venerdì 9 agosto 2024

Responsabilità amministrativa da reato dell'ente e violazione estemporanea da parte di un soggetto dirigente: la necessità dell'accertamento di una colpa di organizzazione e di un vantaggio apprezzabile per l'ente.

In materia di responsabilità amministrativa degli enti, derivante da reati colposi di evento, la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 31665, pronunciata all'udienza del 25 giugno 2024 (deposito motivazioni in data 2 agosto 2024), ha preso in esame la questione concernente la rilevanza, ai fini della responsabilità della società, della mancata inclusione di specifici rischi esogeni, legati alla security, nel documento di valutazione dei rischi, nonché di una singola violazione estemporanea da parte di un soggetto dirigente.

Il fatto.
Il GUP presso il Tribunale di Roma condannava tre imputati per il delitto di cui agli artt. 40 comma 2, 118, 589, c.p. e 2381, 2392 c.c., nella loro qualità di componenti del Consiglio di Amministrazione di una società, e perciò quali titolari della posizione di garanzia, comprendente il dovere di individuazione e valutazione dei rischi aziendali, e di alta vigilanza sulla gestione della società e, pertanto, preposti ad adottare, nell'esercizio dell'impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro. 
In particolare, si era contestato ai medesimi di aver omesso di dare disposizione alcuna circa la gestione del rischio per l'integrità fisica dei lavoratori durante un trasferimento presso dei cantieri in Libia e, comunque, di effettuare ogni tipo di controllo o verifica sull'esistenza di direttive della società sul punto, ponendo così in essere una condotta causalmente connessa con il sequestro di quattro lavoratori ed il decesso di due di loro, avvenuto in costanza di sequestro, durante il trasferimento da un luogo di restrizione ad un altro, nel corso di un conflitto a fuoco tra i sequestratori e soggetti terzi. Ciò, inoltre, era avvenuto dopo che la società aveva partecipato ad una riunione presso il Ministero degli Esteri, ove era stata preannunciata l'imminente chiusura dell'Ambasciata italiana per il peggioramento delle condizioni di sicurezza, con invito a lasciare la Libia o, in alternativa, ad elevare al massimo le misure di sicurezza; inoltre, dopo che la stessa società aveva trasferito, sempre per motivi di sicurezza, gli uffici amministrativi in altro luogo in Libia, in quanto protetto da servizio di sicurezza armata, ed infine dopo che era stato comunicato alla medesima società un pericolo imminente per il personale. 

Il Gup aveva, inoltre, pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, per il medesimo reato, nei confronti di altro imputato, il quale, dando disposizioni, quale dirigente della società, ed operation manager per la Libia - e perciò assumendo, in fatto,una posizione di garanzia, con obbligo di protezione in ordine alle modalità con cui i lavoratori avrebbero dovuto effettuare il trasferimento dall'Italia verso il cantiere in Libia - aveva ordinato che gli stessi effettuassero il trasferimento dalla Tunisia al cantiere via terra, piuttosto che via mare, e su un automezzo condotto da un autista privato libico, senza alcuna scorta armata né altre cautele idonee a tutelarne l'integrità fisica; ciò aveva egli disposto solo sulla base di generiche rassicurazioni degli operai libici del cantiere in ordine al fatto che la zona in questione fosse in quel momento "abbastanza tranquilla", malgrado fosse fuori dalla zona sotto il controllo del Governo legittimo ed, invece, occupata dalle milizie fondamentalistiche islamiche appartenenti allo Stato Islamico; infine, malgrado l'ENI Nord Africa lo avesse avvertito di un pericolo imminente per il personale italiano, ponendo così in essere, anch'egli, un precedente nella serie causale di eventi che aveva condotto al sequestro ed al decesso dei lavoratori.

Il Giudice di primo grado aveva, infine condannato la società, in relazione alla fattispecie di cui all'art. 12 comma 2, 25-septies D.Lgs. 231/2001 e 589 c.p., perché quattro componenti del Consiglio di Amministrazione, e quindi dell'organo apicale della società, quali titolari della predetta posizione di garanzia, ed in cooperazione colposa con il dirigente, avevano posto in essere le condotte sopra descritte.
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In particolare, nella fattispecie, erano deceduti due tecnici, dipendenti della società, destinati a lavorare negli impianti di una società committente in territorio libico. Giunti insieme ad altri due colleghi dall'Italia in Tunisia, tramite un volo con scalo a Malta, anziché essere trasferiti nell'impianto in Libia, a mezzo di una nave messa a disposizione dalla committente, i quattro tecnici erano stati trasportati via terra con autovettura con autista. Tale modifica era avvenuta per una variazione di programma rispetto a quanto di regola avveniva per gli spostamenti da e per il sito in questione, che era di regola effettuato ogni mercoledì sera a mezzo di una nave messa a disposizione dalla società committente, che copriva la tratta marittima. Del cambiamento di programma i quattro tecnici erano stati avvisati dall'operation manager della società in Libia, che aveva organizzato il viaggio alternativo, predisponendo l'autovettura pick-up e l'autista, che già prestava questo servizio da alcuni mesi per la società. 
I quattro tecnici, pertanto, giunti in Tunisia, erano stati prelevati dall'autista libico, e fatti salire a bordo di un'autovettura pickup, che li avrebbe condotti in territorio libico presso la prevista destinazione. Nel corso del tragitto, però, l'autovettura era stata affiancata da altre due vetture, i cui occupanti avevano intimato all'autista di fermarsi e, dopo aver fatto salire quest'ultimo su una delle loro vetture, lo avevano abbandonato, fuggendo con la stessa autovettura a bordo della quale si trovavano i quattro tecnici italiani. A tale episodio aveva fatto seguito un lungo periodo di prigionia, nel corso del quale i quattro tecnici italiani erano stati trasferiti in diversi rifugi e sottoposti ad una lunga e costante privazione della loro libertà personale. Successivamente, due dei tecnici erano stati separati dai compagni per essere condotti in un altro rifugio, ed erano morti perché raggiunti da numerosi colpi da arma da fuoco, in quanto il convoglio, sul quale gli stessi si trovavano insieme ai loro sequestratori, era stato attaccato da soggetti armati non identificati. Gli altri due tecnici, nel frattempo, rimasti soli all'interno del rifugio dov'erano stati imprigionati, erano riusciti a scappare forzando la porta del locale e, una volta raggiunta la strada, avevano intercettato le forze di polizia libiche, che li avevano consegnati alle autorità italiane.

La Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, appellata dagli imputati e dalla società, aveva assolto i componenti del consiglio di amministrazione dal reato loro ascritto per non aver commesso il fatto; aveva, invece, confermato, la penale responsabilità dell'illecito amministrativo in capo alla società. 

I giudici del gravame del merito avevano escluso qualunque incidenza causale, rispetto all'evento, del comportamento tenuto dai membri del c.d.a. della società, sottolineando che: 
a. non era prevista l'adozione della forma scritta per l'adempimento dell'obbligo informativo, ed i lavoratori dipendenti impiegati sul territorio libico erano comunque a conoscenza dell'obbligatorietà dell'utilizzo del mezzo navale anziché terrestre per gli spostamenti da e per il cantiere in Libia; 
b. il Presidente del consiglio di amministrazione aveva sempre mantenuto contatti diretti con il dirigente coimputato e, in una e-mail a lui inviata prima della vicenda in esame, si era raccomandato di utilizzare la rotta marittima come unica via di accesso al cantiere; 
c. la decisione del dirigente era stata frutto di una sua personale iniziativa, non concordata con alcuno, e contraria alla prassi costantemente seguita, tant'è che egli si era guardato bene dall'informare i vertici della società, i quali non erano, infatti, a conoscenza di tale scelta né, tanto meno, l'avevano avallata. 
La Corte territoriale aveva, inoltre, evidenziato come gli altri componenti del c.d.a. fossero consiglieri privi di deleghe operative, e dunque non investiti dei poteri di gestione che avrebbero loro consentito di adottare gli atti organizzativi e le misure cautelari richiesti dalla legge, poteri affidati, invece, al Presidente del consiglio.

La Corte capitolina aveva, invece, confermato la condanna della società, per non aver adottato un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire la commissione di reati da parte del dirigente, operation manager e delegato per la sicurezza, quale persona avente poteri di gestione dell'unità organizzativa libica. In particolare, la Corte territoriale aveva evidenziato, sul punto, che: 
a. non era stato creato un modello organizzativo idoneo a contrastare scelte estemporanee e autonome dei dirigenti pericolose per l'integrità dei lavoratori, né era stato elaborato un codice disciplinare volto a sanzionare le condotte contrarie al suddetto modello; 
b. la società non era dotata di protocolli che prevedessero una puntuale formazione del personale rispetto ai rischi esogeni ed endogeni del paese in cui operavano, alcun criterio di tracciamento degli spostamenti del personale da e per il cantiere in Libia, la formazione di figure professionali appositamente destinate a gestire la security del personale impiegato nel sito e una specifica procedura per la prevenzione e per la gestione di sequestri di persona, eventi assolutamente prevedibili e frequenti in un'area di crisi; 
c. le prescrizioni relative agli spostamenti dei lavoratori nel territorio libico, quantunque impartite ed asseritamente percepite dal dirigente come vincolanti, non presentavano i caratteri della ritualità formale e della perentorietà sostanziale, a causa della mancata procedimentalizzazione del sistema, di applicazione di regole cautelari previste a tutela dei lavoratori e la loro mancata collocazione all'interno del documento di valutazione dei rischi societario; 
d. ciò aveva fatto sì che il dirigente agisse con estrema disinvoltura, non prendendo minimamente in considerazione l'idea di chiedere un'autorizzazione formale che legittimasse la deroga ad una regola di condotta a lui impartita; 
e. era stato emblematico il comportamento delle quattro vittime del sequestro di persona, le quali non avevano sollevato obiezione alcuna circa il trasferimento terrestre, nell'evidente consapevolezza che esso non si traducesse nella violazione di alcun rigido protocollo.

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Tramite i propri motivi di ricorso, la Società lamentava violazione degli artt. 5, 6 e 25-septies D.Lgs. 231/2001, in relazione all'art. 589 c.p., nonché manifesta carenza e contraddittorietà della motivazione, in relazione all'intervenuta conferma della responsabilità amministrativa dell'ente per il reato di omicidio colposo ai danni dei due lavoratori. Secondo la difesa della società, la responsabilità amministrativa della medesima era stata esclusivamente agganciata, nello schema di ragionamento seguito dalla sentenza impugnata, alla sentenza di patteggiamento pronunciata nei confronti del dirigente, con specifica e valida delega di funzioni rispetto alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori negli stabilimenti siti in Libia. Inoltre, si rilevava come numerosi ed estremamente rilevanti, ai fini della verifica della responsabilità dell'ente, fossero i passaggi della motivazione attraverso i quali la sentenza impugnata era giunta ad escludere la responsabilità penale dei tre soggetti apicali; la Corte territoriale, tuttavia, non aveva tratto le necessarie conseguenze che ne derivavano in tema di responsabilità dell'ente.

In particolare, si sottolineava come la sentenza impugnata avesse dato atto che il consiglio di amministrazione aveva formalmente affidato alla figura del dirigente una valida delega con autonomi poteri di gestione e di spesa, e che questi era una figura professionale di comprovata capacità ed esperienza, che gli venivano riconosciuti anche dai lavoratori sul posto. Anche con riferimento al comportamento tenuto dal Presidente del Consiglio di amministrazione della società, la sentenza impugnata era giunta ad una conclusione liberatoria in merito alla condotta omissiva a lui contestata, consistente nella violazione dell'art. 17 D.Lgs. 81/2008, che impone al datore di lavoro di predisporre un documento di valutazione dei rischi e di assicurare che vi sia uno scambio di informazioni all'interno della struttura aziendale. La pronuncia di secondo grado aveva, infatti, affermato come tale omissione, pur ritenuta astrattamente addebitabile ai componenti del consiglio di amministrazione, non rappresentasse un antecedente causale determinante per la causazione dell'evento; si era dato atto, in particolare, che l'obbligo di informazione era stato adempiuto e che, ancorché non inserito nel documento di valutazione dei rischi, era noto a tutti l'obbligo di accedere al sito del cantiere esclusivamente a mezzo dell'imbarcazione messa a disposizione e finanziata dalla società, e tali prescrizioni erano costantemente rispettate.

Ancora, si sottolineava che, dal tessuto motivazionale della sentenza impugnata,  emergeva come nel caso specifico la scelta del dirigente di disporre il trasferimento via terra era stata frutto di una sua personale iniziativa, del tutto imprevedibile per i componenti del consiglio di amministrazione, tenuto conto della sua elevata esperienza sul campo e del fatto che mediante comunicazione via e-mail era stata specificamente raccomandata l'utilizzazione della via marittima. Pertanto, non si comprendeva come tali premesse, che erano state ritenute idonee ad escludere la responsabilità penale dei membri del consiglio di amministrazione, compreso quello dotato di poteri operativi, non fossero state ritenute ostative al riconoscimento della responsabilità dell'ente.

Sul piano strettamente giuridico-interpretativo, la difesa della società ricordava come la più recente giurisprudenza di legittimità, al fine di evitare che la responsabilità dell'ente fosse formalisticamente e automaticamente dedotta, in base a schemi logico-presuntivi, che richiamano il paradigma della responsabilità oggettiva, dal fatto che un reato è stato commesso nell'ambito dell'organizzazione societaria, avesse esplicitamente affermato la necessità che l'accertamento della responsabilità dell'ente seguisse un percorso di natura sostanziale; esso, a somiglianza di quanto ritenuto in relazione alla responsabilità delle persone fisiche - e indipendentemente dalla formale presenza di un modello organizzativo efficace e correttamente implementato - dovrebbe essere volto ad accertare l'esistenza in concreto di una "colpa di organizzazione", rispetto alla quale il reato commesso si ponga in stretto ed univoco rapporto di derivazione causale. Si trattava, cioè, proprio di quegli elementi di cui, nel caso in esame, la sentenza impugnata, valutando la responsabilità delle persone fisiche, aveva escluso l'esistenza a carico dei componenti del consiglio di amministrazione.

Su questa specifica linea - osservava ancora la difesa - si è recentemente attestata anche la sentenza della Quarta Sezione, n. 21704 del 28/03/2023, Sasil Srl.; di tale pronuncia, secondo la difesa della società, la sentenza d'appello non aveva fatto buon governo, non essendosi avveduta che, laddove venga in concreto escluso, come nel caso di specie, non solo ogni profilo di responsabilità sotto forma di colpa di organizzazione a carico dell'organo gestorio, ma anche il nesso di causalità con gli eventi dannosi verificatisi, non può esserci alcuno spazio logico giuridico per ascrivere una responsabilità amministrativa da reato all'ente. In tale ottica, non poteva, dunque, essere ritenuto un caso che il capo di imputazione riferito all'ente, ed in particolare la prospettata responsabilità ex art. 25-septies D. Lgs. 231/2001, fosse basato sull' imputazione, ai componenti dell'organo gestorio, di una cooperazione colposa nel reato commesso, radicalmente esclusa, invece, dalla sentenza impugnata.

La società lamentava, inoltre, che, in punto di responsabilità dell'ente, la sentenza avesse abbandonato la corretta visione sostanzialistica che l'aveva ispirata nella valutazione delle posizioni individuali. Si sottolineava, in particolare, come il provvedimento impugnato avesse, in più parti, riconosciuto che la società aveva in concreto adottato un modello organizzativo perfettamente idoneo a tutelare l'incolumità dei dipendenti, e che le prescrizioni imposte erano state costantemente rispettate. Si evidenziava come quanto detto nella motivazione, in relazione alla penale responsabilità dei componenti del consiglio di amministrazione, circa il carattere del tutto estemporaneo ed imprevedibile della decisione assunta dal dirigente, tanto da ritenerla causa autonoma degli eventi dannosi oggetto dell'imputazione, ed idonea ad interrompere il nesso di causalità con l'operato del consiglio di amministrazione, si ponesse in netta ed insuperabile contraddizione con la ritenuta responsabilità dell'ente.

Ancora, la società sottolineava come non avesse alcun senso parlare, in relazione ai reati colposi, di elusione fraudolenta del modello organizzativo. Si evidenziava, l'infondatezza sul piano giuridico, oltre che la manifesta contraddittorietà sul piano logico, delle ulteriori considerazioni sviluppate dalla sentenza in merito alla ritenuta sussistenza dei criteri di imputazione dell'interesse e del vantaggio di cui all'articolo 5 D.Lgs. 231/2001. Anche su tale punto, la sentenza impugnata non aveva fatto buon governo della predetta giurisprudenza della Quarta Sezione Penale della Suprema Corte, quanto al collegamento finalistico tra violazione ed interesse dell'ente. Sul punto, l'evidente insufficienza e contraddittorietà della motivazione riguardava non solo e non tanto la mancata verifica dei suddetti criteri in relazione ad un vantaggio che era senz'altro esiguo e non apprezzabile, quanto piuttosto la mancata considerazione delle argomentazioni con le quali, nella prima parte della sentenza, si era sottolineato come la violazione commessa dal dirigente non solo era isolata, ma si poneva in chiaro contrasto con una procedura imposta dalle direttive dell'ente, di cui il delegato era soggetto pienamente consapevole. La circostanza che i requisiti dell'interesse e del vantaggio debbano essere valutati nel contesto generale dei fatti, ed in stretto collegamento con le verifiche relative alla sussistenza o meno di una colpa di organizzazione, dando cosi rilevanza anche al carattere sporadico o meno della violazione, trova inoltre conferma, rilevava la ricorrente, in Sez. 4, n. 33976/2022, Cantina Sociale Bartolomeo da Breganze, la quale ha confermato i principi già affermati da Sez. 4 n. 22256/2021, Canzonetti, secondo cui dev'essere escluso il profilo dell'interesse o del vantaggio - e quindi la responsabilità dell'ente - ove la violazione si collochi in un contesto di generale osservanza da parte dell'impresa delle disposizioni in materia di sicurezza.

La società denunciava, in definitiva, le contraddizioni tra la prima e la seconda parte della motivazione, laddove si era sottolineata la riconosciuta esistenza delle prescrizioni impartite dalle posizioni apicali dell'ente, la comprovata capacità professionale ed esperienza del dirigente, che vantava una conoscenza pluridecennale del territorio libico e dei precari equilibri socio politici che lo attraversavano, per poi affermare che mancavano norme sanzionatorie a presidio delle procedure di sicurezza, affermazione da considerarsi frutto della mancata valutazione dei motivi d'appello, nell'ambito dei quali si era dimostrato per tabulas che il sistema sanzionatorio esisteva, ed era stato nel caso di specie anche concretamente attivato, tanto che il dirigente, a seguito del grave incidente di cui all'imputazione, era stato dapprima cautelativamente sospeso dall'incarico e poi sottoposto a procedimento disciplinare, all'esito del quale era stato destituito dall'incarico stesso ed assegnato ad altra mansione, di minor rilevanza, tanto da un punto di vista organizzativo che remunerativo.

La decisione.

La Suprema Corte ha, in primis, osservato come, astrattamente, una responsabilità amministrativa ex art. 25-septies D.Lgs. 231/2001, alla luce della prospettazione accusatoria, poteva, nel caso di specie, porsi. Tale norma, infatti, prevede la responsabilità amministrativa dell'ente in relazione al delitto di cui all'articolo 589 c.p., commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro; nel caso di specie, tra le altre omissioni, risultava contestata ai componenti del c.d.a. della società proprio la violazione dell'art. 17 D.Lgs. 81/2008, che impone al datore di lavoro di predisporre il documento di valutazione dei rischi previsto dall'art. 28 e di assicurare che vi sia uno scambio di informazioni all'interno della struttura aziendale. Tuttavia, ha osservato il Collegio, la società ed il suo c.d.a. avevano adottato un modello organizzativo atto a prevenire anche il rischio poi tragicamente concretizzatosi con la morte in Libia dei due tecnici. Ed avevano anche operato affinché le prescrizioni organizzative, che volevano come tassativa la previsione dell'utilizzo della nave per gli spostamenti dal luogo di atterraggio in Tunisia, fossero adempiute dal dirigente.

Tanto premesso, si è osservato, il D.Lgs. 231/2001 pone a carico dell'impresa una responsabilità amministrativa in dipendenza di determinati reati commessi da propri amministratori, dirigenti e dipendenti, qualora realizzati nell'interesse o a vantaggio dell'impresa stessa. L'autore o gli autori del reato devono essere soggetti apicali, definiti dalla normativa come: "persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione, o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso ovvero da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di questi". Nel caso di specie, tali erano certamente i componenti del consiglio di amministrazione, ma anche l'operation manager coimputato.

Inoltre, ha ancora premesso la Corte, l'interesse dell'ente, indispensabile affinché possa ravvisarsi la responsabilità amministrativa ex D.Lgs. 231/2001, deve escludersi, anche in via astratta, quando uno dei soggetti sopra individuati abbia agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi, in quanto ciò determina la rottura dello schema di immedesimazione organica, e l'illecito commesso è certamente un vantaggio fortuito, non attribuibile alla volontà giuridica dell'ente, pur potendo tornare a suo vantaggio. Nel caso in esame, alcuno dei dipendenti della società, imputati nel presente processo, risultava aver perseguito un interesse proprio.

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Accertata la configurabilità in astratto di una responsabilità ex art. 25-septies D.Lgs. 231/2001, a carico della società, i giudici di legittimità hanno tuttavia ritenuto la medesima, in concreto, insussistente, in quanto l'ente non è responsabile quando abbia adottato, prima della commissione dell'illecito, un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire la commissione dello stesso. La sentenza d'appello era, dunque, incorsa in errore nell'inferire la responsabilità dell'ente dallo sporadico comportamento tenuto dal dirigente imputato - ovvero da una figura apicale avente autonomi poteri di gestione e di spesa - di trasgressione alle prescrizioni ricevute.

La Suprema Corte ha, pertanto, ritenuto fondato il ricorso dell'ente, che denunciava una palese e grave contraddizione tra le affermazioni che i giudici capitolini avevano operato nella prima parte della sentenza - e che ponevano a fondamento dell'assoluzione dell'intero consiglio di amministrazione della società - e la ritenuta responsabilità amministrativa dell'ente di cui alla seconda parte della motivazione. La sentenza impugnata, infatti, aveva riconosciuto come sussistesse, e fosse nota anche a tutti i lavoratori della società, la sussistenza di un obbligo, a fini di sicurezza, una volta atterrati in Tunisia, di portarsi presso il cantiere in Libia con la nave messa a disposizione dalla società e non via terra; nel corso del giudizio, era inoltre emerso come tale obbligo venisse generalmente adempiuto. Lo stesso dirigente, in più occasioni, nel corso del procedimento penale, aveva, peraltro, riconosciuto di aver personalmente assunto la decisione di far viaggiare via terra i quattro tecnici, aggiungendo che era la prima volta che disponeva che i dipendenti della società effettuassero il trasporto via terra.

Nel corso del giudizio, si era dunque accertato il costante rispetto delle prescrizioni richiamate, alle quali era prassi attenersi, pur in presenza di condizioni metereologiche che obbligavano a ritardare di diversi giorni la navigazione. Inoltre, si è rilevato come anche il personale della società, e non solo i soggetti in posizione gerarchicamente sovraordinata, cui tali comunicazioni venivano rivolte, fosse stato reso edotto della necessarietà di siffatta modalità di spostamento.

Altra circostanza accertata era, inoltre, quella per cui il dirigente fosse dotato di una valida delega da parte del consiglio di amministrazione della società in tema di sicurezza dei lavoratori in Libia, e che fosse soggetto dotato di autonomia di spesa, oltre che avente la necessaria professionalità per adempiere a tale compito. La stessa sentenza d'appello aveva riconosciuto come la condotta del dirigente, nella tragica occasione che aveva innescato gli eventi di cui all'imputazione, non fosse prevedibile, da parte dei componenti del consiglio di amministrazione. Si era, infatti, affermato come la decisione del dirigente di spostare i quattro lavoratori mediante un'autovettura fosse da ritenersi frutto di una sua personale iniziativa, non concordata con alcuno.

Ciò posto, ha rilevato la Suprema Corte, la Corte territoriale, nell'affermare la responsabilità dell'ente ai sensi delle legge 231/2001, non aveva fatto buon governo della più recente giurisprudenza di legittimità - già segnalata dalla difesa della società - che, al fine di evitare che la responsabilità dell'ente sia formalisticamente e automaticamente dedotta, in base a schemi logico-presuntivi, che richiamano il paradigma della responsabilità oggettiva, dal fatto che un reato è stato commesso nell'ambito dell'organizzazione societaria, ha esplicitamente ribadito, rispetto a quanto già comunque affermato in precedenza, la necessità che l'accertamento della responsabilità dell'ente segua un percorso di natura sostanziale (lo stesso applicato dalla sentenza impugnata nella prima parte della motivazione, che aveva portato all'assoluzione dei componenti del c.d.a.), che, a somiglianza di quanto accade nel campo della responsabilità delle persone fisiche, e indipendentemente dalla formale presenza di un modello organizzativo efficace e correttamente implementato, accerti l'esistenza in concreto di una "colpa di organizzazione" rispetto alla quale il reato che è stato commesso si ponga in stretto ed univoco rapporto di derivazione causale. Trattasi, cioè, proprio di quegli elementi di cui, nel caso di specie, la sentenza impugnata, valutando la responsabilità delle persone fisiche, aveva escluso l'esistenza.

Su questa specifica linea, ha rilevato la Corte, si è attestata anche Sez. 4. n. 21704 del 28/03/2023, Sasil Srl., secondo cui: "La responsabilità da reato degli enti rappresenta un modello di responsabilità che, coniugando i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo, ha finito con il configurare un tertium genus, compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza e i criteri d'imputazione oggettiva di essa (Sez. U., n. 38343 del 24.4.2014, Espenhahn, Rv. 261112). Inoltre, il legislatore ha previsto specifici criteri di imputazione di tale responsabilità, l'interesse o il vantaggio di cui all'art. 5 del D.Lgs. 231 del 2001, che sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il primo esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, il secondo ha connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dall'illecito (Sez. U., n. 38343/2014, cit., Rv. 261114). Tuttavia, proprio nel caso di responsabilità degli enti ritenuta in relazione a reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica, il S.C. ha precisato che la "colpa di organizzazione" deve intendersi in senso normativo ed è fondata sul rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individui i rischi e delinei le misure atte a contrastarli (Sez. U, n. 38343/2014, cit., Rv. 261113)".

Secondo tale indirizzo ermeneutico, che i giudici di legittimità hanno ritenuto di condividere, per non svuotare di contenuto la previsione normativa che ha inserito nel novero di quelli che fondano una responsabilità dell'ente anche i reati colposi, posti in essere in violazione della normativa antinfortunistica (il sopra ricordato art. 25-septies del D.Lgs. 231 del 2001 a proposito del quale, riguardando reati colposi, la Corte ha ritenuto eccentrico il riferimento che i giudici di merito avevano operato al fatto che la condotta del dirigente non si fosse risolta in un aggiramento subdolo e occulto delle prescrizioni del modello organizzativo, ma si fosse esplicitata in una violazione frontale e diretta delle prescrizioni del modello organizzativo, commessa in modo palese e non occulto", ritenuto solo il primo atto ad escludere la responsabilità dell'ente), si è peraltro chiarito, in via interpretativa, che i citati criteri di imputazione oggettiva vanno riferiti alla condotta del soggetto agente e non all'evento, in conformità alla diversa conformazione dell'illecito, essendo possibile che l'agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l'evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell'ente. A maggior ragione, vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare ed esito vantaggioso per l'ente (in motivazione, Sez. U. n. 38343 del 2014, cit.).

Apodittica, e viziata da una non corretta valutazione ex post, è stata, inoltre, ritenuta l'affermazione per cui il modello organizzativo della società non avesse superato positivamente un giudizio di idoneità ad annullare il rischio di commissione del reato presupposto nella dimensione aziendale. Si è infatti osservato come, ai fini della configurabilità della responsabilità da reato degli enti, non sono ex se sufficienti la mancanza o inidoneità degli specifici modelli di organizzazione o la loro inefficace attuazione, essendo necessaria la dimostrazione, per l'appunto, della "colpa di organizzazione", che caratterizza la tipicità dell'illecito amministrativo ed è distinta dalla colpa degli autori del reato (Sez. 4, n. 18413 del 15/2/2022, Cartotecnica Grafica Vicentina). Nell'affermare tale principio, si è spiegato in motivazione (richiamando Sez. 4, n. 32899 del 8/1/2021, Castaldo, sul disastro ferroviario di Viareggio) che la struttura dell'illecito addebitato all'ente è incentrata sul reato presupposto, rispetto al quale la relazione funzionale tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente hanno la funzione di rafforzare il rapporto di immedesimazione organica, escludendo che possa essere attribuito a quest'ultimo un reato commesso sì da soggetto incardinato nell'organizzazione, ma per fini estranei agli scopi di questa. Ciò consente di dire, dunque, ha osservato il Collegio, che l'ente risponde per fatto proprio, e che, per scongiurare addebiti di responsabilità oggettiva, deve essere verificata una "colpa di organizzazione" dell'ente, dimostrandosi che non sono stati predisposti accorgimenti preventivi idonei a evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato.

A riscontro di un tale deficit organizzativo, al fine di consentire l'imputazione all'ente dell'illecito penale realizzato nel suo ambito operativo, spetta all'accusa, pertanto, dimostrare l'esistenza dell'illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa dell'ente, e l'avere essa agito nell'interesse del secondo, previa individuazione di precisi canali che colleghino teleologicamente l'azione dell'uno all'interesse dell'altro (in motivazione, Sez. 6, n. 27735 del 18/2/2010, Scarafià).

Tale interpretazione - che la Corte ha ritenuto di ribadire -  in sostanza, attribuisce al requisito della "colpa di organizzazione" dell'ente la stessa funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, cioè di elemento costitutivo del fatto tipico, integrato dalla violazione "colpevole" (ovvero rimproverabile) della regola cautelare. Essa va dimostrata dall'accusa e l'ente può dimostrarne l'assenza, essendo gli elementi costitutivi dell'illecito rappresentati dalla sopra descritta immedesimazione organica "rafforzata", ma anche dalla carenza di un adeguato modello organizzativo, oltre che dal reato presupposto e dal nesso causale tra i due (in motivazione, Sez. 4, n. 18413 del 15/02/2022, Cartotecnica Grafica Vicentina Srl, cit.).

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Tanto premesso, con riguardo al caso di specie, si è rilevato come, al di là della mancata previsione specifica nel DVR, il modello organizzativo esistesse, fosse individuato in specifici documenti resi noti al personale, e fosse comunque atto a prevenire il tipo di rischio poi concretizzatosi a seguito dell'estemporanea iniziativa del dirigente. Quanto all'obbligo di una vigilanza costante sull'operato di quest'ultimo, la Corte ha condiviso quanto affermato dalla difesa, la quale aveva opposto il rilievo che si trattava di un soggetto apicale, con autonomi poteri di gestione e di spesa, rispetto al quale i poteri di controllo societario - a meno di non voler di fatto rendere inutile la concessa delega - non potevano essere gli stessi di un soggetto avente mansioni esecutive.

Contraddittorio è stato quindi ritenuto l'iter argomentativo percorso dai giudici capitolini che, da un lato, avevano sottolineano le enormi dimensioni della società, e dall'altro avevano ritenuto che il c.d.a. dovesse accentrare in sé il diretto controllo, senza operare a mezzo di delegati, rispetto ai trenta Paesi in cui si trovava ad operare.

Né è stato ritenuto comprensibile un sostanziale giudizio di idoneità del modello organizzativo predisposto dalla società, che prevedeva la disponibilità di una nave e il divieto di trasferimenti via terra da e per il cantiere in Libia, ritenendo, di contro, che la società dovesse dotarsi di "protocolli che prevedessero una puntuale formazione del personale rispetto ai rischi esogeni ed endogeni del Paese in cui operavano", di "sistemi di tracciamento dei spostamenti del personale da e per il sito di M" e formare "figure professionali appositamente destinate a garantire la security del personale impiegato nel sito e una specifica procedura per la prevenzione e la gestione di sequestri di persona, eventi assolutamente prevedibili e frequenti in un'area di crisi".

La via percorsa dalla pubblica accusa, e ritenuta valida dalla sentenza impugnata, per ricondurre la responsabilità ex l.231/2001 di quanto fatto dal dirigente alla società, era stata, invero, quella di affermare che, in ogni caso, lo stesso aveva agito nell'interesse ed al fine di realizzare un vantaggio economico per la società. Tale vantaggio economico sarebbe derivato dal rendere più velocemente disponibili i tecnici per il cantiere e, in ogni caso, nel non dover sopportare i costi economici del pernottamento in Tunisia per attendere, di lì a qualche giorno, l'arrivo della nave. La Corte ha ritenuto, pertanto, necessario verificare se questo, considerabile quale interesse della società, potesse essere posto a carico della stessa per l'iniziativa estemporanea di un suo dirigente, presa peraltro in distonia con quelle che erano le pacifiche, conosciute, e fino a quel momento dallo stesso rispettate, disposizioni organizzative sul punto.

In realtà, dal tessuto motivazionale delle due sentenze di merito, ha osservato il Collegio, non emergeva un'urgenza della società di avere a disposizione nel cantiere i tecnici poi rapiti, non essendo stato esplicitato neanche il compito che i gli stessi sarebbero stati destinati a svolgere nel cantiere. Quanto al risparmio di alcune notti in albergo in Tunisia, a fronte peraltro di una nave già approntata di lì a qualche giorno e di un trasbordo a mezzo auto che comunque è stato pagato, si è rilevata la portata irrisoria per una società multinazionale quale quella in questione. Ancora, si è sottolineata la sporadicità della violazione delle prescrizioni impartitegli da parte del dirigente.

Ciò perché, hanno rilevato gli Ermellini, costituisce ormai ius receptum, nei più recenti arresti della giurisprudenza di legittimità, la circostanza che i requisiti dell'"interesse" e del "vantaggio" debbano essere valutati nel contesto generale dei fatti ed in stretto collegamento con le verifiche relative alla sussistenza o meno di una "colpa di organizzazione", dando così rilevanza anche al carattere sporadico o meno della violazione. Sul punto, si legge, in particolare, in Sez. 4, n. 33976, del 30/06/2022, Cantina Sociale Bartolomeo da Breganze S.c.a.r.l., che, per quanto anche un'unica e isolata violazione della norma cautelare possa fondare la responsabilità dell'ente, "il connotato della sistematicità delle violazioni ben può rilevare su un piano strettamente probatorio, quale possibile indice della sussistenza e "consistenza", sul piano economico, del vantaggio, derivante dalla mancata previsione e/o adozione delle dovute misure di prevenzione".

Dunque, pur in assenza di una sistematicità delle violazioni e in presenza di un vantaggio "esiguo" (ipotizzato nel caso in esame sotto il profilo del risparmio di spesa), dev'essere approfondito il rilievo di tali connotazioni oggettive ai fini dell'addebito a carico dell'ente. A tal fine, si è menzionato il dictum di Sez. 4, n. 22256 del 03/03/2021, Canzonetti che, per impedire un'automatica applicazione della norma che ne dilati a dismisura l'ambito di operatività ad ogni caso di mancata adozione di qualsivoglia misura di prevenzione, anche isolata, ha affermato che l'esiguità del risparmio può rilevare per escludere il profilo dell'interesse e/o del vantaggio, e, quindi, la responsabilità dell'ente, ove la violazione si collochi in un contesto di generale osservanza da parte dell'impresa delle disposizioni in materia di sicurezza.

Ancora, la Corte ha ritenuto come la sentenza impugnata non abbia operato un buon governo neanche del dictum di Sez. 4 n. 12149/2021, Rodenghi, quanto al collegamento finalistico tra violazione ed interesse dell'ente e di Sez. 3, n. 20559 del 24/03/2022, Comune di Molfetta c. Balestri, che ha affermato il principio che, in tema di responsabilità amministrativa degli enti derivante dai reati di omicidio colposo plurimo e di lesioni personali aggravate dalla violazione della disciplina antinfortunistica, il criterio di imputazione oggettiva del vantaggio societario può sussistere anche a fronte di una singola condotta illecita, ma ha comunque posto l'accento sul fatto che il vantaggio stesso deve essere oggettivamente apprezzabile (ad esempio in termini di fatturato o di ampliamento dei settori di operatività, ed eziologicamente collegato all'attività societaria).

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Sulla base di tali motivazioni, la Suprema Corte ha pertanto annullato senza rinvio la sentenza impugnata, non essendosi i giudici di merito avveduti che, laddove venga in concreto escluso, come nel caso di specie, non solo ogni profilo di responsabilità sotto forma di colpa di organizzazione a carico dell'organo gestorio, ma anche il nesso di causalità con gli eventi dannosi verificatisi, non può esserci alcuno spazio logico giuridico per ascrivere una responsabilità amministrativa da reato all'ente.
La società non poteva, infatti, rispondere ai sensi della l. 231/2001, del comportamento del proprio dipendente - che, peraltro, aveva prodotto un vantaggio economico non oggettivamente apprezzabile rispetto alle dimensioni societarie - perché aveva adottato un modello di organizzazione e di gestione della sicurezza sul lavoro (art. 30 commi 3 e 4 D.Lgs. 81/2008) che, con una valutazione ex ante necessariamente correlata anche al costante rispetto, fino a quel momento, delle prescrizioni impartite dal suo c.d.a., si era dimostrato idoneo a prevenirlo.