Con l'Ordinanza n. 41737, pronunciata all'udienza del 23 maggio 2018 (deposito motivazioni in data 26 settembre 2018), la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione ha disposto la rimessione degli atti alle Sezioni Unite circa la seguente questione di diritto:
"Se la dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico costituisca o meno prova dichiarativa assimilabile a quella del testimone, rispetto alla quale, se decisiva, il giudice di appello avrebbe la necessità di procedere alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento di essa".
Il giudizio di legittimità ha tratto origine dal ricorso presentato da un imputato avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello di Bologna, in riforma della sentenza di assoluzione pronunciata dal Tribunale di Reggio Emilia, aveva condannato il ricorrente per il reato di rapina pluriaggravata, sulla base, in particolare, di una diversa valutazione della perizia e della consulenza tecnica del Pubblico Ministero
Con il proprio ricorso, l'imputato aveva, tra l'altro, contestato carenza e/o manifesta illogicità della motivazione e violazione dei principi di oralità ed immediatezza di cui all'art. 6 CEDU. Ciò in quanto la Corte d'Appello, nel riformare la sentenza assolutoria di primo grado, oltre a non fornire una compiuta giustificazione logica dell'affermata non condivisibilità della motivazione svolta dal Tribunale, aveva omesso di rinnovare prove decisive assunte nel corso del dibattimento, consistenti, in particolare, nelle dichiarazioni del perito e del consulente tecnico del Pubblico ministero; tali dichiarazioni, secondo il ricorrente, stante la loro assimilabilità alla testimonianza, rientrerebbero nel perimetro concettuale delle prove dichiarative, con la conseguenza per cui l'omissione della loro rinnovazione sarebbe in contrasto con la più recente giurisprudenza nazionale ed europea.
La Suprema Corte ha, innanzitutto, ricordato come le Sezioni Unite, con la nota Sentenza "Dasgupta", pronunciata in data 28 aprile 2016, abbiano affermato come "la previsione, contenuta nell'art. 6, par. 3, lett. d) della CEDU, relativa al diritto dell'imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico, implica che il giudice d'appello, investito dell'impugnazione del Pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, con cui si adduca un'erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell'imputato, senza avere proceduto, anche d'ufficio, ai sensi dell'art. 603 comma 3 c.p.p., a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado."
La violazione di tale adempimento comporta, pertanto, vizio di motivazione della sentenza d'appello, dovendo la rinnovazione istruttoria essere considerata, in questa fattispecie, come "assolutamente necessaria" ai sensi dell'art. 603 comma 3 c.p.p., in virtù dell'esigenza che il convincimento del giudice di appello "replichi l'andamento del giudizio di primo grado, fondandosi su prove dichiarative direttamente assunte".
Nell'ipotesi opposta, quando cioè venga emessa dalla Corte d'Appello una pronuncia di riforma della sentenza di condanna inflitta in primo grado, non è invece necessaria una rinnovazione istruttoria delle prove dichiarative ritenute decisive, salvo il dovere, in capo al giudice d'appello, di una motivazione puntuale ed adeguata, che fornisca "una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva". In questo senso - ha ricordato ancora la Corte - si sono nuovamente pronunciate le Sezioni Unite con la Sentenza n. 14800/2017 "Troise".
Ricostruito in questo modo il tessuto giurisprudenziale in tema di rinnovazione istruttoria nel giudizio d'appello a fronte di una pronuncia di riforma della sentenza di primo grado, la Corte ha poi evidenziato, in relazione alla fattispecie portata alla sua attenzione, come sussistano due opposti orientamenti interpretativi circa la questione dell'equiparazione alle prove dichiarative delle dichiarazioni dei periti e dei consulenti tecnici.
Secondo un primo orientamento, a tale questione andrebbe data risposta positiva, con la conseguente necessità di rinnovazione della prova in caso di riforma della sentenza assolutoria del Tribunale. Si è infatti affermato, in particolare con la Sentenza n. 34843, pronunciata in data 1 luglio 2015 dalla Seconda Sezione Penale della Suprema Corte, che "la funzione svolta dal perito nel processo e l'acquisizione dei risultati a cui l'esperto è giunto nello svolgimento dell'incarico peritale - ossia l'esame in dibattimento secondo le disposizioni sull'esame dei testimoni impongono che la rivalutazione della prova sia preceduta dal riascolto dello stesso". Pertanto, ritenere che si possano rivalutare le prove consistenti in consulenze e perizie omettendo di riascoltare gli autori delle stesse integrerebbe "un chiaro errore sulla natura stessa della prova esaminata". Da ciò deriverebbe un errore metodologico, consistente nella rivalutazione della prova in assenza della rinnovazione istruttoria, con conseguente violazione dell'art. 6 CEDU, così come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo con la Sentenza Dan vs. Moldavia.
Tale orientamento è poi stato ribadito dalla Quarta Sezione Penale con la Sentenza n. 6366 del 6 dicembre 2016, concernente un'ipotesi di omicidio colposo commesso con violazione delle norme del C.d.S.. In tale sentenza, si evidenziava come la Corte d'Appello, avesse omesso di verificare preliminarmente l'incoerenza e l'implausibilità della ricostruzione della dinamica del sinistro effettuata dal Tribunale, e fondata sul medesimo elaborato tecnico poi valutato dal giudice di secondo grado al fine di riformare la pronuncia assolutoria. La Corte d'Appello non aveva disposto la rinnovazione istruttoria, mediante l'audizione dell'ausiliario (le cui affermazioni erano state diversamente interpretate) o attraverso la nomina di un nuovo perito.
Alla medesima conclusione è giunta, negli anni successivi, la stessa Sezione Quarta Penale della Corte dapprima con la Sentenza "Gashi" n. 9400, pronunciata in data 25 gennaio 2017, e poi con la Sentenza "Lumaca", n. 14649, pronunciata in data 21 febbraio 2018.
Lo stesso principio è stato affermato anche in una fattispecie di infortunio sul lavoro, ove è stato ritenuta causa di vizio di motivazione della sentenza d'appello la mancata rinnovazione della prova peritale, sulla cui diversa valutazione da parte del giudice di secondo grado si è fondata la riforma della sentenza assolutoria del Tribunale (Sentenza n. 14654 del 30 marzo 2018, "D'Angelo").
Nella giurisprudenza di legittimità - ha poi osservato la Corte - si è però formato un contrario orientamento, il quale afferma come la prova scientifica non sia affatto equiparabile a quella dichiarativa.
In primo luogo, l'opposta interpretazione è stata sostenuta nella Sentenza "Abruzzo", n. 1691, pronunciata dalla Quinta Sezione Penale della Suprema Corte in data 14 settembre 2016. In essa si è affermato come, pur non essendo in discussione che perito e consulente tecnico assumano in dibattimento la veste di testimoni, la loro posizione non sia totalmente assimilabile al concetto di prova dichiarativa: essi formulano, infatti, un parere tecnico dal quale il giudice può discostarsi, pur dovendo argomentare la propria diversa opinione. Non è quindi casuale che nella motivazione della Sentenza "Dasgupta", "laddove si elencano i casi in cui è necessaria la rinnovazione della prova dichiarativa, non si menzionino periti e consulenti. Da qui, dunque, la conclusione che, in caso di riforma in appello della sentenza di assoluzione, non sussiste l'obbligo per il giudice di procedere alla rinnovazione dibattimentale della dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico, ferma restando la regola di giudizio secondo cui il giudice d'appello, che riformi totalmente la decisione di primo grado, ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio alternativo ragionamento probatorio e di confutare specificamente gli argomenti rilevanti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni dell'incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento", come già richiesto dalle Sezioni Unite nella Sentenza n. 33748 del 12 luglio 2005.
Tale secondo orientamento è poi stato ribadito dalla Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione con la Sentenza "Colleoni", n. 57863 del 18 ottobre 2017. Con tale pronuncia si è stabilito come i principi espressi dalle Sezioni unite debbano essere letti in unione con quelli espressi dalla giurisprudenza di legittimità con riguardo alla natura ed alla valutazione della prova scientifica. Su tale ultima questione si è quindi fatto riferimento alla giurisprudenza di legittimità che ha evidenziato come, al di là del dato relativo alla formale assunzione della veste di testimone da parte di perito e consulente tecnico, la relazione dei quali forma parte integrante della relativa deposizione, tali soggetti siano chiamati a formulare un parere tecnico e ad esprimere valutazioni alla luce dei principi scientifici, con la conseguente non assimilabilità della prova scientifica a quella dichiarativa.
Con l'assunzione della prima, infatti, - si è osservato - "non si tratta di stabilire l'attendibilità del dichiarante e la credibilità del racconto sotto il profilo della congruenza, linearità e assenza di elementi perturbatori dell'attendibilità, ma di valutare la deposizione del perito alla luce dell'indirizzo ermeneutico in tema di valutazione della prova scientifica, secondo cui, in virtù dei principi del libero convincimento del giudice e di insussistenza di una prova legale o di una graduazione delle prove, il giudice ha la possibilità di scegliere, fra le varie tesi scientifiche prospettate da differenti periti di ufficio e consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto, con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni del suo dissenso o della scelta operata e dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di disattendere, confutando in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti, sicché una simile valutazione, ove sia stata effettuata in maniera congrua in sede di merito, non è sindacabile dal giudice di legittimità".
La Corte si è quindi soffermata ad evidenziare i punti di analogia e quelli di differenza tra il ruolo del testimone e quello di perito e consulente tecnico, professionisti incaricati dal giudice o da una delle parti di espletare un'attività di supporto tecnico-scientifico, sulla base di competenze in loro possesso.
Nel senso della diversità dei ruoli depongono gli artt. 468, 391 bis e 391 sexies c.p.p. (in tema di indagini difensive) e, ancora, 149 disp. att. c.p.p.. Lo stesso art. 501 c.p.p., che afferma, come noto, l'applicabilità all'esame dei periti e dei consulenti tecnici delle regole relative all'escussione dei testi, in quanto compatibili, non avrebbe giustificazione sistematica se i due ordini di figure processuali fossero sovrapponibili.
Tuttavia, hanno osservato i giudici di legittimità, non mancano, a livello normativo, elementi che denunciano punti di contatto tra i soggetti in discorso.
Per esempio, l'art. 511 comma 3 c.p.p., nel prevedere che la lettura della perizia avvenga solo all'esito dell'esame del perito, dimostrerebbe come "l'attenzione del giudice si indirizzi non tanto sull'elaborato tecnico in precedenza realizzato, bensì direttamente sull'esperto, che assume piuttosto la dimensione di "soggetto di prova"".
Inoltre, deve essere rilevato come l'attività del perito non si esaurisca nella valutazione di fatti già accertati o dati preesistenti, potendo egli essere chiamato ad accertare fatti non altrimenti accertabili che con l'impiego di tecniche particolari, ossia a svolgere un'attività che nella dottrina e nella giurisprudenza civilistica è definita "percipiente": si è infatti ivi affermato che se il giudice affida al consulente il semplice incarico di valutare fatti già accertati o dati preesistenti, la funzione del consulente è deducente e la sua attività non può produrre prova; se, viceversa, al consulente è conferito l'incarico di accertare fatti non altrimenti accertabili che con l'impiego di tecniche particolari, il consulente è percipiente e la consulenza costituisce fonte diretta di prova ed è utilizzabile al pari di ogni altra prova ritualmente acquisita al processo".
Secondo la Corte, tali conclusioni potrebbero trovare accoglimento anche nel processo penale, costituendo un sostegno alla tesi all'assimilabilità della perizia o della consulenza tecnica alla prova dichiarativa.
I giudici di legittimità hanno poi osservato come il fatto per cui le Sezioni Unite non abbiano mai ricompreso la fattispecie relativa alla prova scientifica nella regola della rinnovazione istruttoria in caso di riforma della sentenza assolutoria non sia di per sé ostativo all'adozione di una decisione in questo senso, non dovendosi ritenere tassativa l'elencazione operata dalle Sezioni Unite medesime; al contrario, al di là del tema relativo alla riconducibilità delle dichiarazioni di perito e consulente tecnico tra le c.d. prove dichiarative, l'affermazione dell'obbligo di rinnovazione sarebbe coerente con i principi del giusto processo.
Le Sezioni Unite hanno infatti ancorato la regola della rinnovazione istruttoria, in caso di riforma sfavorevole all'imputato, alla regola di giudizio della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, a sua volta espressione della presunzione di non colpevolezza. Tale regola di giudizio è connessa ai principi del contraddittorio, dell'oralità e dell'immediatezza, i quali devono certamente essere considerati operanti, così come la prima, anche nel giudizio di secondo grado, come affermato anche dalla giurisprudenza della Corte EDU.
Tanto premesso - ha affermato la Corte - se la riforma della sentenza assolutoria, implicando il superamento di ogni ragionevole dubbio circa la colpevolezza dell'imputato, necessita del ricorso al metodo migliore per la formazione della prova, costituito dall'oralità e dall'immediatezza, si deve ritenere che tale metodo di formazione della prova, diversamente valutata nei due gradi di giudizio, "transiti anche attraverso la rinnovazione dell'esame dei periti o consulenti".
La peculiarità dell'audizione di tali soggetti risiede nel fatto che "il giudice non si muove esclusivamente all'interno dei canoni della valutazione dell'attendibilità del perito o del consulente ma anche e soprattutto all'interno delle coordinate scientifiche, concernenti la bontà delle conoscenze tecniche di cui il perito o il consulente sono portatori e delle soluzioni che hanno prospettato".
Da ciò deriva come "l'esame del perito o del consulente tecnico sarà quindi diretto al fine proprio della migliore comprensione del sapere scientifico e della migliore valutazione delle conclusioni tecniche, cui essi sono pervenuti, così da potere adottare una decisione, sia pure in contrasto con quella del primo giudice, formatasi all'esito di una prova assunta nel rispetto dei canoni dell'oralità, dell'immediatezza e del contraddittorio. Esigenza, questa, tanto più avvertita quando, come nel caso in esame, il perito e il consulente siano pervenuti a conclusioni diverse sulla base di indagini non condotte con lo stesso metodo o quando, soprattutto, in primo grado, il perito non sia stato ascoltato, ma l'istruttoria sia stata compiuta attraverso la lettura della perizia su accordo delle parti".
Tuttavia, a fronte di tali argomentazioni, resta da considerare, secondo la Corte, la questione se, all'esito dell'esame del perito o del consulente, debba essere disposta la rinnovazione anche delle indagini compiute dai medesimi; questione che presenta particolare rilevanza nelle ipotesi in cui consulenza e perizia abbiano come destinatari soggetti deboli, situazioni in cui il giudice si troverebbe nella condizioni di dover valutare, nel disporre la rinnovazione istruttoria, una serie di rilevanti interessi sottesi al processo penale: ossia quelli connessi alla necessità di sottoporre il soggetto debole, sia pure con le opportune cautele, a un ulteriore stress, e di ricercare un punto di equilibrio tra esigenze tutte meritevoli di tutela; il diritto dell'imputato a difendersi, il diritto della persona offesa all'accertamento della responsabilità, l'interesse generale alla tutela dei soggetti deboli, e ancora l'interesse dello Stato alla corretta amministrazione della giustizia secondo i principi di legalità e di eguaglianza; ciò considerando altresì come, in base ai principi enunciati dalla Corte EDU, il sistema della rinnovazione istruttoria in appello debba essere valutato nel complesso del singolo procedimento e dei vari interessi in gioco.
A fronte di tali considerazioni, e del rilevato contrasto giurisprudenziale, la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione ha pertanto rimesso alle Sezioni Unite la questione di diritto in oggetto.
La Suprema Corte ha, innanzitutto, ricordato come le Sezioni Unite, con la nota Sentenza "Dasgupta", pronunciata in data 28 aprile 2016, abbiano affermato come "la previsione, contenuta nell'art. 6, par. 3, lett. d) della CEDU, relativa al diritto dell'imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico, implica che il giudice d'appello, investito dell'impugnazione del Pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, con cui si adduca un'erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell'imputato, senza avere proceduto, anche d'ufficio, ai sensi dell'art. 603 comma 3 c.p.p., a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado."
La violazione di tale adempimento comporta, pertanto, vizio di motivazione della sentenza d'appello, dovendo la rinnovazione istruttoria essere considerata, in questa fattispecie, come "assolutamente necessaria" ai sensi dell'art. 603 comma 3 c.p.p., in virtù dell'esigenza che il convincimento del giudice di appello "replichi l'andamento del giudizio di primo grado, fondandosi su prove dichiarative direttamente assunte".
Nell'ipotesi opposta, quando cioè venga emessa dalla Corte d'Appello una pronuncia di riforma della sentenza di condanna inflitta in primo grado, non è invece necessaria una rinnovazione istruttoria delle prove dichiarative ritenute decisive, salvo il dovere, in capo al giudice d'appello, di una motivazione puntuale ed adeguata, che fornisca "una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva". In questo senso - ha ricordato ancora la Corte - si sono nuovamente pronunciate le Sezioni Unite con la Sentenza n. 14800/2017 "Troise".
Ricostruito in questo modo il tessuto giurisprudenziale in tema di rinnovazione istruttoria nel giudizio d'appello a fronte di una pronuncia di riforma della sentenza di primo grado, la Corte ha poi evidenziato, in relazione alla fattispecie portata alla sua attenzione, come sussistano due opposti orientamenti interpretativi circa la questione dell'equiparazione alle prove dichiarative delle dichiarazioni dei periti e dei consulenti tecnici.
Secondo un primo orientamento, a tale questione andrebbe data risposta positiva, con la conseguente necessità di rinnovazione della prova in caso di riforma della sentenza assolutoria del Tribunale. Si è infatti affermato, in particolare con la Sentenza n. 34843, pronunciata in data 1 luglio 2015 dalla Seconda Sezione Penale della Suprema Corte, che "la funzione svolta dal perito nel processo e l'acquisizione dei risultati a cui l'esperto è giunto nello svolgimento dell'incarico peritale - ossia l'esame in dibattimento secondo le disposizioni sull'esame dei testimoni impongono che la rivalutazione della prova sia preceduta dal riascolto dello stesso". Pertanto, ritenere che si possano rivalutare le prove consistenti in consulenze e perizie omettendo di riascoltare gli autori delle stesse integrerebbe "un chiaro errore sulla natura stessa della prova esaminata". Da ciò deriverebbe un errore metodologico, consistente nella rivalutazione della prova in assenza della rinnovazione istruttoria, con conseguente violazione dell'art. 6 CEDU, così come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo con la Sentenza Dan vs. Moldavia.
Tale orientamento è poi stato ribadito dalla Quarta Sezione Penale con la Sentenza n. 6366 del 6 dicembre 2016, concernente un'ipotesi di omicidio colposo commesso con violazione delle norme del C.d.S.. In tale sentenza, si evidenziava come la Corte d'Appello, avesse omesso di verificare preliminarmente l'incoerenza e l'implausibilità della ricostruzione della dinamica del sinistro effettuata dal Tribunale, e fondata sul medesimo elaborato tecnico poi valutato dal giudice di secondo grado al fine di riformare la pronuncia assolutoria. La Corte d'Appello non aveva disposto la rinnovazione istruttoria, mediante l'audizione dell'ausiliario (le cui affermazioni erano state diversamente interpretate) o attraverso la nomina di un nuovo perito.
Alla medesima conclusione è giunta, negli anni successivi, la stessa Sezione Quarta Penale della Corte dapprima con la Sentenza "Gashi" n. 9400, pronunciata in data 25 gennaio 2017, e poi con la Sentenza "Lumaca", n. 14649, pronunciata in data 21 febbraio 2018.
Lo stesso principio è stato affermato anche in una fattispecie di infortunio sul lavoro, ove è stato ritenuta causa di vizio di motivazione della sentenza d'appello la mancata rinnovazione della prova peritale, sulla cui diversa valutazione da parte del giudice di secondo grado si è fondata la riforma della sentenza assolutoria del Tribunale (Sentenza n. 14654 del 30 marzo 2018, "D'Angelo").
Nella giurisprudenza di legittimità - ha poi osservato la Corte - si è però formato un contrario orientamento, il quale afferma come la prova scientifica non sia affatto equiparabile a quella dichiarativa.
In primo luogo, l'opposta interpretazione è stata sostenuta nella Sentenza "Abruzzo", n. 1691, pronunciata dalla Quinta Sezione Penale della Suprema Corte in data 14 settembre 2016. In essa si è affermato come, pur non essendo in discussione che perito e consulente tecnico assumano in dibattimento la veste di testimoni, la loro posizione non sia totalmente assimilabile al concetto di prova dichiarativa: essi formulano, infatti, un parere tecnico dal quale il giudice può discostarsi, pur dovendo argomentare la propria diversa opinione. Non è quindi casuale che nella motivazione della Sentenza "Dasgupta", "laddove si elencano i casi in cui è necessaria la rinnovazione della prova dichiarativa, non si menzionino periti e consulenti. Da qui, dunque, la conclusione che, in caso di riforma in appello della sentenza di assoluzione, non sussiste l'obbligo per il giudice di procedere alla rinnovazione dibattimentale della dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico, ferma restando la regola di giudizio secondo cui il giudice d'appello, che riformi totalmente la decisione di primo grado, ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio alternativo ragionamento probatorio e di confutare specificamente gli argomenti rilevanti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni dell'incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento", come già richiesto dalle Sezioni Unite nella Sentenza n. 33748 del 12 luglio 2005.
Tale secondo orientamento è poi stato ribadito dalla Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione con la Sentenza "Colleoni", n. 57863 del 18 ottobre 2017. Con tale pronuncia si è stabilito come i principi espressi dalle Sezioni unite debbano essere letti in unione con quelli espressi dalla giurisprudenza di legittimità con riguardo alla natura ed alla valutazione della prova scientifica. Su tale ultima questione si è quindi fatto riferimento alla giurisprudenza di legittimità che ha evidenziato come, al di là del dato relativo alla formale assunzione della veste di testimone da parte di perito e consulente tecnico, la relazione dei quali forma parte integrante della relativa deposizione, tali soggetti siano chiamati a formulare un parere tecnico e ad esprimere valutazioni alla luce dei principi scientifici, con la conseguente non assimilabilità della prova scientifica a quella dichiarativa.
Con l'assunzione della prima, infatti, - si è osservato - "non si tratta di stabilire l'attendibilità del dichiarante e la credibilità del racconto sotto il profilo della congruenza, linearità e assenza di elementi perturbatori dell'attendibilità, ma di valutare la deposizione del perito alla luce dell'indirizzo ermeneutico in tema di valutazione della prova scientifica, secondo cui, in virtù dei principi del libero convincimento del giudice e di insussistenza di una prova legale o di una graduazione delle prove, il giudice ha la possibilità di scegliere, fra le varie tesi scientifiche prospettate da differenti periti di ufficio e consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto, con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni del suo dissenso o della scelta operata e dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di disattendere, confutando in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti, sicché una simile valutazione, ove sia stata effettuata in maniera congrua in sede di merito, non è sindacabile dal giudice di legittimità".
La Corte si è quindi soffermata ad evidenziare i punti di analogia e quelli di differenza tra il ruolo del testimone e quello di perito e consulente tecnico, professionisti incaricati dal giudice o da una delle parti di espletare un'attività di supporto tecnico-scientifico, sulla base di competenze in loro possesso.
Nel senso della diversità dei ruoli depongono gli artt. 468, 391 bis e 391 sexies c.p.p. (in tema di indagini difensive) e, ancora, 149 disp. att. c.p.p.. Lo stesso art. 501 c.p.p., che afferma, come noto, l'applicabilità all'esame dei periti e dei consulenti tecnici delle regole relative all'escussione dei testi, in quanto compatibili, non avrebbe giustificazione sistematica se i due ordini di figure processuali fossero sovrapponibili.
Tuttavia, hanno osservato i giudici di legittimità, non mancano, a livello normativo, elementi che denunciano punti di contatto tra i soggetti in discorso.
Per esempio, l'art. 511 comma 3 c.p.p., nel prevedere che la lettura della perizia avvenga solo all'esito dell'esame del perito, dimostrerebbe come "l'attenzione del giudice si indirizzi non tanto sull'elaborato tecnico in precedenza realizzato, bensì direttamente sull'esperto, che assume piuttosto la dimensione di "soggetto di prova"".
Inoltre, deve essere rilevato come l'attività del perito non si esaurisca nella valutazione di fatti già accertati o dati preesistenti, potendo egli essere chiamato ad accertare fatti non altrimenti accertabili che con l'impiego di tecniche particolari, ossia a svolgere un'attività che nella dottrina e nella giurisprudenza civilistica è definita "percipiente": si è infatti ivi affermato che se il giudice affida al consulente il semplice incarico di valutare fatti già accertati o dati preesistenti, la funzione del consulente è deducente e la sua attività non può produrre prova; se, viceversa, al consulente è conferito l'incarico di accertare fatti non altrimenti accertabili che con l'impiego di tecniche particolari, il consulente è percipiente e la consulenza costituisce fonte diretta di prova ed è utilizzabile al pari di ogni altra prova ritualmente acquisita al processo".
Secondo la Corte, tali conclusioni potrebbero trovare accoglimento anche nel processo penale, costituendo un sostegno alla tesi all'assimilabilità della perizia o della consulenza tecnica alla prova dichiarativa.
I giudici di legittimità hanno poi osservato come il fatto per cui le Sezioni Unite non abbiano mai ricompreso la fattispecie relativa alla prova scientifica nella regola della rinnovazione istruttoria in caso di riforma della sentenza assolutoria non sia di per sé ostativo all'adozione di una decisione in questo senso, non dovendosi ritenere tassativa l'elencazione operata dalle Sezioni Unite medesime; al contrario, al di là del tema relativo alla riconducibilità delle dichiarazioni di perito e consulente tecnico tra le c.d. prove dichiarative, l'affermazione dell'obbligo di rinnovazione sarebbe coerente con i principi del giusto processo.
Le Sezioni Unite hanno infatti ancorato la regola della rinnovazione istruttoria, in caso di riforma sfavorevole all'imputato, alla regola di giudizio della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, a sua volta espressione della presunzione di non colpevolezza. Tale regola di giudizio è connessa ai principi del contraddittorio, dell'oralità e dell'immediatezza, i quali devono certamente essere considerati operanti, così come la prima, anche nel giudizio di secondo grado, come affermato anche dalla giurisprudenza della Corte EDU.
Tanto premesso - ha affermato la Corte - se la riforma della sentenza assolutoria, implicando il superamento di ogni ragionevole dubbio circa la colpevolezza dell'imputato, necessita del ricorso al metodo migliore per la formazione della prova, costituito dall'oralità e dall'immediatezza, si deve ritenere che tale metodo di formazione della prova, diversamente valutata nei due gradi di giudizio, "transiti anche attraverso la rinnovazione dell'esame dei periti o consulenti".
La peculiarità dell'audizione di tali soggetti risiede nel fatto che "il giudice non si muove esclusivamente all'interno dei canoni della valutazione dell'attendibilità del perito o del consulente ma anche e soprattutto all'interno delle coordinate scientifiche, concernenti la bontà delle conoscenze tecniche di cui il perito o il consulente sono portatori e delle soluzioni che hanno prospettato".
Da ciò deriva come "l'esame del perito o del consulente tecnico sarà quindi diretto al fine proprio della migliore comprensione del sapere scientifico e della migliore valutazione delle conclusioni tecniche, cui essi sono pervenuti, così da potere adottare una decisione, sia pure in contrasto con quella del primo giudice, formatasi all'esito di una prova assunta nel rispetto dei canoni dell'oralità, dell'immediatezza e del contraddittorio. Esigenza, questa, tanto più avvertita quando, come nel caso in esame, il perito e il consulente siano pervenuti a conclusioni diverse sulla base di indagini non condotte con lo stesso metodo o quando, soprattutto, in primo grado, il perito non sia stato ascoltato, ma l'istruttoria sia stata compiuta attraverso la lettura della perizia su accordo delle parti".
Tuttavia, a fronte di tali argomentazioni, resta da considerare, secondo la Corte, la questione se, all'esito dell'esame del perito o del consulente, debba essere disposta la rinnovazione anche delle indagini compiute dai medesimi; questione che presenta particolare rilevanza nelle ipotesi in cui consulenza e perizia abbiano come destinatari soggetti deboli, situazioni in cui il giudice si troverebbe nella condizioni di dover valutare, nel disporre la rinnovazione istruttoria, una serie di rilevanti interessi sottesi al processo penale: ossia quelli connessi alla necessità di sottoporre il soggetto debole, sia pure con le opportune cautele, a un ulteriore stress, e di ricercare un punto di equilibrio tra esigenze tutte meritevoli di tutela; il diritto dell'imputato a difendersi, il diritto della persona offesa all'accertamento della responsabilità, l'interesse generale alla tutela dei soggetti deboli, e ancora l'interesse dello Stato alla corretta amministrazione della giustizia secondo i principi di legalità e di eguaglianza; ciò considerando altresì come, in base ai principi enunciati dalla Corte EDU, il sistema della rinnovazione istruttoria in appello debba essere valutato nel complesso del singolo procedimento e dei vari interessi in gioco.
A fronte di tali considerazioni, e del rilevato contrasto giurisprudenziale, la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione ha pertanto rimesso alle Sezioni Unite la questione di diritto in oggetto.