giovedì 27 giugno 2024

Procedimento a carico dell'ente ex D.Lgs. 231/2001: la Corte di Cassazione conferma l'inammissibilità della costituzione di parte civile.

 La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 21868, pronunciata all'udienza del 9 aprile 2024 (deposito motivazioni in data 31 maggio 2024), ha preso in esame la questione relativa all'ammissibilità della costituzione di parte civile nei confronti dell'ente chiamato a rispondere di un illecito ai sensi del D.Lgs. 231/2001.

Il fatto.

Una Società proponeva ricorso avverso la sentenza con cui la Corte di appello di Taranto aveva confermato la penale responsabilità del legale rappresentante della medesima in ordine ai reati di cui agli artt. 316 bis c.p. e 2621 cod. civ., con applicazione all'ente della sanzione amministrativa per l'illecito contestato; nonché la condanna dell'imputato e dell'ente al risarcimento del danno e a pagare le spese di costituzione in favore della parte civile Regione Puglia.

Tramite i propri motivi di ricorso, la Società lamentava la violazione dell'art. 74 c.p.p. e del D.Lgs. 231/2001, stante la ritenuta ammissibilità della costituzione di parte civile nei confronti dell'ente e le conseguenti statuizioni civili a carico dello stesso e in favore della Regione Puglia, nonché la mancata revoca del disposto sequestro conservativo. Tale statuizione risultava in contrasto, secondo la ricorrente, con la giurisprudenza costituzionale e di legittimità circa la natura della responsabilità degli enti a mente del D.Lgs. n. 231, che presuppone la commissione di un reato, ma non vi si identifica, e del tenore della regolamentazione posta dallo stesso decreto, da cui si evince l'esclusione dell'esercizio dell'azione civile ex art. 74 c.p.p. nei confronti degli enti; in senso contrario, infatti, non potrebbero deporre né il generale rimando alle norme del codice di rito, contenuto nell'art. 34 D.Lgs. 231/2001 cit., né il richiamo degli artt. 12, comma 2, lett. a), 17, comma 1, lett. a), e 19 dello stesso Decreto, relativi alla riparazione del danno da parte dell'ente, costituente un profilo neutro rispetto alla costituzione di parte civile.

L'Ente deduceva, inoltre, la violazione degli artt. 5 e 24 D.Lgs. 231/2001 e l'omessa motivazione in ordine all'insussistenza dei presupposti per sanzionare la società, in mancanza di due centri di interessi autonomi e distinti tra essa ed il legale rappresentante, stante il difetto sia di elementi da cui trarre una "colpa di organizzazione" da parte della Società, sia un interesse o vantaggio di essa distinto da quello dell'autore del reato, punito già con la sanzione penale. Al riguardo, osservava la Società come infondata fosse la motivazione resa, sul punto, dalla Corte territoriale, secondo cui, al momento del fatto, il legale rappresentante non era l'unico socio (essendolo divenuto in seguito), in quanto - a prescindere dall'originaria compagine societaria - la società si identificava nello stesso legale rappresentante, unico gestore; quest'ultimo, dunque, pativa un cumulo sanzionatorio, poiché alla sanzione penale si affiancava quella nei confronti dell'ente, gravante solo sul patrimonio dell'imputato.

La decisione.

La Suprema Corte ha rilevato, in primis, come i giudici di merito abbiano disatteso la conclusione cui è pervenuta la giurisprudenza di legittimità, secondo cui "nel processo instaurato per l'accertamento della responsabilità da reato dell'ente, non è ammissibile la costituzione di parte civile, atteso che l'istituto non è previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001 e l'omissione non rappresenta una lacuna normativa, ma corrisponde ad una consapevole scelta del legislatore" (Sez. 4, n. 3786 del 17/10/2014 - dep. 2015, Li Causi; Sez. 4, n. 30175 del 6 giugno 2023, Catalano). La Corte d'Appello era giunta a tale conclusione per il tramite di argomenti che, ha affermato il Collegio, non si erano confrontati con quelli posti a sostegno del suddetto principio, e su quanto affermato, al riguardo, dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea e dalla Corte costituzionale, oltre che dalle Sezioni Unite, a proposito della responsabilità prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001.

La Corte di Cassazione ha, invece, ritenuto di ribadire come la disciplina vigente non consenta la costituzione di parte civile nei confronti dell'ente chiamato a rispondere di un illecito, a mente del Decreto n. 231. Tale conclusione è determinata - hanno osservato i giudici di legittimità - non solo dal sistema normativo di cui al Decreto n. 231, ma, altresì, dallo stesso modello di responsabilità degli enti da esso contemplato.

Sotto il primo profilo, il Collegio ha rilevato che:

- nel D.Lgs. n. 231 del 2001 non vi è alcun riferimento espresso, né qualsivoglia richiamo alla parte civile e alla persona offesa (né tra i soggetti del procedimento a carico dell'ente, né nella disciplina delle indagini preliminari, dell'udienza preliminare, dei procedimenti speciali, delle impugnazioni, ovvero nelle norme sulla sentenza, "istituti che, invece, nei rispettivi moduli previsti nel codice di procedura penale contengono importanti disposizioni sulla parte civile e sulla persona offesa": Sez. 6, n. 2251/2010 - dep. 2011). A proposito della sentenza di condanna, la Corte ha posto in evidenza comee l'art. 69 D.Lgs. 231/2001 contempli unicamente l'applicazione, nel caso di responsabilità dell'ente, delle sanzioni previste dalla legge e la condanna al pagamento delle sole spese processuali; ciò legittima a ritenere, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, come non si sia trattato di una lacuna normativa, quanto piuttosto di una scelta consapevole del legislatore, che ha voluto operare, intenzionalmente, una deroga rispetto alla regolamentazione codicistica;

- talune disposizioni del Decreto n. 231 depongono nel senso della esclusione di tale soggetto dal processo; si tratta, in particolare, dell'art. 27 che, nel disciplinare la responsabilità patrimoniale dell'ente, la limita all'obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria, senza fare alcuna menzione alle obbligazioni civili, e dell'art. 54 (che limita il sequestro conservativo al solo scopo di assicurare il pagamento della sanzione pecuniaria, oltre che delle spese del procedimento e delle somme dovute all'erario, attribuendo la legittimazione a richiederlo soltanto al pubblico ministero, in ciò disponendo in maniera difforme dall'art. 316 c.p.p., che pone il sequestro conservativo sia a tutela del pagamento della pena pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all'erario, sia delle obbligazioni civili derivanti dal reato, in quest'ultimo caso attribuendo alla parte civile la possibilità di richiederlo);

- da tali premesse consegue che, in presenza di tale univoca opzione legislativa, difetta una lacuna normativa da colmare, in forza del generale rinvio contenuto nell'art. 34 D.Lgs. n. 231/2001 (a mente del quale "per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato, si osservano le norme di questo capo nonché, in quanto compatibili, le disposizioni del Codice di procedura penale e del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271"), facendo applicazione degli artt. 74 ss. c.p.p. in ragione della ritenuta compatibilità di essi con la speciale disciplina dettata dal Decreto n. 231 e dell'art. 185 c.p..

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La Suprema Corte ha, quindi, rilevato come la correttezza di tale esegesi trovi, altresì, conferma nella natura della responsabilità degli enti e in ulteriori previsioni del Decreto n. 231. 

La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha osservato il Collegio, ha dato conto del particolare meccanismo attraverso cui l'ente viene chiamato a rispondere per i reati posti in essere nel suo interesse o vantaggio, nel senso che: "il reato che viene realizzato dai vertici dell'ente, ovvero dai suoi dipendenti, è solo uno degli elementi che formano l'illecito da cui deriva la responsabilità dell'ente, che costituisce una fattispecie complessa, in cui il reato rappresenta il presupposto fondamentale, accanto alla qualifica soggettiva della persona fisica e alla sussistenza dell'interesse o del vantaggio che l'ente deve aver conseguito dalla condotta delittuosa posta in essere dal soggetto apicale o subordinato" (Sez. 6, n. 2251/2010 - dep. 2011); in breve, "tale illecito non si identifica con il reato commesso dalla persona fisica, ma semplicemente lo presuppone". 

Tale prospettiva ermeneutica ha ricevuto espressa condivisione anche da parte della Consulta - chiamata a pronunciarsi proprio sulla legittimità costituzionale della mancata previsione dell'esercizio dell'azione civile nei confronti degli enti nel procedimento celebrato nei loro confronti per gli illeciti contemplati dal D.Lgs. n. 231 del 2001 - la quale ha evidenziato come: "l'illecito di cui l'ente è chiamato a rispondere ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001 non coincide con il reato, trattandosi di "due illeciti strutturalmente diversi" (Corte cost. n. 218 del 09/07/2014).

Sul punto, le Sezioni Unite hanno espressamente affermato che il sistema dell'illecito degli enti "costituisce un corpus normativo di peculiare impronta, un tertium genus" che "coniuga i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo", che è "parte del più ampio e variegato sistema punitivo" ed ha "evidenti ragioni di contiguità con l'ordinamento penale per via, soprattutto, della connessione con la commissione di un reato, che ne costituisce il primo presupposto" (oltre che "della severità dell'apparato sanzionatorio, delle modalità processuali del suo accertamento": Sez. Un., n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn; Sez. Un., n. 14840 del 27/10/2022 - dep. 2023, Società La Sportiva). 

Inoltre, nel rilevarne la conformità ai principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza ("quale che sia l'etichetta che si voglia imporre su tale assetto normativo"), le Sezioni Unite hanno chiarito che:

- l'ente risponde di un fatto proprio poiché "il reato commesso dal soggetto inserito nella compagine dell'ente, in vista del perseguimento dell'interesse o del vantaggio di questo, è sicuramente qualificabile come "proprio" anche della persona giuridica, (...) in forza del rapporto di immedesimazione organica che lega il primo alla seconda" (Sez. Un., n. 38343/2014);

- il sistema non viola il principio di colpevolezza, che tuttavia "deve essere considerato alla stregua delle peculiarità della fattispecie, affatto diversa da quella che si configura quando oggetto dell'indagine sulla riprovevolezza è direttamente una condotta umana", tanto che "il rimprovero riguarda l'ente e non il soggetto che per esso ha agito" e sarebbe "vano e fuorviante andare alla ricerca del coefficiente psicologico della condotta invocato dal ricorrente", venendo in rilievo una colpa d'organizzazione, in quanto il rimprovero verso gli organismi de quibus si fonda sul mancato rispetto dell'"obbligo di adottare le cautele necessarie a prevenire la commissione di alcuni reati, adottando iniziative di carattere organizzativo e gestionale" ed è "il riscontro di tale deficit organizzativo (a) consentire la piana ed agevole imputazione all'ente dell'illecito penale" e a renderne "autonoma la responsabilità" (Sez. Un., n. 38343/2014, cit.).

In altri termini, pertanto, anche le Sezioni Unite hanno tratteggiato una responsabilità da illecito proprio dell'ente, sia pure connesso con la commissione di un reato di una persona fisica, ma che non si identifica con tale reato. Ciò - ha quindi osservato il Collegio - conduce a ritenere non riferibile all'illecito di cui deve rispondere l'ente il disposto dell'art. 185 c.p. - presupposto dell'esercizio dell'azione civile nel processo penale - che fa riferimento al "reato" ("Ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili. Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui").

Tale interpretazione - hanno aggiunto i giudici di legittimità - trova ulteriore conferma nella diversa disciplina della prescrizione dell'illecito dell'ente, segnatamente nella parte in cui prevede, nel caso in cui l'interruzione della prescrizione sia avvenuta mediante la contestazione dell'illecito amministrativo dipendente da reato, che essa non decorra fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio (art. 25 comma 4 D.Lgs. 231/2001): trattasi, si è rilevato, di una regola (modellata su quella prevista per il processo civile) con evidenza distonica rispetto alla disciplina posta per la prescrizione del reato, ed in particolare con riguardo alla conseguente decisione agli effetti civili prevista dall'art. 578 c.p.p., che induce ad escludere la compatibilità della disciplina dell'azione civile nel processo penale per il danno derivante dal reato con la proposizione di pretese risarcitorie e restitutorie nei confronti dell'ente in ragione dell'illecito ad esso ascritto.

A differenti conclusioni non si è ritenuto di poter pervenire neppure sulla scorta degli artt. 12 e 17 D.Lgs. n. 231/2001, che, rispettivamente, contemplano, tra i casi di riduzione della sanzione pecuniaria da infliggere all'ente, le ipotesi di danno patrimoniale di particolare tenuità, nonché quelle in cui il medesimo ente, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, abbia risarcito integralmente il danno e eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero si sia comunque efficacemente adoperato in tal senso; ed escludono l'applicazione delle sanzioni interdittive nel caso di riparazione delle conseguenze del reato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado (in particolare, quando concorrono le seguenti condizioni: a) l'ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso; b) l'ente ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l'adozione e l'attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; c) l'ente ha messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca: art. 17, comma 1, cit. Al riguardo, hanno rilevato i giudici di legittimità, è dirimente considerare che l'incidenza delle condotte riparatorie sulle sanzioni (sia sul quantum che sull'an dell'irrogazione di esse) può prescindere dall'esercizio dell'azione civile, come in effetti è previsto in generale dal codice penale (cfr. artt. 62, comma 1, n. 4; 62 bis; art. 133, comma 1 n. 2 e comma 2 n. 3; 162 ter cod. pen.), nonché dalla legislazione speciale, in particolare nel procedimento per i reati di competenza del giudice di pace (cfr. art. 35 D.Lgs. 274/2000) o per gli imputati minorenni rispetto ai quali ultimi non è ammessa la costituzione di parte civile (cfr. artt. 10 e 28 comma 2 D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448). Coerentemente, la giurisprudenza ha dunque affermato, sul punto, che: "in tema di responsabilità da reato degli enti, ai fini dell'effettività del risarcimento e delle condotte funzionali a realizzarlo, di cui all'art. 17 lett. a) D.Lgs. 231 del 2001, è necessario che l'ente si impegni ad individuare le persone offese e danneggiate dal reato, anche a prescindere dalla costituzione di parte civile nel giudizio eventualmente instaurato nei confronti della persona fisica responsabile del reato" (Sez. 2, n. 326 del 28/11/2013 - dep. 2014, Vescovi).

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Sul punto, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha affermato come l'art. 9, par. 1, della decisione quadro 2001/220/GAI del Consiglio, del 15 marzo 2001, relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale, debba "essere interpretato nel senso che non osta a che, nel contesto di un regime di responsabilità delle persone giuridiche come quello in discussione nel procedimento principale, la vittima di un reato non possa chiedere il risarcimento dei danni direttamente causati da tale reato, nell'ambito del processo penale, alla persona giuridica autrice di un illecito amministrativo da reato" (Corte Giust. UE, sez. II, sentenza 12 luglio 2012); e ciò non certo - come invece ritenuto dai giudici di merito nel caso di specie - sul presupposto che la responsabilità prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001 sia unicamente una responsabilità amministrativa, bensì osservando che:

- la decisione quadro, il cui unico oggetto è la posizione delle vittime nell'ambito dei procedimenti penali, non contiene alcuna indicazione in base alla quale il legislatore dell'Unione avrebbe inteso obbligare gli Stati membri a prevedere la responsabilità penale delle persone giuridiche;

- dalla formulazione letterale stessa dell'articolo 1, lettera a), della decisione quadro risulta che quest'ultima, in linea di principio, garantisce alla vittima il diritto al risarcimento nell'ambito del procedimento penale per "atti o omissioni che costituiscono una violazione del diritto penale di uno Stato membro" e che sono "direttamente" all'origine dei pregiudizi (sent. del 28 giugno 2007, Dell'Orto, C - 467/05, Racc. pag. I - 5557, punti 53 e 57)";

- dall'ordinanza di rinvio era emerso "che un illecito "amministrativo" da reato come quello all'origine delle imputazioni sulla base del decreto legislativo n. 231/2001", pur definito esso stesso "reato", costituisce tuttavia un illecito "distinto che non presenta un nesso causale diretto con i pregiudizi cagionati dal reato commesso da una persona fisica e di cui si chiede il risarcimento. Secondo il giudice del rinvio, in un regime come quello istituito da tale decreto legislativo, la responsabilità della persona giuridica è qualificata come "amministrativa", "indiretta" e "sussidiaria", e si distingue dalla responsabilità penale della persona fisica, autrice del reato che ha causato direttamente i danni e a cui (...), può essere chiesto il risarcimento nell'ambito del processo penale";

- "pertanto, le persone offese in conseguenza di un illecito amministrativo da reato commesso da una persona giuridica, come quella imputata in base al regime instaurato dal decreto legislativo n. 231/2001, non possono essere considerate, ai fini dell'applicazione dell'articolo 9, paragrafo 1, della decisione quadro, come le vittime di un reato che hanno il diritto di ottenere che si decida, nell'ambito del processo penale, sul risarcimento da parte di tale persona giuridica" (ivi).

Trattasi, pertanto, di un'esegesi, ha rilevato la Corte, che tiene conto della natura non squisitamente amministrativa dell'illecito degli enti, al di là del nomen iuris che può leggersi nel D.Lgs. n. 231/2001 (come palesato dall'espressa definizione di esso, nel corpo dello stesso provvedimento del Giudice europeo, anche quale "reato"). 

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Infine, hanno osservato i giudici di legittimità, non può ravvisarsi nella disciplina così ricostruita una disparità tra "le facoltà conferite all'offeso (recte: il danneggiato) dal reato nei confronti del soggetto fisico e quelle attribuitegli nei confronti della società", o meglio un contrasto con la Carta costituzionale, in termini di non manifesta infondatezza, a causa di un possibile, irragionevole esercizio da parte del Legislatore del proprio potere discrezionale. Sul punto, si è infatti, da un lato, richiamata la predetta considerazione, in merito alla distinzione tra il reato e l'illecito dell'ente (che pure lo presuppone), che già palesa la non assimilabilità piena tra le rispettive situazioni soggettive del danneggiato, che comunque può esercitare l'azione civile nel processo penale nei confronti della persona fisica che ha commesso il reato. Dall'altro, come affermato e ribadito dalla Corte costituzionale: "l'assetto generale, posto a base del codice di procedura penale del 1988, è ispirato all'idea della separazione dei giudizi, penale e civile (sentenze n. 353 del 1994 e n. 192 del 1991)" e guarda perfino la "persona offesa" ("soggetto portatore di un duplice interesse: quello al risarcimento del danno, che si esercita mediante la costituzione di parte civile, e quello all'affermazione della responsabilità penale dell'autore del reato, che si esercita mediante un'attività di supporto e di controllo dell'operato del pubblico ministero") "quale "soggetto eventuale del procedimento o del processo", e non quale parte principale e necessaria (ordinanze n. 254 del 2011 e n. 339 del 2008)"; "l'azione per il risarcimento del danno da reato o per le restituzioni ben può avere dall'inizio una propria autonomia nella naturale sede del giudizio civile, con un iter del tutto indipendente rispetto al giudizio penale (sentenza n. 532 del 1995)" (Corte cost. n. 203 del 22/09/2021, che richiama pure Id. n. 249 del 04/11/2020 e n. 182 del 07/07/2021, che fa riferimento, anche sulla scorta della giurisprudenza europea e delle Carte europee dei diritti, sia pure a proposito della decisione sul capo civile nell'ipotesi di proscioglimento dell'imputato, allorché è intervenuta per l'appunto di costituzione di parte civile, al necessario "bilanciamento tra le esigenze sottese all'operatività del principio generale di accessorietà dell'azione civile rispetto all'azione penale (...) e le esigenze di tutela dell'interesse del danneggiato).

Ciò posto, si è ritenuto come non possa ravvisarsi alcun vulnus ai diritti garantiti dalla Carta fondamentale nel bilanciamento tra diverse situazioni soggettive compiuto dal Legislatore, dovendosi considerare - come osservato anche in dottrina, a proposito del rilievo assunto dalla parte civile nel processo penale in relazione alla struttura di quest'ultimo e alle sue finalità, con riferimento all'accessorietà della pretesa civilistica - il sistema nel suo complesso che, segnatamente, consente comunque l'esercizio dell'azione risarcitoria innanzi al Giudice civile (sul punto Sez. 5, n. 24830 del 21/02/2023, Rossignolo, che ha escluso i presupposti per sollevare la questione di legittimità costituzionale dell'art. 240 legge fall. nella parte in cui consente la costituzione di parte civile nel procedimento penale celebrato per i reati fallimentari ai creditori solo quando manchi la costituzione del curatore, del commissario giudiziale, del commissario liquidatore e del commissario speciale di cui all'articolo 37 del decreto di recepimento della direttiva 2014/59/UE" ovvero purché azionino una pretesa personale ma soltanto "nel procedimento penale per bancarotta fraudolenta). Tali argomenti valgono a fortiori rispetto a un soggetto che non può dirsi persona offesa (o meglio danneggiato) dal reato bensì, in ipotesi, da un illecito che il reato presuppone, ma che è distinto da esso.

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Con riguardo al secondo motivo proposto dalla Società, il Collegio ha osservato come la Corte di merito avesse, sul punto, richiamato la pronuncia della Sesta Sezione Penale, n. 45100/2021, secondo cui: "in tema di responsabilità da reato degli enti, le società unipersonali a responsabilità limitata rientrano tra gli enti assoggettati alla disciplina dettata dal D.Lgs. 9 giugno 2001, n. 231, essendo, a differenza delle imprese individuali, soggetti giuridici autonomi, dotati di un proprio patrimonio e formalmente distinti dalla persona fisica dell'unico socio", fermo restando che "nell'accertamento della responsabilità dell'ente, occorre verificare se sia individuabile un interesse sociale distinto da quello dell'unico socio, tenendo conto dell'organizzazione della società, dell'attività svolta e delle dimensioni dell'impresa, nonché dei rapporti tra socio unico e società". I giudici di merito avevano, pertanto, ritenuto infondato, sul punto, l'appello, in quanto soltanto successivamente alla commissione del reato di cui all'art. 316  bis c.p. e dell'illecito (che presuppone il detto delitto) ascritto all'ente, il legale rappresentante era divenuto socio unico dell'Ente, a seguito della cessione delle quote da parte degli altri soci, escludendo che tale cessione fosse stata atta a determinare, in relazione alla precedente condotta illecita, la sussistenza di un interesse sociale indistinto da quello dello stesso legale rappresentante. Ciò posto, la Corte di Cassazione ha ritenuto infondato tale motivo di ricorso, stante la mancanza della necessaria specificità, essendosi limitata la ricorrente, in modo assertivo, a negare sia la sussistenza di elementi da cui trarre una "colpa di organizzazione" da parte della società, sia un interesse o vantaggio di essa distinto da quello dell'autore del reato, e ad affermare come il legale rappresentante ne fosse unico gestore, circostanza che, tuttavia, non esclude ex se che egli avesse agito nell'interesse o a vantaggio dell'ente.

Sulla base di tali motivazioni, la Corte ha pertanto annullato senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alle statuizioni civili poste a carico della società.