La Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 25943, pronunciata all'udienza del 23 maggio 2018 (deposito motivazioni in data 7 giugno 2018), si è pronunciata sulla seguente questione: se la declaratoria di inutilizzabilità di un atto pronunciata dal Giudice dell'Udienza Preliminare precluda, nel successivo giudizio abbreviato, una diversa valutazione di utilizzabilità del medesimo atto da parte del giudice.
Il giudizio di legittimità ha tratto origine dal ricorso presentato da un imputato avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello di Milano aveva confermato la condanna pronunciata nei suoi confronti, in esito alla celebrazione del giudizio abbreviato, per i reati di rapina pluriaggravata e detenzione di sostanza stupefacente.
Per quanto qui di interesse, come primo motivo di ricorso, l'imputato contestava l'inosservanza di norme processuali in relazione all'utilizzazione, da parte della Corte d'Appello, di dichiarazioni spontanee rese dall'indagato alla Polizia Giudiziaria, nonostante le stesse fossero autoindizianti e dichiarate inutilizzabili ai sensi dell'art. 63 c.p.p. da parte del G.U.P. prima della richiesta di celebrazione del rito abbreviato presentata dal ricorrente.
La Suprema Corte ha innanzitutto ribadito come siano utilizzabili nella fase procedimentale (e dunque anche nell'incidente cautelare e nei c.d. riti a prova contratta) le dichiarazioni spontanee rese dalla persona sottoposta ad indagini ed alla polizia giudiziaria ex art. 350 comma 7 c.p.p., all'unica condizione che vi sia certezza che l'indagato abbia scelto di renderle liberamente, dunque in assenza di qualunque coercizione o anche solo sollecitazione.
Viceversa, le dichiarazioni "sollecitate", rese dall'indagato nell'immediatezza dei fatti e in assenza di garanzie difensive non sono, a differenza delle precedenti, assolutamente utilizzabili, neppure a favore del dichiarante stesso.
Da ciò consegue, pertanto, come l'utilizzabilità delle dichiarazioni autoindizianti non sia esclusa, ma debba fondarsi su di un'attenta valutazione della natura spontanea o sollecitata delle stesse; valutazione omessa nella fattispecie sottoposta all'attenzione della Corte.
I giudici di legittimità hanno inoltre osservato come importante rilevanza vada attribuita alla circostanza per cui l'imputato abbia chiesto di accedere al rito abbreviato solo dopo che il giudice di primo grado si sia pronunciato circa l'inutilizzabilità delle dichiarazioni divenute poi oggetto del motivo di ricorso: tale passaggio processuale non è infatti ovviamente indifferente - come osservato dalla Corte - in relazione al giudizio circa l'utilizzabilità delle dichiarazioni in oggetto, in quanto la loro espunzione dal compendio probatorio rappresenta un evento processuale palesemente incidente sulla decisione dell'imputato di accedere al rito abbreviato.
Tanto premesso, la Corte ha poi evidenziato come l'utilizzabilità delle dichiarazioni nel giudizio d'appello debba essere fondata, per i predetti motivi, oltre che sullo scrutinio circa la natura spontanea o sollecitata delle stesse, anche su altri due adempimenti, ossia:
1) "rilevando che l'utilizzabilità delle fonti di prova è sempre sub iudice essendo la massima patologia della prova sottratta alla catena devolutiva";
2) "sottoponendo la valutazione di rinnovata utilizzabilità al contraddittorio delle parti consentendone la valutazione in sede di discussione".
La valutazione circa l'utilizzabilità di prove espunte dal compendio probatorio - ha infatti osservato la Corte - consiste in sostanza in una vera e propria integrazione istruttoria d'ufficio risolventesi in un'immissione, nel predetto compendio accettato dall'imputato come base per l'accertamento della responsabilità, di una prova inizialmente in esso non compresa. Dunque, qualora tale prova venga reimmessa nel compendio probatorio, come accaduto nella fattispecie oggetto del giudizio, la stessa dev'essere necessariamente sottoposta al contraddittorio delle parti, omesso invece nel caso in esame.
Malgrado tale omissione da parte del giudice di merito, la Corte ha tuttavia ritenuto infondato il motivo di ricorso dell'imputato. I giudici di legittimità hanno infatti osservato come nel caso di specie emergesse, dal compendio probatorio risultante dalle due sentenze di merito, come l'accertamento di responsabilità non fosse dipeso dalla prova critica consistente nelle dichiarazioni de quo, ma da altre emergenze investigative: in particolare, gli esiti di una perquisizione e l'analisi di tabulati telefonici.
Il Collegio ha quindi ribadito la consolidata giurisprudenza di legittimità per cui, allorché con il ricorso per cassazione si contesti l'inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di ricorso deve esporre, a pena di inammissibilità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione di tale elemento ai fini della c.d. "prova di resistenza"; dev'essere cioè valutato se le residue risultanze, operata l'espulsione di quella inutilizzabile, siano sufficienti a giustificare il convincimento circa la colpevolezza dell'imputato.
Nella fattispecie in esame, invece, il ricorrente non aveva indicato la decisività della prova, né essa si poteva dire risultante dall'apparato motivazionale delle sentenze di merito, la prima delle quali prescindeva addirittura del tutto da tale prova.
La Suprema Corte, come anticipato, ha pertanto dichiarato infondato tale motivo e, stante l'infondatezza anche degli altri prospettati dall'imputato, ha rigettato il ricorso.