, Mariotti; Sez. 4, n. 9447 del 30/01/2019, A.). Da ciò deriva l'ulteriore corollario per cui, in presenza di due alternative terapeutiche, il medico è tenuto a scegliere la soluzione meno pericolosa per la salute del paziente, con la conseguenza che egli è responsabile, in caso di complicazioni, e nonostante l'osservanza delle regole dell'arte, per imprudenza, ove adotti l'alternativa più rischiosa (Sez. 4, n. 12968 del 12/11/2020, dep.2021, Usai).

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Nel caso di specie, i giudici di legittimità hanno rilevato come il riferimento alla presenza di diverse linee guida - ovvero di quelle SIED e di quelle ASGE, delle quali avevano dato atto gli stessi periti - non comporti che l'adesione alle regole dettate da uno dei due protocolli sia, di per sé stessa, idonea ad escludere la responsabilità del sanitario in relazione alle specificità del caso concreto. Pertanto, i giudici di merito, con motivazione rispettosa dei suddetti principi, avevano dato atto che, in relazione alle concrete condizioni del paziente (grande anziano e presentante molteplici comorbilità), ed in presenza della sua qualificazione nella categoria ASA3 dal punto di vista del rischio anestesiologico, il sanitario avrebbe comunque dovuto attenersi al contenuto delle linee guida SIED, con conseguente raccomandazione della presenza di un medico anestesista durante tutto lo svolgimento della procedura di sedazione propedeutica rispetto all'esame specialistico.

La Corte ha, dunque, giudicato infondata l'argomentazione difensiva riguardante la conformità della procedura adottata rispetto al protocollo aziendale seguito nell'unità di endoscopia, e prevedente deroghe rispetto alla presenza di un anestesista. I giudici di merito avevano, infatti, rilevato come tale atto, avente mera efficacia interna, non potesse assumere alcuna efficacia esimente; esso, da un lato, non era invero adattabile alla cura ed alle prescrizioni imposte nel caso di specie; dall'altro, esso non era, in ogni caso, corrispondente al contenuto delle linee guida richiamabili nel caso medesimo. D'altra parte, si è rilevato come il relativo protocollo, nel raccomandare l'adozione della procedura di sedazione profonda, per pazienti con gravi comorbilità, raccomandasse espressamente la gestione della procedura da parte di un medico anestesista.

Sulla base di tali motivazioni, la Corte di Cassazione ha dunque rigettato i motivi di ricorso proposti dall'imputato; i giudici di legittimità hanno, tuttavia, annullato con rinvio la sentenza impugnata sotto il profilo del nesso di causa. Richiamati i principi giurisprudenziali in materia, si è infatti rilevato come la motivazione resa dai giudici di merito non abbia operato una chiara e adeguata esposizione del comportamento salvifico eventualmente da porre in essere subito dopo la conclusione della procedura endoscopica, e antecedentemente all'effettivo affidamento del paziente nei confronti degli anestesisti (al cui comportamento le stesse sentenze avevano riconosciuto una valenza concausale nella determinazione dell'evento letale).

La sentenza di appello aveva, infatti, dato atto che - al momento in cui il paziente era stato ricondotto in reparto - le sue condizioni erano da considerarsi pienamente "reversibili", e che se egli fosse stato, fin da subito, assistito da un anestesista, sarebbe stato assicurato un continuo monitoraggio tale da garantire che, al termine della procedura, il medesimo potesse trovarsi pienamente sveglio e al di fuori della "coda di sedazione" dalla quale non si era più ripreso. Tuttavia, si è osservato, sul punto, come, al di là del generico riferimento all'attività di monitoraggio che sarebbe stata posta in essere da un anestesista presente nel corso della procedura endoscopica, le sentenze di merito abbiano omesso di formulare il necessario giudizio esplicativo; i giudici di merito non avevano, infatti, adeguatamente specificato quale sarebbe stata - in concreto e in riferimento alle specifiche modalità di espletamento della procedura di sedazione e alle condizioni del paziente - la condotta idonea a deviare la concatenazione causale degli eventi.