(Per ulteriori approfondimenti si veda: Responsabilità del medico di pronto soccorso)
La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 24068, pronunciata all'udienza del 15 febbraio 2018 (deposito motivazioni in data 29 maggio 2018), ha preso in esame, in tema di colpa medica, la responsabilità dei medici di pronto soccorso e dei medici consulenti, con particolare riferimento al contesto relativo ad una struttura sanitaria complessa.
Il giudizio di legittimità trae origine da due distinti ricorsi presentati avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello di Salerno, riformando parzialmente la pronuncia emessa dal Tribunale della medesima città, aveva assolto dal delitto di omicidio colposo un medico ortopedico in servizio presso una struttura ospedaliera, confermando invece la condanna per il medesimo reato nei confronti di un sanitario in servizio presso il pronto soccorso ospedaliero.
Nella fattispecie, ad un paziente, giunto in ospedale a seguito di un sinistro stradale, veniva diagnosticata una "policontusione con interessamento del rachide cervicale", ed al medesimo era applicato un collare; in seguito, veniva dimesso dal medico ortopedico.
Tre giorni dopo, tuttavia, il paziente si vedeva costretto ad effettuare un secondo ingresso in ospedale, stante l'impossibilità di muovere la mano ed il braccio destro. In questa sede, egli veniva inviato a consulenza, da parte dei medici del pronto soccorso, presso il medesimo medico ortopedico che aveva in precedenza proceduto alle prime dimissioni. Il consulente inviava a sua volta il paziente a consulenza chirurgica, all'esito della quale venivano consigliate al medesimo ulteriori indagini diagnostiche, ed in particolare un ecodoppler dei vasi del collo. A questo punto, il paziente si consultava nuovamente con il medico ortopedico, e lasciava quindi per la seconda volta l'ospedale, senza, peraltro, che venisse effettuata la relativa annotazione nei registri del pronto soccorso.
Nella sera dello stesso giorno, le condizioni del paziente si aggravavano tuttavia ulteriormente, ed egli era costretto ad un terzo ingresso in ospedale, ove giungeva, accompagnato da moglie e sorella, in stato confusionale. Egli veniva quindi indirizzato ad una nuova consulenza, questa volta neurologica: il neurologo consigliava l'effettuazione di una RM cerebrale nonché il ricovero del paziente. Il medico del pronto soccorso, tuttavia, facendo presente l'assenza di posti disponibili, decideva di non procedere al ricovero, malgrado le insistenze dei familiari.
Il paziente rientrava quindi a casa per la terza volta, ma, stante l'ulteriore peggioramento delle sue condizioni, fino alla perdita di conoscenza, veniva, ancora una volta, trasportato d'urgenza in ospedale, ove, dopo essere entrato in coma, decedeva.
Nel corso del procedimento penale avviato a seguito di tali fatti, venivano espletate consulenza tecnica su incarico del Pubblico Ministero nonché perizia dibattimentale, le quali consentivano di individuare la causa della morte in un alterazione della parete dell'arteria carotide interna sinistra, la quale aveva causato un trombo ectasico; si affermava, inoltre, come ciò si sarebbe potuto evitare mediante la tempestiva somministrazione di una terapia antiaggregante e l'applicazione di uno stent carotideo.
Per quanto concerne le imputazioni, al medico ortopedico veniva contestato di aver omesso, dopo aver inviato il paziente a consulenza chirurgica, di attivarsi per la prosecuzione del ricovero e l'esecuzione degli esami indicati dal chirurgo (in particolare l'ecodoppler, che avrebbe permesso di individuare l'alterazione della carotide interna sinistra), consentendo, al contrario, il rientro a casa del paziente.
Al medico del pronto soccorso era invece rimproverato di aver disposto le dimissioni del paziente, sebbene il medico neurologo avesse espressamente indicato la necessità del ricovero, oltre all'esecuzione di esami di approfondimento neuro-fisiologico.
Come anticipato, il solo medico ortopedico era stato assolto in appello: la Corte territoriale riteneva infatti come esso non avesse assunto la posizione di garanzia, mediante la presa in carico del paziente, la cui gestione era da ritenersi di esclusiva spettanza dei medici del pronto soccorso.
Le parti civili proponevano quindi ricorso per cassazione avverso la sentenza di assoluzione del medico ortopedico. Esse sostenevano come la sentenza della Corte territoriale, lungi dal soddisfare l'obbligo di motivazione rafforzata, necessario ai fini della confutazione della sentenza di primo grado (anche se assolutoria), si fosse esaurita in affermazioni del tutto apodittiche. I giudici del gravame non avevano infatti considerato, a differenza del Tribunale, come il medico ortopedico avesse effettivamente assunto la gestione del paziente: il sanitario, infatti, aveva preso la decisione di inviarlo a consulenza chirurgica, senza considerare in seguito l'esito di tale consulenza, nonostante, successivamente all'espletamento della medesima, avesse ricevuto il paziente, unitamente alla coniuge nonostante, come emerso dalla testimonianza di quest'ultima. In definitiva, quindi, era stato disatteso dalla Corte d'Appello il principio per cui la posizione di garanzia può derivare da una situazione di fatto o da un atto di volontaria determinazione: condizione che poteva dirsi integrata nella fattispecie in esame, ove il sanitario, da consulente ortopedico, si era trasformato in medico gerente, avendo concretamente preso in carico il caso.
Il medico in servizio presso il pronto soccorso proponeva a sua volta ricorso per cassazione avverso la sentenza con cui era stata confermata la pronuncia di condanna emessa nei suoi confronti. In particolare, per quanto qui di interesse, egli avanzava le seguenti doglianze:
1) la condotta doverosa omessa dal sanitario era stata individuata nel mancato ricovero del paziente. Tuttavia, la neurologa, presso la quale il paziente era stato inviato a consulenza, aveva sì consigliato il ricovero, ma "senza urgenza", al fine di approfondire dubbi diagnostici, consigliando inoltre al paziente, stante l'indisponibilità di posti letto, di ritornare il lunedì successivo - ossia dopo tre giorni - in ospedale. Il medico del pronto soccorso si era quindi attenuto alle indicazioni ad egli fornite dalla collega neurologa, la quale non aveva disposto il ricovero urgente, ma consigliato di "avviare" il paziente a ricovero. Egli inoltre, stante la mancata rappresentazione, anche da parte della neurologa, di un problema vascolare, non si trovava di fronte ad elementi tali da imporre un ricovero immediato; di conseguenza, non poteva dirsi rimproverabile il comportamento dell'imputato il quale, eseguiti i protocolli del caso, aveva rimandato il paziente al lunedì successivo, al fine di effettuare ulteriori accertamenti diagnostici, come suggerito dalla consulenza neurologica;
2) la motivazione della sentenza impugnata era da considerarsi illogica e contraddittoria anche sotto il profilo del rapporto causale tra l'evento morte e la condotta doverosa omessa. Si era infatti ritenuto in sentenza come il ricovero avrebbe permesso di verificare le condizioni del paziente, nel loro divenire, in maniera tale da consentire la sintesi valutativo-diagnostica, che avrebbe condotto anche all'espletamento dell'ecodoppler, esame salvifico. Tale valutazione era tuttavia da considerarsi non coerente con le peculiarità del caso concreto: fino al successivo lunedì pomeriggio, infatti, il paziente non aveva denotato variazioni nella sintomatologia manifestatasi; pertanto, quand'anche fosse stato ricoverato in ospedale, non sarebbe stato sottoposto - nel periodo del fine settimana - ad approfondimenti diagnostici ulteriori né tantomeno all'ecodoppler, peraltro non previsto da alcuna linea guida in casi di traumi cervicali.
La Suprema Corte ha dapprima preso in esame il ricorso del medico del Pronto Soccorso. Con riferimento al secondo motivo sopra menzionato, i giudici di legittimità hanno condiviso la motivazione esposta nella sentenza impugnata: il mancato ricovero del paziente aveva impedito di effettuare l'ecodoppler, esame che avrebbe rivelato la patologia carotidea innescatasi. In particolare, l'approfondimento diagnostico omesso risultava a maggior ragione necessario, atteso l'emergere di un elemento anamnestico distonico rispetto al quadro sintomatologico, ossia lo stato confusionale del paziente; tutto ciò considerando, inoltre, la positiva remissione di una quota significativa della sintomatologia del paziente dovuta al trauma conseguente al sinistro stradale. Il medico, pertanto, aveva l'obbligo di ricercare, stante il nuovo sintomo manifestatosi, una causa del malessere del paziente diversa ed ulteriore.
L'argomentazione relativa alla mancanza di posti letto, dal canto suo, non è stata considerata conferente dalla Corte, atteso che, per l'effettuazione dell'ecodoppler, il ricovero non sarebbe stato indispensabile, mentre lo svolgimento di tale esame in ambito ospedaliero avrebbe permesso di monitorare le condizioni del paziente nel loro divenire. Inoltre, con riferimento all'invarianza del quadro generale del paziente nei giorni successivi, la Corte ha ritenuto infondata anche tale doglianza, asserendo come la permanenza nell'ambito tutelato dell'ospedale - alla luce dei vari piccoli e transitori segnali della patologia in via di sviluppo - avrebbe consentito lo scrutinio, da parte dei medici, dei segni non collimanti con la diagnosi iniziale.
Con riferimento al secondo motivo di ricorso, la Corte ha nuovamente approvato la motivazione resa dai giudici di merito. La neurologa - come anticipato - aveva infatti consigliato sia il ricovero sia l'effettuazione di un RMN cerebrale, al fine di ampliare l'orizzonte cognitivo e diagnostico. Il medico in servizio presso il Pronto Soccorso, che aveva preso in carico il paziente, prima di inviarlo a consulenza, aveva quindi l'obbligo di coordinare i risultati della consulenza neurologica con il complesso dei dati a propria disposizione. Il medico gerente che richieda una consulenza e che ne ottenga gli esiti - ha infatti osservato la Corte - ha il preciso obbligo di coordinare questi ultimi con il complessivo quadro sintomatico ed anamnestico in propria conoscenza, onde pervenire a diagnosi e terapia.
L'imputato, dunque, stante l'allarmante dato anamnestico relativo allo stato confusionale, avrebbe dovuto non sottovalutare la situazione e disporre il ricovero; in ogni caso, pur a fronte dell'impossibilità di ricovero per mancanza di posti letto, avrebbe dovuto attivarsi in altro modo.
In definitiva, dunque, i giudici di legittimità hanno affermato come "l'unione sintetica dei dati a disposizione - gli esiti della consulenza neurologica da una parte, i dati anamnestici (...) ed il riferito stato confusionale dall'altra - non avrebbe potuto (e dovuto) essere svolta da altri che dallo S. (l'imputato, ndr), a nulla rilevando che la dott.ssa N. (la neurologa, ndr) non avesse segnalato il ricovero come urgente, non potendosi l'imputato appiattire sulla consulenza specialistica richiesta ed andare così esente da responsabilità.
La Suprema Corte ha quindi rigettato il ricorso, agli effetti civili, del sanitario in servizio presso il pronto soccorso, dichiarando nel contempo l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione, stante l'assenza di motivi di assoluzione dell'imputato, ex art. 129 c.p.p., immediatamente constatabili, nonché di profili di inammissibilità del ricorso.
Per quanto concerne il ricorso presentato dalle parti civili, i giudici di legittimità hanno innanzitutto ribadito alcuni fondamentali principi riguardanti la posizione di garanzia assunta dal medico, con speciale riferimento al sanitario in servizio presso il Pronto Soccorso. Fermo restando che "l'instaurazione della relazione terapeutica tra medico e paziente è fonte della posizione di garanzia che il primo assume nei confronti del secondo, e da cui deriva l'obbligo di attivarsi a tutela della salute e della vita", la Corte ha inoltre specificato:
"Ciò è particolarmente evidente in relazione alla posizione di garanzia dei medici di pronto soccorso, dal momento che una volta che un paziente si presenti presso una struttura medica chiedendo l'erogazione di una prestazione professionale, il medico, in virtù del "contatto sociale", assume una posizione di garanzia della tutela della sua salute, ed anche se non può erogare la prestazione richiesta deve fare tutto ciò che è nelle sue capacità per la salvaguardia dell'integrità del paziente" (Cass. pen., Sez. IV, 13547/11).
Tale posizione di garanzia del medico in servizio presso il pronto soccorso, "a tutela della salute dei cittadini bisognosi di cure di primo intervento" può estendersi, peraltro, anche alla fase successiva al ricovero del paziente in un reparto specialistico: il medico di pronto soccorso, infatti, "rimane investito della posizione di garanzia anche laddove, dopo aver disposto il ricovero del paziente in un reparto specialistico, nuovamente interpellato dal personale paramedico per un consulto, senza che fosse stato previamente allertato il medico di turno responsabile del reparto, abbia continuato a prestare assistenza al paziente disponendo ulteriori trattamenti terapeutici" (Cass. Pen., Sez. IV, 39838/16).
I giudici di legittimità hanno quindi preso in esame la posizione del medico interpellato ai fini di un consulto specialistico. Egli - come fu affermato nella sentenza Perilli Ludovico pronunciata nel 2002 - qualora "accerti l'esistenza di una patologia ad elevato ed immediato rischio di aggravamento, in virtù della sua posizione di garanzia, ha l'obbligo di disporre personalmente i trattamenti terapeutici ritenuti idonei ad evitare eventi dannosi, ovvero, in caso di impossibilità di intervento, è tenuto ad adoperarsi facendo ricoverare il paziente in un reparto specialistico, portando a conoscenza dei medici specialistici la gravità e urgenza del caso, ovvero, nel caso di indisponibilità di posti letto nel reparto specialistico, richiedendo che l'assistenza specializzata venga prestata nel reparto dove il paziente si trova ricoverato specie laddove questo reparto non sia idoneo ad affrontare la patologia riscontrata con la necessaria perizia professionale".
I doveri gravanti sul medico chiamato a consulto - ha aggiunto la Corte, ribadendo ancora una volta una consolidata giurisprudenza - sono infatti i medesimi del medico che ha in carico il paziente presso un determinato reparto, e ad egli non è concesso "esimersi da responsabilità adducendo di essere stato chiamato solo per valutare una specifica situazione".
Tanto premesso in generale, circa la posizione di garanzia del medico interpellato per un consulto specialistico, il Collegio ha tuttavia ritenuto, al riguardo, di operare un distinguo, evidenziando un principio relativo ai rapporti tra sanitari operanti - non in posizione apicale - all'interno di una struttura sanitaria complessa. Con riguardo ad essi, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha osservato come sia priva di rilievo, ai fini dell'affermazione della responsabilità penale, la mera instaurazione del c.d. rapporto terapeutico; è infatti necessario operare un ulteriore accertamento, avente ad oggetto la concreta organizzazione della struttura, con particolare riguardo "ai ruoli, alle sfere di competenza ed ai poteri-doveri dei medici coinvolti nella specifica vicenda".
Per quanto concerne, in particolare, la responsabilità del medico che invia a consulto, ciò non può considerarsi sufficiente ai fini dell'assunzione della posizione di garanzia, qualora il professionista non abbia già preso in carico il paziente aliunde, ipotesi che si verifica, per esempio, - ha osservato la Corte - quando il medesimo sia inviato dal pronto soccorso a consulto presso altri reparti, fattispecie in cui la posizione di garanzia grava sui medici d'urgenza del pronto soccorso.
Pertanto, nell'ambito di una struttura sanitaria complessa, la Corte di Cassazione ha ritenuto di affermare il principio di diritto per cui "il medico, a cui il paziente sia inviato dal pronto soccorso a titolo di consulto, ove non riscontri sotto il profilo di sua stretta competenza alcuna patologia di rilevante gravità e si limiti a richiedere un'altra consulenza, la quale indichi gli esami idonei a diagnosticare la patologia in atto, non assume, per il solo fatto di avere richiesto l'ulteriore consulenza, la posizione di garanzia, che resta a carico dei medici del pronto soccorso".
Applicando tali principi al caso di specie, i giudici di legittimità hanno osservato come il medico ortopedico non avesse riscontrato, sotto il profilo di sua stretta competenza, alcuna patologia di rilevante gravità, con conseguente insussistenza dell'obbligo di attivarsi per le cure del caso. Il sanitario dunque - quale richiedente un'ulteriore consulenza, ed in base alla struttura organizzativa complessa del nosocomio - non era tenuto alla gestione diretta del paziente, la quale competeva ai medici del pronto soccorso, i quali avrebbero dovuto essere investiti dell'esito degli accertamenti disposti ed effettuati all'interno dell'ospedale.
Tuttavia, al fine di verificare l'insorgenza di una posizione di garanzia in capo al medico ortopedico, chiamato a consulto dai colleghi del pronto soccorso, ed a sua volta rinviante il paziente a consulenza chirurgica, la Corte ha reputato necessario procedere ad un'altra e fondamentale verifica, riguardante il preciso ruolo svolto dall'imputata nella vicenda clinica, nonché l'effettiva presa in carico del paziente, quali elementi ulteriori e successivi rispetto al consulto chirurgico da lei richiesto.
Tali elementi erano stati particolarmente valorizzati dal Tribunale di Salerno, il quale aveva rilevato come l'imputata, a seguito della consulenza chirurgica, non avesse fatto accompagnare il paziente né si fosse successivamente preoccupata di venire a conoscenza dell'esito della consulenza medesima o di comunicarla ai colleghi del pronto soccorso. Ella si era invece limitata a confermare le terapie farmacologiche già indicate in occasione del precedente ricovero.
Il giudice di prime cure aveva quindi concluso come il sanitario avesse effettivamente preso in carico il paziente - con conseguente assunzione della posizione di garanzia - a seguito della propria decisione di inviare autonomamente il medesimo a consulenza chirurgica, senza raccordarsi con il pronto soccorso, avente, in tale momento, l'esclusiva responsabilità sul degente. Pertanto, il medico ortopedico avrebbe dovuto preoccuparsi degli esiti della consulenza chirurgica, raccordarli con le proprie valutazioni ed infine convogliare il tutto al pronto soccorso.
Il Tribunale aveva altresì accertato come il paziente, unitamente alla propria coniuge, fosse ritornato, una volta espletata la consulenza chirurgica, dal medico ortopedico, il quale aveva tranquillizzato entrambi, disponendo semplicemente per il proseguimento della terapia già in corso. L'imputata, inserito nella cartella il referto del collega chirurgo, aveva congedato il paziente, senza indicare al medesimo di tornare in pronto soccorso: egli era quindi ritornato a casa, sulla base del foglio consegnatogli dal medico ortopedico.
La Corte di Cassazione ha ritenuto come la motivazione della Corte d'Appello di Salerno circa la condotta dell'imputata successiva alla consulenza chirurgica non fosse convincente ai fini dell'esclusione della posizione di garanzia. Pur essendo infatti indiscutibile - come predetto - l'insufficienza del mero invio a consulenza ai fini dell'assunzione della posizione di garanzia all'interno di una struttura sanitaria complessa, e ferma restando la presa in carico del paziente da parte dei medici del pronto soccorso, i giudici di legittimità hanno reputato necessario approfondire il seguente aspetto della fattispecie in esame: se risultassero elementi per affermare che, a seguito della consulenza chirurgica, e prima di lasciare l'ospedale, il paziente, insiema alla propria coniuge, fosse o meno ritornato dal medico ortopedico, informandola della consulenza e consegandole il relativo referto. Proprio tale circostanza, infatti, è stata ritenuta da parte del Collegio, se accertata, indicativa della presa in carico ed in gestione del paziente anche da parte dell'imputata, con conseguente assunzione della posizione di garanzia da parte della medesima.
La Corte d'Appello, invece, non confrontandosi con le motivazioni del Tribunale, si era limitata a giudicare inattendibili le dichiarazioni rese sul punto dalla moglie della vittima, senza offrire a questo proposito un'adeguata argomentazione, anche alla luce del tenore delle altre testimonianze e del complessivo materiale istruttorio acquisito.
Per tale mortivo, e atteso che il giudice d'appello ha l'obbligo, in caso di riforma in senso assolutorio della sentenza di primo grado, di strutturare la motivazione della propria decisione in maniera rafforzata (riesaminando, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice, considerando quello eventualmente sfuggito alla sua valutazione e quello ulteriormente acquisito, in modo da dare alle parti della prima sentenza non condivise una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni), la Corte di Cassazione si è pronunciata per l'annullamento della sentenza impugnata in riferimento alla posizione del medico ortopedico, con conseguente rinvio al giudice civile.
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Ulteriori contributi in tema di responsabilità medica:
- specifiche posizioni di garanzia degli esercenti la professione sanitaria:
- linee guida in ambito sanitario:
- responsabilità d'equipe:
- 590 sexies c.p. e Legge Gelli-Bianco:
- profili processuali in tema di responsabilità medica:
- delitti dolosi degli esercenti la professione sanitaria:
- responsabilità medica e risarcimento del danno: