sabato 3 agosto 2024

La posizione di garanzia del medico in relazione al decorso postoperatorio e la rilevanza di quanto dichiarato, al riguardo, nella cartella clinica.

 La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 29150, pronunciata all'udienza del 7 marzo 2024 (deposito motivazioni in data 18 luglio 2024), ha preso in esame il tema concernente la posizione di garanzia del medico in relazione al decorso postoperatorio, nonché la rilevanza di quanto dichiarato, al riguardo, nella cartella clinica.

Il fatto.

Un imputato proponeva ricorso avverso la sentenza con cui la Corte di appello di Messina ne aveva confermato la penale responsabilità in ordine al reato di cui agli artt. 113, 589 e 590-sexies c.p.; tale delitto era stato ad egli contestato perché, nell'esercizio della propria professione di medico-chirurgo in servizio presso un istituto ortopedico, ed in cooperazione con un collega, aveva omesso - a fronte di un riscontro di deficit motorio e sensitivo degli arti inferiori, manifestatosi in una paziente già il giorno successivo ad un intervento chirurgico di vertebroplastica percutanea, ed imputabile ad una prevedibile complicanza dello stesso - di disporre un immediato approfondimento diagnostico, da eseguirsi a mezzo risonanza magnetica del rachide dorsale lombare (eseguita solo tre giorni più tardi), all'esito della quale avrebbe potuto avviare un trattamento chirurgico decompressivo, scongiurando lo scompenso delle condizioni cliniche della paziente, oltre che l'ingravescenza della sindrome multi-organo, per effetto della quale la donna era deceduta.

Il giudice di primo grado, nel ritenere integrata la responsabilità dell'imputato, aveva rilevato come il sanitario avesse omesso di operare un costante monitoraggio della paziente, richiesto dal pregresso intervento operatorio espletato, e come il rispetto di tale costante controllo avrebbe consentito di effettuare un'immediata diagnosi della complicanza sopravvenuta, sottoponendo la paziente ad un intervento immediato di decompressione. Inoltre, le ragioni addotte a propria discolpa dall'imputato - ossia il non aver effettuato il controllo necessario nel rispetto di regole interne della struttura - non erano da considerarsi sufficienti a sollevarlo dall'obbligo di controllo connesso alla posizione di garanzia rivestita. 

Già tramite i propri motivi d'appello, la difesa del medico aveva osservato come il giudizio di responsabilità si fosse fondato su di una valutazione errata dei dati acquisiti, circa il costante obbligo di monitoraggio attribuito all'imputato, non essendo annotata in cartella, né in sede di querela, alcuna sintomatologia avversa o richiesta di intervento da parte dei familiari o della paziente stessa. La Corte d'appello aveva, tuttavia, confermato la sentenza di condanna, ritenendo provato l'omesso monitoraggio della paziente, e rilevando, in ordine all'assunto difensivo secondo cui il chirurgo operatore non avrebbe potuto seguire il decorso post-operatorio per la logica imposta dalla struttura, che l'imputato avrebbe comunque potuto dare disposizioni ad altri sanitari e, peraltro, l'intervento oggetto del processo era l'ultimo da effettuare nella giornata. La Corte aveva, dunque, condiviso il giudizio di sussistenza del nesso di causalità, secondo cui se il sanitario avesse effettuato il doveroso monitoraggio, o avesse fornito disposizioni ad altri sanitari, ciò avrebbe almeno consentito di procedere alla corretta diagnosi e di sottoporre tempestivamente la paziente all'intervento di decompressione midollare.

Proponendo ricorso per cassazione, il sanitario lamentava violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo alla ritenuta condotta omissiva addebitata, ossia il mancato monitoraggio della paziente. La motivazione era illogica ed errata, posto che nessuno - né la caposala del reparto né successivamente il collega coimputato - si era preoccupato di allertare l'imputato circa le condizioni sopravvenute che riguardavano la paziente nei giorni precedenti l'esito infausto. Inoltre, le cartelle cliniche attestavano che il decorso operatorio era buono, non rilevando alcuna sintomatologia significativa. Infine, la Corte non aveva chiarito come e per quanto tempo ancora il medico dovesse continuare il controllo post-operatorio.

La decisione.

La Suprema Corte ha, innanzitutto, ribadito il principio secondo cui il capo dell'equipe medica è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, che non è limitata all'ambito strettamente chirurgico, ma si estende al successivo decorso post-operatorio, poiché le esigenze di cura e di assistenza dell'infermo sono note a colui che ha eseguito l'intervento più che ad ogni altro sanitario (Sez. 4, n. 17222 del 06/03/2012, Arena); con la conseguenza che è ravvisabile la sua responsabilità ove, terminato l'intervento, si sia allontanato senza avere affidato il paziente ad altri sanitari, debitamente edotti, in grado di seguire il decorso post operatorio (Sez. 4, n. 22007 del 23/01/2018, PG in proc. Muratore; Sez. 4, n. 11719 del 04/03/2021; Sez. 4, n. 53453 del 15/11/2018; Sez. 4, n. 17222 del 06/03/2012).

Ciò posto, si è ritenuto come i giudici di merito abbiano fatto corretta applicazione di tale orientamento, rilevando la sussistenza, in capo all'imputato, chirurgo operatore, dell'obbligo di monitoraggio della paziente, consistente nel controllo sui parametri vitali e neurologici, ed evidenziando come, nel caso di specie, egli non avesse assolto detto obbligo, né personalmente né dando indicazioni ad altri sanitari. I giudici di legittimità hanno, inoltre, ritenuto di non condividere la considerazione secondo cui le annotazioni della cartella clinica, redatta la mattina successiva all'intervento, di poco anteriore al trasferimento della paziente presso il reparto riabilitazione, riportavano la dicitura: "buono il decorso post operatorio". Sul punto, si è infatti rilevato come la paziente, immediatamente dopo l'intervento, presentasse una sintomatologia, a causa della quale ella aveva iniziato ad avvertire, già dal post operatorio, disturbi quali assenza di sensibilità e impossibilità di movimento degli arti inferiori. Tali disturbi erano stati riferiti tempestivamente dalla figlia della paziente al personale infermieristico, che li aveva ricondotti agli effetti dell'anestesia. Non illogica è stata, pertanto, ritenuta la deduzione della Corte territoriale, secondo cui la mancata annotazione in cartella clinica della sintomatologia sopra descritta fosse dovuta all'erronea attribuzione dei disturbi avvertiti dalla paziente ai postumi della anestesia. 

Inoltre, il Collegio ha ritenuto come non possa sostenersi che l'annotazione nella cartella clinica circa la bontà del decorso post operatorio attesti una verità escludente la sintomatologia non annotata

Sul punto, si è, infatti, rilevato come le attestazioni contenute in una cartella clinica, redatta da un'azienda ospedaliera pubblica, o da un ente convenzionato con il servizio sanitario pubblico, abbiano natura di certificazione amministrativa, cui è applicabile lo speciale regime di cui agli artt. 2699 ss. c.c., per quanto attiene alle sole trascrizioni delle attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento, restando, invece, non coperte da fede privilegiata le valutazioni, le diagnosi o, comunque, le manifestazioni di scienza o di opinione in essa espresse (Cass. Civ, Sez. 3, n. 25568 del 30/11/2011; Sez. L -, Ordinanza n. 27471 del 20/11/2017; Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 27288 del 16/09/2022). La cartella clinica in atti fa, dunque, prova, fino a querela di falso, dei fatti attestati, non già delle valutazioni (qual è da intendersi: "buono il decorso post operatorio"). 

La Corte di Cassazione ha, pertanto, ritenuto di condividere l'assunto della sentenza impugnata per cui un attento monitoraggio della paziente da parte del medico operatore avrebbe permesso l'immediata rilevazione della complicanza e l'adozione delle tempestive misure di decompressione. I giudici di merito avevano inoltre rilevato come il medesimo imputato avesse ammesso, in sede di esame, di non aver provveduto ad effettuare il controllo post operatorio, richiamando a sua giustificazione regole interne alla struttura, nonché la tipologia di attività svolta in qualità di chirurgo ortopedico, normalmente chiamato a dare esecuzione a interventi chirurgici programmati in regime di day surgery. Sul punto, la Suprema Corte ha ritenuto incensurabile l'argomentazione dei giudici di merito, secondo cui, stante l'obbligo di vigilanza delle condizioni di salute del paziente nel decorso post operatorio, dette giustificazioni erano del tutto inidonee ad esimere il sanitario dal suo preciso dovere di vigilanza, prescritto anche dalle linee guida applicabili al caso concreto. 

Infine, il Collegio ha rigettato la richiesta, avanzata dall'imputato, di applicazione, in proprio favore, dell'art. 3 della L. 189/2012 (c.d. Legge Balduzzi), a mente del quale " l'esercente delle professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve". Sul punto, la Corte di Cassazione ha, in primo luogo, ricordato come la causa di non punibilità di cui all'art. 590 sexies c.p., successivamente introdotto dalla L. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. Legge Gelli - Bianco) riguardi esclusivamente le ipotesi di imperizia, con la conseguenza per cui: "il regime previsto dall'art. 3 della L. n.189/2012 risulta più favorevole in relazione alle contestazioni per comportamenti del sanitario - commessi prima della entrata in vigore della legge Gelli-Bianco - connotati da negligenza o imprudenza, con configurazione di colpa lieve, che solo per il decreto Balduzzi erano esenti da responsabilità quando risultava provato il rispetto delle linee-guida o delle buone pratiche accreditate" (Sez. Un., n. 8770 del 21 dicembre 2017, Mariotti, in motivazione). Nel caso di specie, risultava contestata un'evidente ipotesi di negligenza (omesso controllo delle condizioni della paziente nel decorso post operatorio) e pertanto il fatto, commesso nel marzo 2016, è stato ritenuto riconducibile al regime di cui all'art. 3 della L.189/2012, in quanto più favorevole.

Tanto premesso, gli Ermellini hanno rilevato come, ai fini dell'applicazione dall'art. 3 della legge Balduzzi, sia necessario che il sanitario abbia rispettato le linee guida o pratiche terapeutiche mediche virtuose, purché esse siano accreditate dalla comunità scientifica, con la precisazione che il professionista deve comunque inquadrare correttamente il caso nelle sue linee generali, adeguando le direttive allo specifico contesto, anche disattendendo del tutto le istruzioni usuali per perseguire una diversa strategia che governi efficacemente i rischi connessi al quadro d'insieme (Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore). 

Nel caso di specie, tuttavia, erano state totalmente disapplicate le prescrizioni delle linee guida inerenti alla vigilanza e controllo nel decorso post operatorio da parte del medico operatore, né era stata invocata, e tanto meno dimostrata, alcuna valida ragione, avente fondamento tecnico - scientifico, la quale imponesse, nel caso concreto, di discostarsi da tali prescrizioni. 

Sulla base di tali motivazioni, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso dell'imputato, confermandone pertanto definitivamente la penale responsabilità in ordine al reato ad egli contestato.