Con la Sentenza n. 7667, pronunciata all'udienza del 13 dicembre 2017 (deposito motivazioni in data 16 febbraio 2018), la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha preso in esame una fattispecie in tema di responsabilità medica, relativa ad una cooperazione colposa tra un chirurgo ed un collega più anziano.
Il giudizio di legittimità ha tratto origine dai ricorsi presentati separatamente da due imputati avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello di Potenza, a fronte del ricorso del Pubblico Ministero e della Parte Civile, aveva riformato la sentenza di assoluzione nei confronti di uno dei due medici, confermando invece la sentenza di condanna emessa nei confronti dell'altro.
Ai due ricorrenti era stato contestato il reato di cui agli artt. 113 e 589 c.p.: essi, in servizio quali medici di un reparto di Ostetricia e Ginecologia, avrebbero cagionato, per colpa generica e specifica (consistente nella violazione delle leges artis), la morte di una paziente per emorragia intraddominale determinata da una lesione non suturata del segmento inferiore destro della parete uterina, conseguente al parto cesareo, cui la donna era stata sottoposta dal medico che l'aveva in cura, e con l'assistenza del medico di guardia presso l'ospedale. Il Tribunale di Matera aveva assolto per non aver commesso il fatto il medico di guardia, condannando invece il collega.
Per quanto qui di interesse, è utile riassumere brevemente i motivi posti a fondamento del ricorso proposto dal medico di guardia. In esso, si era sostenuto come la condanna pronunciata dalla Corte d'Appello non si fosse confrontata con le argomentazioni difensive e risultasse contraria al quadro probatorio emerso in dibattimento.
Si affermava infatti come l'imputato avesse rispettato le leges artis, nell'adeguarsi a quanto gli era stato ordinato, senza violazione di leggi, regolamenti o linee guida in materia. Egli infatti aveva controllato in reparto la paziente alle 3.00 di notte circa, trovandola tranquilla, cosciente, orientata e collaborativa. Solo dopo circa mezz'ora aveva invece trovato la donna in squilibrio totale, richiedendo quindi l'intervento dell'anestesista rianimatore. Data la situazione di instabilità e la conseguente impossibilità di intervenire, aveva contattato il collega che aveva in cura la paziente, il quale aveva proceduto con taglio cesareo senza effettuare successivamente alcun intervento chirurgico.
Nella motivazione del ricorso si era quindi affermato come il medico di guardia, assistente e medico meno esperto, non avrebbe in alcun modo potuto interferire con la decisione del collega più esperto, unico responsabile dell'intervento chirurgico, sussistendo dunque una responsabilità di anzianità e di primario. Dunque, la condotta dell'imputato non avrebbe dovuto essere considerata colposa, dovendosi ricondurre l'evento mortale alla condotta del collega, il quale aveva proceduto con parto cesareo anziché naturale e poi aveva deciso di non procedere ad intervento di isterectomia: campo, questo, nel quale il medico di guardia non poteva avere adeguate cognizioni, atteso il notevole livello di complessità.
La Suprema Corte ha innanzitutto affermato come fosse stato accertato nel giudizio di merito che, all'esito del parto cesareo, e dopo la prescrizione di un emocromo di controllo, il medico che aveva in cura la paziente si era allontanato dall'ospedale. Pervenuti gli esiti dell'esame alle ore 2.21, il medico di guardia aveva disposto di rinnovarli dopo 4 ore, tenendo la paziente sotto osservazione, e aveva chiesto di essere avvisato in caso di necessità. Alle ore 3,30 le condizioni della donna si erano notevolmente aggravate, versando ella in stato di "shock, distress respiratorio, sindrome dispnoica e sudorazione profusa"; era stato dunque richiesto l'intervento del medico anestesista di turno, il quale, trovando la paziente ipotesa, tachicardica, con diuresi contratta e iperglicemica, aveva constatato la necessità della somministrazione di insulina. Inoltre, l'anestesista aveva disposto il trasferimento della paziente nella sala travaglio, dove essa veniva intubata e sottoposta ad EGA, da cui risultava un valore di emoglobina tale da rendere necessaria una trasfusione dapprima con due sacche di sangue e successivamente con ulteriori otto.
Avvisato il medico che aveva proceduto al taglio cesareo, il quale era rientrato in ospedale alle ore 4.20, quest'ultimo aveva deciso di non rioperare la paziente, ma di procedere ad un'ecografia il cui esito lo convinceva successivamente dell'assenza di sangue nell'addome. Infine, alle 6.45 era sopraggiunta un'altra crisi con bradicardia e desaturazione; il primario di chirurgia procedeva dunque ad intervento chirurgico, rinvenendo sangue nella cavità addominale, in quantità tale da costringere al posizionamento di tappi compressi nello spazio prevescicale, con applicazione di punti di sutura a tutto spessore a livello del decorso delle arterie uterine e sulla breccia chirurgica. Tuttavia, stante la gravità della situazione, ormai compromessa, la paziente era deceduta alle ore 9.30.
Per quanto concerne il ricorso del medico di guardia, la Corte ha osservato innanzitutto come la Corte d'Appello non avesse condiviso il fondamento dell'assoluzione nel giudizio di primo grado, consistente nella considerazione per cui "la scelta di richiedere l'intervento del collega doveva ritenersi corretta, in quanto questi ,meglio di chiunque altro, poteva valutare la situazione di emergenza in atto e decidere se e come intervenire".
Tale assunto doveva infatti, secondo la Corte d'Appello, ritenersi erroneo, atteso che le circostanze per cui il collega avesse maggiore anzianità di servizio, avesse seguito la paziente in gravidanza e scelto il parto cesareo anziché quello naturale, non potevano essere considerate esimenti: il medico di guardia aveva infatti la stessa specializzazione in ostetricia e ginecologia ed avrebbe dunque dovuto rendersi conto della gravità ed urgenza della situazione. Pertanto, egli, invece di fare "acritico affidamento sulla correttezza della condotta professionale del collega", avrebbe dovuto valutare la situazione della paziente nel lasso di tempo in cui ne era stato esclusivo garante e disporre l'intervento salvifico, peraltro sollecitato altresì dall'anestesista contattato dall'imputato a fronte delle gravi condizioni della donna. Tale intervento, assolutamente urgente, avrebbe impedito la morte della paziente, senza comportare rilevanti rischi per la salute della medesima.
In secondo luogo, la Corte d'Appello aveva riscontrato un errore diagnostico nella condotta del medico di guardia, il quale non aveva riconosciuto l'emorragia in atto, pur a fronte della diminuzione di globuli rossi, emoglobina ed ematocrito: indici, questi ultimi, di fronte ai quali l'imputato avrebbe dovuto optare per il predetto intervento di isterectomia, previa, eventualmente, effettuazione di una TAC che avrebbe consentito di accertare la perdita in atto.
Da ciò era stato dunque riconosciuto nel giudizio di merito un errore terapeutico del medico, con conseguente responsabilità per l'evento mortale: egli infatti aveva assunto una posizione di garanzia nei confronti della paziente fin dal momento in cui il collega aveva lasciato l'ospedale. Pur quindi in possesso delle necessarie cognizioni tecniche, non aveva adottato alcuna iniziativa tra le ore 2.21 e le ore 4.15, mentre la paziente versava in stato precomatoso, eseguendo ulteriori esami ematochimici soltanto alle ore 4.59, a fronte dello stato di acidosi metabolica e di shock emorragico acuto della paziente.
La Suprema Corte ha quindi rilevato come la Corte d'Appello, nel ribaltare la sentenza assolutoria, abbia rispettato l'onere motivazionale richiesto dalla giurisprudenza di legittimità delle SS.UU. in materia, la quale, nel rispetto del canone "al di là di ogni ragionevole dubbio" ex art. 533 c.p.p., richiede a tal fine non "una mera diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, occorrendo una "forza persuasiva superiore", tale da far venire meno ogni ragionevole dubbio". E' quindi necessario a tal fine che siano utilizzati argomenti dirimenti, che rendano evidente l'errore della sentenza assolutoria, da considerarsi non razionalmente sostenibile.
I giudici di legittimità hanno infatti osservato come la Corte d'Appello avesse legittimamente ritenuto colposa la scelta dell'imputato, invalsa nella prassi dell'ospedale, di chiedere l'intervento del collega ed attenderne l'arrivo senza adottare alcuna scelta terapeutica. Il medico ha infatti in tal modo "abdicato ai propri doveri di medico ed agli obblighi su di lui gravanti in considerazione della posizione di garanzia rivestita, così da contribuire con indubbia efficacia causale alla verificazione dell'evento". Ciò a fronte dell'indubbia considerazione per cui "la relazione terapeutica tra medico e paziente è fonte della posizione di garanzia che il primo assume nei confronti del secondo, e da cui deriva l'obbligo di attivarsi a tutela della salute e della vita".
D'altra parte - ha aggiunto la Corte - non può essere invocato il principio di affidamento, attesa la circostanza per cui lo stesso imputato versava in colpa con la sua condotta: "non può parlarsi di affidamento quando colui che si affida sia in colpa per avere violato determinate norme precauzionali o per avere omesso determinate condotte e, ciononostante, confidi che altri, che gli succede nella stessa posizione di garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione, con la conseguenza che qualora, anche per l'omissione del successore, si produca l'evento che una certa azione avrebbe dovuto e potuto impedire, esso avrà due antecedenti causali, non potendo il secondo configurarsi come fatto eccezionale, sopravvenuto, sufficiente da solo a produrre l'evento".
Inoltre, in tema di cooperazione multidisciplinare, la giurisprudenza ha avuto modo di affermare come ogni medico abbia, anche in caso di cooperazione non contestuale, l'obbligo di rispettare non solo i canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, ma anche gli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico.
Pertanto, ogni sanitario è tenuto a "conoscere e valutare l'attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio". D'altro canto, ha spiegato la Corte, non può invocare il principio di affidamento il medico che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l'altrui condotta colposa: "allorquando il garante precedente abbia posto in essere una condotta colposa che abbia avuto efficacia causale nella determinazione dell'evento, unitamente alla condotta colposa del garante successivo, persiste la responsabilità anche del primo in base al principio di equivalenza delle cause, a meno che possa affermarsi l'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che deve avere carattere di eccezionalità ed imprevedibilità, ciò che si verifica solo allorquando la condotta sopravvenuta abbia fatto venire meno la situazione di pericolo originariamente provocata o l'abbia in tal modo modificata da escludere la riconducibilità al precedente garante della scelta operata".
Nella fattispecie oggetto del giudizio, dunque, non vi è dubbio per la Corte che il medico di guardia, che ha avuto in carico esclusivo la paziente per un considerevole lasso di tempo, a fronte di chiari segni dell'emorragia in corso, avrebbe dovuto intervenire, disponendo eventualmente una TAC mediante la quale accertare le cause della perdita di sangue segnalata dai valori enfatici.
D'altro lato - hanno affermato i giudici di legittimità - l'evento mortale non può certo essere ricondotto in via esclusiva alla condotta del collega più anziano che aveva deciso di non intervenire: come osservato infatti nella sentenza impugnata, i due sanitari avevano la medesima specializzazione né può dirsi fondata la tesi per cui l'imputato possa essere esonerato da responsabilità solo perché meno anziano e quindi legittimato a fidarsi acriticamente della condotta del collega; l'imputato avrebbe invece dovuto valutare e contrastare tale condotta, stanti le gravissime condizioni di salute della paziente.
Infine, la Corte ha preso in esame altresì la figura dell'assistente ospedaliero, pertinente nella vicenda in esame, ed ha ricordato quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità a proposito della responsabilità di tale soggetto in relazione ad elementi di sospetto che riconosca nella condotta del primario e dei superiori: "l'assistente ospedaliero collabora con il primario e con gli aiuti nei loro compiti, deve seguire le direttive organizzative dei superiori, ha la responsabilità degli ammalati a lui affidati e provvede direttamente nei casi di urgenza. Egli, nella qualità di collaboratore del primario e degli aiuti, non è tenuto, nella cura dei malati, ad un pedissequo ed acritico atteggiamento di sudditanza verso gli altri sanitari perchè, qualora ravvisi elementi di sospetto percepiti o percepibili con la necessaria diligenza e perizia, ha il dovere di segnalarli e di esprimere il proprio dissenso e, solo a fronte di tale condotta, potrà rimanere esente da responsabilità se il superiore gerarchico non ritenga di condividere il suo atteggiamento".
Il ricorso è stato dunque rigettato dalla Corte, essendosi limitato a proporre una lettura delle risultanze istruttorie acquisite nel corso del giudizio difforme rispetto alla complessiva ricostruzione operata nella sentenza impugnata e a dedurre i soli elementi astrattamente idonei a supportare un'alternativa rappresentazione del fatto, senza farsi carico della complessiva riconfigurazione dell'intera vicenda sottoposta a giudizio.
Per completezza, giova osservare come anche il ricorso proposto dal medico che aveva in cura la paziente sia stato ritenuto infondato, essendo emerso in giudizio come, al momento del rientro in ospedale dell'imputato, il quadro clinico deponesse chiaramente per l'esistenza di un'emorragia in corso e la paziente fosse ancora operabile con un intervento che avrebbe impedito l'evento mortale. Dunque, la scelta di non intervenire è stata considerata dalla Corte un errore diagnostico non giustificabile in base all'esito dell'ecografia effettuata, sulla cui tecnica di esecuzione erano stati posti peraltro dubbi dai consulenti di parte e, anche a prescindere dall'esito dell'esame strumentale, la perdita ematica in corso avrebbe dovuto essere riconosciuta in base a specifici segni chiaramente indicativi di essa.
Pertanto, si è ritenuto che il decesso della paziente sia avvenuto in conseguenza della condotta omissiva del medico, avendo egli sottovalutato e male interpretato i dati clinici.
Avvisato il medico che aveva proceduto al taglio cesareo, il quale era rientrato in ospedale alle ore 4.20, quest'ultimo aveva deciso di non rioperare la paziente, ma di procedere ad un'ecografia il cui esito lo convinceva successivamente dell'assenza di sangue nell'addome. Infine, alle 6.45 era sopraggiunta un'altra crisi con bradicardia e desaturazione; il primario di chirurgia procedeva dunque ad intervento chirurgico, rinvenendo sangue nella cavità addominale, in quantità tale da costringere al posizionamento di tappi compressi nello spazio prevescicale, con applicazione di punti di sutura a tutto spessore a livello del decorso delle arterie uterine e sulla breccia chirurgica. Tuttavia, stante la gravità della situazione, ormai compromessa, la paziente era deceduta alle ore 9.30.
Per quanto concerne il ricorso del medico di guardia, la Corte ha osservato innanzitutto come la Corte d'Appello non avesse condiviso il fondamento dell'assoluzione nel giudizio di primo grado, consistente nella considerazione per cui "la scelta di richiedere l'intervento del collega doveva ritenersi corretta, in quanto questi ,meglio di chiunque altro, poteva valutare la situazione di emergenza in atto e decidere se e come intervenire".
Tale assunto doveva infatti, secondo la Corte d'Appello, ritenersi erroneo, atteso che le circostanze per cui il collega avesse maggiore anzianità di servizio, avesse seguito la paziente in gravidanza e scelto il parto cesareo anziché quello naturale, non potevano essere considerate esimenti: il medico di guardia aveva infatti la stessa specializzazione in ostetricia e ginecologia ed avrebbe dunque dovuto rendersi conto della gravità ed urgenza della situazione. Pertanto, egli, invece di fare "acritico affidamento sulla correttezza della condotta professionale del collega", avrebbe dovuto valutare la situazione della paziente nel lasso di tempo in cui ne era stato esclusivo garante e disporre l'intervento salvifico, peraltro sollecitato altresì dall'anestesista contattato dall'imputato a fronte delle gravi condizioni della donna. Tale intervento, assolutamente urgente, avrebbe impedito la morte della paziente, senza comportare rilevanti rischi per la salute della medesima.
In secondo luogo, la Corte d'Appello aveva riscontrato un errore diagnostico nella condotta del medico di guardia, il quale non aveva riconosciuto l'emorragia in atto, pur a fronte della diminuzione di globuli rossi, emoglobina ed ematocrito: indici, questi ultimi, di fronte ai quali l'imputato avrebbe dovuto optare per il predetto intervento di isterectomia, previa, eventualmente, effettuazione di una TAC che avrebbe consentito di accertare la perdita in atto.
Da ciò era stato dunque riconosciuto nel giudizio di merito un errore terapeutico del medico, con conseguente responsabilità per l'evento mortale: egli infatti aveva assunto una posizione di garanzia nei confronti della paziente fin dal momento in cui il collega aveva lasciato l'ospedale. Pur quindi in possesso delle necessarie cognizioni tecniche, non aveva adottato alcuna iniziativa tra le ore 2.21 e le ore 4.15, mentre la paziente versava in stato precomatoso, eseguendo ulteriori esami ematochimici soltanto alle ore 4.59, a fronte dello stato di acidosi metabolica e di shock emorragico acuto della paziente.
La Suprema Corte ha quindi rilevato come la Corte d'Appello, nel ribaltare la sentenza assolutoria, abbia rispettato l'onere motivazionale richiesto dalla giurisprudenza di legittimità delle SS.UU. in materia, la quale, nel rispetto del canone "al di là di ogni ragionevole dubbio" ex art. 533 c.p.p., richiede a tal fine non "una mera diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, occorrendo una "forza persuasiva superiore", tale da far venire meno ogni ragionevole dubbio". E' quindi necessario a tal fine che siano utilizzati argomenti dirimenti, che rendano evidente l'errore della sentenza assolutoria, da considerarsi non razionalmente sostenibile.
I giudici di legittimità hanno infatti osservato come la Corte d'Appello avesse legittimamente ritenuto colposa la scelta dell'imputato, invalsa nella prassi dell'ospedale, di chiedere l'intervento del collega ed attenderne l'arrivo senza adottare alcuna scelta terapeutica. Il medico ha infatti in tal modo "abdicato ai propri doveri di medico ed agli obblighi su di lui gravanti in considerazione della posizione di garanzia rivestita, così da contribuire con indubbia efficacia causale alla verificazione dell'evento". Ciò a fronte dell'indubbia considerazione per cui "la relazione terapeutica tra medico e paziente è fonte della posizione di garanzia che il primo assume nei confronti del secondo, e da cui deriva l'obbligo di attivarsi a tutela della salute e della vita".
D'altra parte - ha aggiunto la Corte - non può essere invocato il principio di affidamento, attesa la circostanza per cui lo stesso imputato versava in colpa con la sua condotta: "non può parlarsi di affidamento quando colui che si affida sia in colpa per avere violato determinate norme precauzionali o per avere omesso determinate condotte e, ciononostante, confidi che altri, che gli succede nella stessa posizione di garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione, con la conseguenza che qualora, anche per l'omissione del successore, si produca l'evento che una certa azione avrebbe dovuto e potuto impedire, esso avrà due antecedenti causali, non potendo il secondo configurarsi come fatto eccezionale, sopravvenuto, sufficiente da solo a produrre l'evento".
Inoltre, in tema di cooperazione multidisciplinare, la giurisprudenza ha avuto modo di affermare come ogni medico abbia, anche in caso di cooperazione non contestuale, l'obbligo di rispettare non solo i canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, ma anche gli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico.
Pertanto, ogni sanitario è tenuto a "conoscere e valutare l'attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio". D'altro canto, ha spiegato la Corte, non può invocare il principio di affidamento il medico che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l'altrui condotta colposa: "allorquando il garante precedente abbia posto in essere una condotta colposa che abbia avuto efficacia causale nella determinazione dell'evento, unitamente alla condotta colposa del garante successivo, persiste la responsabilità anche del primo in base al principio di equivalenza delle cause, a meno che possa affermarsi l'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che deve avere carattere di eccezionalità ed imprevedibilità, ciò che si verifica solo allorquando la condotta sopravvenuta abbia fatto venire meno la situazione di pericolo originariamente provocata o l'abbia in tal modo modificata da escludere la riconducibilità al precedente garante della scelta operata".
Nella fattispecie oggetto del giudizio, dunque, non vi è dubbio per la Corte che il medico di guardia, che ha avuto in carico esclusivo la paziente per un considerevole lasso di tempo, a fronte di chiari segni dell'emorragia in corso, avrebbe dovuto intervenire, disponendo eventualmente una TAC mediante la quale accertare le cause della perdita di sangue segnalata dai valori enfatici.
D'altro lato - hanno affermato i giudici di legittimità - l'evento mortale non può certo essere ricondotto in via esclusiva alla condotta del collega più anziano che aveva deciso di non intervenire: come osservato infatti nella sentenza impugnata, i due sanitari avevano la medesima specializzazione né può dirsi fondata la tesi per cui l'imputato possa essere esonerato da responsabilità solo perché meno anziano e quindi legittimato a fidarsi acriticamente della condotta del collega; l'imputato avrebbe invece dovuto valutare e contrastare tale condotta, stanti le gravissime condizioni di salute della paziente.
Infine, la Corte ha preso in esame altresì la figura dell'assistente ospedaliero, pertinente nella vicenda in esame, ed ha ricordato quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità a proposito della responsabilità di tale soggetto in relazione ad elementi di sospetto che riconosca nella condotta del primario e dei superiori: "l'assistente ospedaliero collabora con il primario e con gli aiuti nei loro compiti, deve seguire le direttive organizzative dei superiori, ha la responsabilità degli ammalati a lui affidati e provvede direttamente nei casi di urgenza. Egli, nella qualità di collaboratore del primario e degli aiuti, non è tenuto, nella cura dei malati, ad un pedissequo ed acritico atteggiamento di sudditanza verso gli altri sanitari perchè, qualora ravvisi elementi di sospetto percepiti o percepibili con la necessaria diligenza e perizia, ha il dovere di segnalarli e di esprimere il proprio dissenso e, solo a fronte di tale condotta, potrà rimanere esente da responsabilità se il superiore gerarchico non ritenga di condividere il suo atteggiamento".
Il ricorso è stato dunque rigettato dalla Corte, essendosi limitato a proporre una lettura delle risultanze istruttorie acquisite nel corso del giudizio difforme rispetto alla complessiva ricostruzione operata nella sentenza impugnata e a dedurre i soli elementi astrattamente idonei a supportare un'alternativa rappresentazione del fatto, senza farsi carico della complessiva riconfigurazione dell'intera vicenda sottoposta a giudizio.
Per completezza, giova osservare come anche il ricorso proposto dal medico che aveva in cura la paziente sia stato ritenuto infondato, essendo emerso in giudizio come, al momento del rientro in ospedale dell'imputato, il quadro clinico deponesse chiaramente per l'esistenza di un'emorragia in corso e la paziente fosse ancora operabile con un intervento che avrebbe impedito l'evento mortale. Dunque, la scelta di non intervenire è stata considerata dalla Corte un errore diagnostico non giustificabile in base all'esito dell'ecografia effettuata, sulla cui tecnica di esecuzione erano stati posti peraltro dubbi dai consulenti di parte e, anche a prescindere dall'esito dell'esame strumentale, la perdita ematica in corso avrebbe dovuto essere riconosciuta in base a specifici segni chiaramente indicativi di essa.
Pertanto, si è ritenuto che il decesso della paziente sia avvenuto in conseguenza della condotta omissiva del medico, avendo egli sottovalutato e male interpretato i dati clinici.