Con la Sentenza n. 36154, pronunciata all'udienza del 23 maggio 2018 (deposito motivazioni in data 27 luglio 2018), la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha preso in esame la questione se la mancata accettazione del giudizio abbreviato da parte della parte civile equivalga o meno a revoca della costituzione e della relativa domanda risarcitoria.
Il giudizio di legittimità è stato originato dal ricorso presentato da un imputato avverso la Sentenza con cui la Corte d'Appello di Firenze aveva parzialmente riformato in punto pena la pronuncia del Tribunale della medesima città (Sezione distaccata di Empoli), il quale aveva condannato il ricorrente per il reato di cui agli artt. 582, 583 c.p. commesso nei confronti di due diverse persone offese.
Il Tribunale aveva condannato l'imputato alla pena di mesi 8 di reclusione e al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio, oltre alla rifusione delle spese in favore delle parti civili; aveva altresì liquidato una provvisionale di Euro 5.000,00, a favore di ciascuna parte civile, concedendo la sospensione condizionale della pena subordinatamente al pagamento delle somme liquidate a titolo di provvisionale.
Con il primo dei motivi di ricorso, l'imputato contestava un'avvenuta violazione della legge processuale a causa della mancata estromissione della parte civile dal giudizio penale, in seguito alla mancata accettazione del rito abbreviato, con conseguente illegittimità del riconoscimento, a favore delle parti civili, del diritto al risarcimento del danno, al pagamento della provvisionale esecutiva nonché alla rifusione delle spese legali.
Il ricorrente affermava come dottrina e giurisprudenza non prevedano la partecipazione della parte civile dissenziente al rito abbreviato, essendo invece legittimo ritenere come essa, attesa la manifestazione di tale dissenso, non intenda partecipare al giudizio penale, preferendo invece riservare al giudice civile assoluta autonomia nella valutazione circa l'esistenza del fatto, la sua attribuzione ad un soggetto determinato e l'illiceità della condotta.
In altri termini, la mancata accettazione del giudizio abbreviato priverebbe di senso la partecipazione della parte civile al processo penale, orientandola invece verso il giudizio civile: in esso potrà esercitare i propri diritti senza pregiudizi né limiti probatori, come affermato dalla Sentenza n. 443/1990 della Corte Costituzionale.
Nel contempo, alla parte civile che non accetta il rito abbreviato non spetterebbe neppure il diritto alla rifusione delle spese legali, non esistendo alcuna norma che ammetta una scissione tra pronuncia sull'azione principale e pronuncia sulle spese: unica eccezione è costituita dall'art. 444 comma 2 c.p.p. in tema di patteggiamento, fattispecie tuttavia differente, in quanto la preclusione nei confronti dello svolgimento dell'azione civile non dipende in questo caso da una scelta della parte civile.
La Corte ha innanzitutto osservato come i Giudici di merito, entrambi chiamati nel corso del processo a valutare la questione in esame, abbiano concordato sul fatto che la mancata accettazione del rito abbreviato da parte della parte civile comporti solamente la conseguenza di cui all'art. 441 comma 4 c.p.p., ossia l'inapplicabilità dell'art. 75 comma 3 c.p.p., il quale prevede, come noto, la sospensione del processo civile fino alla pronuncia della sentenza penale non più soggetta ad impugnazione.
Il contesto normativo relativo alla questione di diritto prospettata dall'imputato è stato definito dai giudici di legittimità "non privo di ambiguità, compatibile astrattamente con le opposte soluzioni dell'interrogativo, che sono state accolte, sia pur nel contesto di meri obiter dicta, nel contesto di precedenti decisioni di questa Corte e del Giudice delle leggi".
Tuttavia, la Corte ha ritenuto come le motivazioni proposte dal ricorrente non siano condivisibili, mirando ad introdurre un'ipotesi di revoca necessaria della costituzione di parte civile non prevista né esplicitamente né implicitamente dalla legge; essa, come detto, menziona infatti, come unica conseguenza della non accettazione del rito abbreviato, la mancata sospensione del giudizio civile, nell'ipotesi in cui la parte civile già costituitasi proponga azione in sede civile nei confronti dell'imputato.
Il quadro normativo attuale, a differenza di quello proprio del codice previgente, prevede un tendenziale regime di separazione tra le giurisdizioni penale e civile; con specifico riferimento al comma 3 dell'art. 75 c.p.p., la Corte ha osservato come esso vada coordinato con la disposizione di cui all'art. 82 comma 2 c.p.p., che prevede la revoca della costituzione di parte civile nell'ipotesi in cui la parte civile, già costituitasi in sede penale, promuova l'azione anche in sede civile (c.d. translatio judicii dalla sede penale a quella civile).
I giudici di legittimità hanno quindi osservato come, da un lato, la legge non preveda affatto un effetto di caducazione dell'azione civile a causa del dissenso sul rito speciale, né nell'art. 441 c.p.p. né, in tema di revoca della costituzione di parte civile, nell'art. 82 c.p.p.; dall'altro, essi hanno rilevato come sarebbe invece stato logico, seguendo la tesi del ricorrente, che nell'art. 441 comma 4 c.p.p. fosse menzionato l'effetto di revoca della costituzione, con la successiva precisazione della non sospensione del giudizio civile, nel quale la persona offesa abbia trasferito la propria pretesa risarcitoria, in attesa della definizione del processo penale.
La Suprema Corte ha poi rilevato come la tesi da essa preferita sia caratterizzata da un'intrinseca razionalità, volta "a tutelare la parte civile che partecipa ad un processo destinato a svolgersi secondo le regole di un rito che "subisce", in conseguenza del privilegio di scelta attribuito all'imputato, e con pesanti limitazioni della facoltà di prova".
La più corretta interpretazione dell'art. 441 comma 4 c.p.p. è quindi quella per cui la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato non sia automaticamente estromessa dal processo penale e la sua azione ivi esercitata resti efficace; questa parte processuale mantiene invece la facoltà di trasferire in qualunque momento la propria azione in sede civile, revocando in tal modo la propria costituzione nel processo penale ai sensi dell'art. 82 comma 2 c.p.p.; in tal caso, tuttavia, il giudizio civile non rimarrà sospeso, attesa la deroga all'applicazione dell'art. 75 comma 3 c.p.p., come previsto, quale unico effetto della non accettazione del rito speciale, dall'art. 441 comma 4 c.p.p.. La parte civile ha dunque facoltà di continuare a partecipare al giudizio penale a prova contratta e di abbandonarlo in qualunque momento, qualora ritenga pregiudicate le proprie possibilità difensive, ritenendo di poterle meglio tutelare nel giudizio civile, ove può trasferire la propria azione, in assenza di qualsivoglia pregiudizio.
La giurisprudenza di legittimità - è stato osservato - non ha invece approvato la teoria per cui il comportamento della parte civile che esprima parere contrario circa la concessione all'imputato del rito abbreviato condizionato sia equivalente alla volontà di non accettare tale rito, con la conseguente applicazione dell'art. 441 comma 4 c.p.p. e la disapplicazione dell'art. 75 comma 3 c.p.p..
Parimenti, la scelta della parte civile di non esprimere né dissenso né consenso al giudizio abbreviato proposto dall'imputato rappresenta un comportamento processualmente neutro, il quale non può certo essere considerato come indicativo della decisione di trasferire la domanda risarcitoria nella sua sede naturale, rinunciando nel contempo all'azione proposta in sede penale.
In altri termini, è vero, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte, che, in entrambe le ipotesi sopra menzionate, si produce l'effetto dell'inapplicabilità dell'art. 75 comma 3 c.p.p., ma né la dichiarazione di dissenso della parte civile né un comportamento processualmente neutro della medesima comportano l'abbandono del processo penale e la revoca della domanda civilistica ivi proposta.
La Corte ha quindi rilevato come la tesi della non estromissione dal processo penale della parte civile dissenziente sulla celebrazione del rito abbreviato trovi riscontro altresì in altre norme del codice di rito.
In primo luogo, ci si riferisce all'art. 576 c.p.p., il quale attribuisce alla parte civile il diritto di proporre impugnazione agli effetti civili avverso la sentenza pronunciata in esito a giudizio abbreviato, ma solo quando essa abbia acconsentito all'abbreviazione del rito.
E' evidente infatti come l'esclusione della parte civile dissenziente dal diritto di proporre impugnazione confermi la persistenza dell'azione civile nel processo penale, poiché, altrimenti, non sarebbe stata necessaria tale precisazione.
In secondo luogo, tale esclusione è coerente con le norme del codice di rito relative all'efficacia extrapenale del giudicato (artt. 651 comma 2, 651 bis comma 2, 652 comma 2 c.p.p.): le prime due di tali norme prevedono la non efficacia della sentenza penale nei confronti della parte civile dissenziente ("La stessa efficacia ha la sentenza irrevocabile…..pronunciata a norma dell'art. 442, salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato"). La parte civile dissenziente (ma non revocata) ha dunque titolo a sottrarsi in sede civile all'efficacia del giudicato penale.
Con riferimento alle sentenze di condanna, dall'efficacia vincolante delle quali la parte civile dovrebbe trarre vantaggio, la facoltà di opposizione è stata giustificata sulla base del fatto che il riconoscimento nei reati colposi di un concorso di colpa della persona offesa, costituitasi parte civile, e non posta in condizione di difendersi adeguatamente sul punto, risulterebbe pregiudizievole dei suoi legittimi interessi.
Per quanto invece concerne le sentenze di assoluzione, l'art. 652 comma 2 c.p.p. prevede l'efficacia della sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata a norma dell'art. 442 c.p.p. nel giudizio civile o amministrativo di danno, quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima, ma solo se la parte civile ha accettato il rito abbreviato.
La Suprema Corte ha poi preso in considerazione la Sentenza della Corte Costituzionale n. 443/90, riguardante la sorte della costituzione di parte civile in un altro procedimento speciale, ossia l'applicazione della pena su richiesta delle parti.
In tale pronuncia, la Consulta, nell'operare un raffronto della disciplina di tale rito speciale con quella del rito abbreviato, afferma: "Anzitutto, nel giudizio abbreviato il giudice può pronunciare sulla domanda della parte civile solamente se questa abbia "accettato" il rito speciale (cfr. art. 441 c.p.p., quarto comma). Ma ciò dipende, prima ancora che da qualsiasi altra considerazione circa l'ambito dei poteri rispettivamente spettanti al giudice, dalla differenza strutturale fra i due riti: la scelta del giudizio abbreviato comporta, se condivisa dal giudice, la trasformazione del rito ordinario in rito speciale (non a caso, la costituzione di parte civile può intervenire anche dopo l'ordinanza con la quale sia stato disposto il giudizio abbreviato), mentre la concorde richiesta di applicazione della pena si risolve, se condivisa dal giudice, in un epilogo del processo. Orbene, la possibilità per la parte civile di optare tra l'accettazione e la non accettazione del rito speciale, con antitetiche conseguenze sui poteri decisori del giudice in ordine all'azione civile, se può trovar posto in un giudizio che continua, non può certamente trovar posto in un giudizio che si chiude".
Nonostante la Corte Costituzionale abbia in tale pronuncia affermato come il giudice possa pronunciarsi sulla domanda della parte civile solo se quest'ultima abbia accettato il rito abbreviato, la Corte di Cassazione ha ritenuto di non poter condividere, per le ragioni di diritto positivo sopra esposte, tale tesi, sostenuta dall'imputato.
Si è comunque precisato, al riguardo, il particolare contesto in cui la Consulta si è trovata ad effettuare tale asserzione: essa era infatti compresa in un'argomentazione volta a giustificare, da un lato, la diversa disciplina dei poteri di manifestazione della volontà della parte civile di accettazione del rito speciale, nel caso di applicazione della pena su richiesta delle parti e di giudizio abbreviato; dall'altro, la ratio del potere della parte civile di pronunciarsi sul rito speciale, individuata nella prosecuzione del processo nel caso del rito abbreviato e nella chiusura dello stesso nel caso del patteggiamento. Tale asserzione - hanno quindi osservato i giudici di legittimità - non atteneva "nè all'oggetto, nè ai presupposti del giudizio di costituzionalità".
Sulla base di tali argomentazioni, la Suprema Corte ha rigettato tale primo motivo di ricorso dell'imputato e ha quindi affermato il seguente principio di diritto: "La mancata accettazione della parte civile del rito abbreviato non equivale alla revoca della costituzione di parte civile, ma determina esclusivamente la conseguenza, prevista dall'art. 441 comma 4 c.p.p., di rendere inapplicabile il disposto di cui all'art. 75 comma 3 c.p.p. (che prevede la sospensione del processo civile fino alla definizione di quello penale).
I giudici di legittimità hanno quindi osservato come, da un lato, la legge non preveda affatto un effetto di caducazione dell'azione civile a causa del dissenso sul rito speciale, né nell'art. 441 c.p.p. né, in tema di revoca della costituzione di parte civile, nell'art. 82 c.p.p.; dall'altro, essi hanno rilevato come sarebbe invece stato logico, seguendo la tesi del ricorrente, che nell'art. 441 comma 4 c.p.p. fosse menzionato l'effetto di revoca della costituzione, con la successiva precisazione della non sospensione del giudizio civile, nel quale la persona offesa abbia trasferito la propria pretesa risarcitoria, in attesa della definizione del processo penale.
La Suprema Corte ha poi rilevato come la tesi da essa preferita sia caratterizzata da un'intrinseca razionalità, volta "a tutelare la parte civile che partecipa ad un processo destinato a svolgersi secondo le regole di un rito che "subisce", in conseguenza del privilegio di scelta attribuito all'imputato, e con pesanti limitazioni della facoltà di prova".
La più corretta interpretazione dell'art. 441 comma 4 c.p.p. è quindi quella per cui la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato non sia automaticamente estromessa dal processo penale e la sua azione ivi esercitata resti efficace; questa parte processuale mantiene invece la facoltà di trasferire in qualunque momento la propria azione in sede civile, revocando in tal modo la propria costituzione nel processo penale ai sensi dell'art. 82 comma 2 c.p.p.; in tal caso, tuttavia, il giudizio civile non rimarrà sospeso, attesa la deroga all'applicazione dell'art. 75 comma 3 c.p.p., come previsto, quale unico effetto della non accettazione del rito speciale, dall'art. 441 comma 4 c.p.p.. La parte civile ha dunque facoltà di continuare a partecipare al giudizio penale a prova contratta e di abbandonarlo in qualunque momento, qualora ritenga pregiudicate le proprie possibilità difensive, ritenendo di poterle meglio tutelare nel giudizio civile, ove può trasferire la propria azione, in assenza di qualsivoglia pregiudizio.
La giurisprudenza di legittimità - è stato osservato - non ha invece approvato la teoria per cui il comportamento della parte civile che esprima parere contrario circa la concessione all'imputato del rito abbreviato condizionato sia equivalente alla volontà di non accettare tale rito, con la conseguente applicazione dell'art. 441 comma 4 c.p.p. e la disapplicazione dell'art. 75 comma 3 c.p.p..
Parimenti, la scelta della parte civile di non esprimere né dissenso né consenso al giudizio abbreviato proposto dall'imputato rappresenta un comportamento processualmente neutro, il quale non può certo essere considerato come indicativo della decisione di trasferire la domanda risarcitoria nella sua sede naturale, rinunciando nel contempo all'azione proposta in sede penale.
In altri termini, è vero, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte, che, in entrambe le ipotesi sopra menzionate, si produce l'effetto dell'inapplicabilità dell'art. 75 comma 3 c.p.p., ma né la dichiarazione di dissenso della parte civile né un comportamento processualmente neutro della medesima comportano l'abbandono del processo penale e la revoca della domanda civilistica ivi proposta.
La Corte ha quindi rilevato come la tesi della non estromissione dal processo penale della parte civile dissenziente sulla celebrazione del rito abbreviato trovi riscontro altresì in altre norme del codice di rito.
In primo luogo, ci si riferisce all'art. 576 c.p.p., il quale attribuisce alla parte civile il diritto di proporre impugnazione agli effetti civili avverso la sentenza pronunciata in esito a giudizio abbreviato, ma solo quando essa abbia acconsentito all'abbreviazione del rito.
E' evidente infatti come l'esclusione della parte civile dissenziente dal diritto di proporre impugnazione confermi la persistenza dell'azione civile nel processo penale, poiché, altrimenti, non sarebbe stata necessaria tale precisazione.
In secondo luogo, tale esclusione è coerente con le norme del codice di rito relative all'efficacia extrapenale del giudicato (artt. 651 comma 2, 651 bis comma 2, 652 comma 2 c.p.p.): le prime due di tali norme prevedono la non efficacia della sentenza penale nei confronti della parte civile dissenziente ("La stessa efficacia ha la sentenza irrevocabile…..pronunciata a norma dell'art. 442, salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato"). La parte civile dissenziente (ma non revocata) ha dunque titolo a sottrarsi in sede civile all'efficacia del giudicato penale.
Con riferimento alle sentenze di condanna, dall'efficacia vincolante delle quali la parte civile dovrebbe trarre vantaggio, la facoltà di opposizione è stata giustificata sulla base del fatto che il riconoscimento nei reati colposi di un concorso di colpa della persona offesa, costituitasi parte civile, e non posta in condizione di difendersi adeguatamente sul punto, risulterebbe pregiudizievole dei suoi legittimi interessi.
Per quanto invece concerne le sentenze di assoluzione, l'art. 652 comma 2 c.p.p. prevede l'efficacia della sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata a norma dell'art. 442 c.p.p. nel giudizio civile o amministrativo di danno, quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima, ma solo se la parte civile ha accettato il rito abbreviato.
La Suprema Corte ha poi preso in considerazione la Sentenza della Corte Costituzionale n. 443/90, riguardante la sorte della costituzione di parte civile in un altro procedimento speciale, ossia l'applicazione della pena su richiesta delle parti.
In tale pronuncia, la Consulta, nell'operare un raffronto della disciplina di tale rito speciale con quella del rito abbreviato, afferma: "Anzitutto, nel giudizio abbreviato il giudice può pronunciare sulla domanda della parte civile solamente se questa abbia "accettato" il rito speciale (cfr. art. 441 c.p.p., quarto comma). Ma ciò dipende, prima ancora che da qualsiasi altra considerazione circa l'ambito dei poteri rispettivamente spettanti al giudice, dalla differenza strutturale fra i due riti: la scelta del giudizio abbreviato comporta, se condivisa dal giudice, la trasformazione del rito ordinario in rito speciale (non a caso, la costituzione di parte civile può intervenire anche dopo l'ordinanza con la quale sia stato disposto il giudizio abbreviato), mentre la concorde richiesta di applicazione della pena si risolve, se condivisa dal giudice, in un epilogo del processo. Orbene, la possibilità per la parte civile di optare tra l'accettazione e la non accettazione del rito speciale, con antitetiche conseguenze sui poteri decisori del giudice in ordine all'azione civile, se può trovar posto in un giudizio che continua, non può certamente trovar posto in un giudizio che si chiude".
Nonostante la Corte Costituzionale abbia in tale pronuncia affermato come il giudice possa pronunciarsi sulla domanda della parte civile solo se quest'ultima abbia accettato il rito abbreviato, la Corte di Cassazione ha ritenuto di non poter condividere, per le ragioni di diritto positivo sopra esposte, tale tesi, sostenuta dall'imputato.
Si è comunque precisato, al riguardo, il particolare contesto in cui la Consulta si è trovata ad effettuare tale asserzione: essa era infatti compresa in un'argomentazione volta a giustificare, da un lato, la diversa disciplina dei poteri di manifestazione della volontà della parte civile di accettazione del rito speciale, nel caso di applicazione della pena su richiesta delle parti e di giudizio abbreviato; dall'altro, la ratio del potere della parte civile di pronunciarsi sul rito speciale, individuata nella prosecuzione del processo nel caso del rito abbreviato e nella chiusura dello stesso nel caso del patteggiamento. Tale asserzione - hanno quindi osservato i giudici di legittimità - non atteneva "nè all'oggetto, nè ai presupposti del giudizio di costituzionalità".
Sulla base di tali argomentazioni, la Suprema Corte ha rigettato tale primo motivo di ricorso dell'imputato e ha quindi affermato il seguente principio di diritto: "La mancata accettazione della parte civile del rito abbreviato non equivale alla revoca della costituzione di parte civile, ma determina esclusivamente la conseguenza, prevista dall'art. 441 comma 4 c.p.p., di rendere inapplicabile il disposto di cui all'art. 75 comma 3 c.p.p. (che prevede la sospensione del processo civile fino alla definizione di quello penale).