La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 27539, pronunciata all'udienza del 30 gennaio 2019 (deposito motivazioni in data 20 giugno 2019), ha preso in esame la questione relativa al criterio distintivo tra i delitti di interruzione colposa della gravidanza ed omicidio colposo.
Il giudizio di legittimità è stato introdotto dal ricorso presentato da un'imputata avverso la Sentenza con cui la Corte d'Appello di Salerno aveva confermato la pronuncia di condanna emessa nei suoi confronti dal Tribunale della medesima città per il reato di cui all'art. 589 c.p.; la ricorrente era stata ritenuta responsabile di aver cagionato, in qualità di ostetrica, la morte, in utero, di un feto. L'evento fatale, verificatosi all'esito di una sofferenza fetale durata, secondo quanto accertato nel giudizio di merito, non meno di trenta minuti, era stato ritenuto conseguente ad un comportamento colposo dell'ostetrica, addetta all'assistenza della partoriente e al controllo delle fasi di travaglio.
In particolare, all'imputata era stato addebitato il mancato espletamento dei necessari monitoraggi cardiotocografici; mentre effettuava delle stimolazioni manuali per indurre la dilatazione del collo dell'utero della paziente, l'ostetrica aveva tranquillizzato due volte il medico ginecologo riguardo l'andamento lento, ma regolare del travaglio, senza tuttavia più rilevare il battito fetale. Ciò aveva impedito di scoprire la sofferenza fetale già in atto e, stante anche l'omessa comunicazione al ginecologo, non era stato perciò possibile adottare le manovre urgenti ed indispensabili per scongiurare la morte in utero del feto.
Con uno dei motivi di ricorso, l'imputata lamentava violazione di legge in relazione all'erronea qualificazione giuridica della fattispecie concreta, ricondotta al delitto di omicidio colposo anzichè a quello di aborto colposo di cui all'art. 17 l. 194/78 (ora art. 593 bis c.p.).
La ricorrente osservava come, in sentenza, fosse stata affermata, quale dato incontrovertibile, la morte in utero del feto, che non aveva mai, infatti, respirato autonomamente. A questo riguardo, il feto, pur essendo soggetto giuridico meritevole di tutela in base ai principi affermati dalla giurisprudenza nazionale ed internazionale, non sarebbe tuttavia da considerarsi quale persona, nel senso inteso dalla legge penale; una diversa interpretazione costituirebbe una violazione del divieto di analogia in malam partem, previsto dagli artt. 25 Cost., 7 CEDU, 1 c.p. e 14 preleggi.
La nascita del feto, del resto, si realizzerebbe solo a seguito della fuoriuscita dall'alveo materno, e con il compimento di un atto respiratorio, accertabile mediante docimasia polmonare.
Contestualmente, la ricorrente sollevava altresì questione di legittimità costituzionale dell'art. 589 c.p., per violazione degli artt. 25 comma 2 e 117 Cost. e 7 CEDU. Ella affermava come, attese le più recenti evoluzioni culturali e giurisprudenziali circa lo status e la tutela del prodotto del concepimento, tale disposizione del codice penale violerebbe i principi di tassatività, frammentarietà e sufficiente determinatezza della fattispecie penale: in essa non sarebbe infatti contenuta un'accezione univoca del concetto di "persona", con esclusione o inclusione del feto umano.
D'altra parte - si aggiungeva nel motivo di ricorso - la fattispecie di cui all'art. 578 c.p., relativa all'infanticidio in condizioni di abbandono morale o materiale, non equipara, ma anzi distingue le ipotesi di morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto o del feto durante il parto. Ne deriverebbe come la portata punitiva delle disposizioni incriminatrici di cui agli artt. 575 e 589 c.p. non possa essere estesa altresì alle ipotesi di morte del nascituro nella fase finale delle gravidanza; nè una diversa soluzione comporterebbe quale esito paradossale la mancata punizione dei casi di soppressione del feto nelle ipotesi di fatto commesso per motivazioni diverse rispetto a quelle enunciate dall'art. 578 c.p.. La morte del feto sarebbe infatti da inquadrare tra le ipotesi previste dagli artt. 17 ss. l. 194/78 e, alle particolari condizioni ivi descritte, dall'art. 578 c.p..
La Suprema Corte ha innanzitutto escluso l'opportunità di assumere quale riferimento, ai fini della soluzione della questione introdotta, la disposizione di cui all'art. 578 c.p.. Essa, infatti, come anticipato, prevede una situazione del tutto particolare, ossia le condizioni di abbandono morale e materiale connesse al parto, ed è dunque inquadrabile quale fattispecie speciale in relazione all'omicidio. Rispetto alla fattispecie di procurato aborto, invece, il principale elemento distintivo è rappresentato dal momento in cui avviene l'azione criminosa: quest'ultima si realizza, infatti, in un momento precedente il distacco del feto dall'utero materno, mentre la condotta di cui all'art. 578 c.p. ha luogo dal momento del distacco del feto dall'utero materno, durante il parto se si tratta di un feto o immediatamente dopo il parto se si tratta di un neonato. Ne consegue - hanno aggiunto i giudici di legittimità che, qualora la condotta volta a sopprimere il prodotto del concepimento sia realizzata dopo il distacco, naturale od indotto, del feto dall'utero materno, il fatto è qualificabile quale omicidio volontario, salvo il ricorrere della fattispecie di cui all'art. 578 c.p. nell'ipotesi di abbandono materiale o morale della madre.
Tanto premesso, la Corte ha poi osservato come i reati di omicidio, da un lato, e quelli di infanticidio-feticidio dall'altro, tutelino lo stesso bene giuridico, ossia la vita dell'uomo nella sua interezza. Tanto può essere affermato sulla base del testo della disposizione di cui all'art. 578 c.p. ("cagiona la morte"), analogo a quello del reato di omicidio. Da ciò si può osservare come il legislatore abbia sostanzialmente riconosciuto anche al feto la qualità di "uomo", sulla base dell'assunto per cui "la morte è l'opposto della vita"; ne consegue come i due reati tutelino il bene giuridico della vita umana fin dal suo momento iniziale e come il dies a quo, da cui decorre la tutela predisposta dall'una e dall'altra fattispecie, sia il medesimo. Come anticipato, l'art. 578 c.p., mediante la locuzione "durante il parto", specifica come nel concetto di "uomo", inteso nel senso di soggetto passivo del delitto di omicidio, sia da ricomprendere anche il "feto nascente"; prima di tale limite, la vita del prodotto del concepimento trova tutela nella diversa fattispecie incriminatrice del procurato aborto.
Da un punto di vista strettamente terminologico, il Collegio ha chiarito come non debba trarre in inganno l'utilizzo che sovente viene fatto dei termini "feto" e "aborto".
Il primo, compreso nel testo dell'art. 578 c.p., è, in realtà, usato in maniera impropria, in quanto "il nascente vivo non è più feto, nè in senso biologico nè in senso giuridico, bensì persona, e così, se in un parto, naturalmente o provocatamente immaturo, il nascente è un essere vivo, la sua uccisione volontaria costituisce omicidio o feticidio, qualunque sia stata la durata della gestazione".
Per quanto invece concerne il termine "aborto", nella scienza medica esso è inteso come "l'interruzione spontanea o artificiale della gravidanza in un periodo in cui il feto non è ancora vitale per l'insufficienza del suo sviluppo (prima del suo 180 giorno); nel linguaggio giuridico penale, invece, l'aborto è qualificato come "ogni interruzione del processo fisiologico della gravidanza con la conseguente morte del feto", ma il legislatore ha utilizzato, per tale reato, la più neutra espressione di "interruzione della gravidanza".
Tornando ai criteri distintivi tra i reati in discorso, la Corte ha dato soluzione al quesito relativo alla qualificazione giuridica della fattispecie del parto indotto prematuramente e fuori dalle modalità consentite dalla legge, conclusosi con la morte del prodotto del concepimento. Qualora non ricorrano altri elementi specializzanti, e considerato il principio per cui la tutela della vita non può soffrire lacune, si è affermato come tale illecito sarà qualificabile come omicidio o procurato aborto a seconda che il nascente abbia goduto "di vita autonoma o meno". In particolare, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il criterio distintivo tra le fattispecie di interruzione colposa della gravidanza ed omicidio colposo risiede nell'inizio del travaglio e, dunque, nel raggiungimento dell'autonomia del feto, momento che coincide quindi con la transizione dalla vita intrauterina a quella extrauterina. Tale criterio - ha aggiunto il Collegio - ha sostituito quello, in precedenza indicato, del momento del distacco del feto dall'utero materno, che era stato ritenuto non offire "riferimenti temporali sufficientemente precisi".
Così ricostruito il sistema dei criteri distintivi tra i reati in discorso, la Corte di Cassazione ha quindi affermato come tale disciplina appaia priva di profili di incostituzionalità, essendo inserita in un contesto normativo e giurisprudenziale nazionale ed internazionale che ha ampliato "la tutela della persona e della nozione di soggetto meritevole di tutela, che dal nascituro e al concepito si è poi estesa fino all'embrione".
Ne consegue come l'inclusione dell'uccisione del feto nell'ambito dell'omicidio non comporti un'analogia in malam partem, ma una mera interpretazione estensiva, da considerarsi legittima in relazione alle norme penali incriminatrici. Quanto all'enunciazione della nozione di "uomo" quale vittima del reato, essa, per quanto generica "consente al giudice, avuto riguardo anche alla finalità di incriminazione ed al contesto ordinamentale sopra descritto in cui si colloca, di stabilire con precisione il significato della parola, che isolatamente considerata potrebbe anche apparire non specifica, ed al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del valore precettivo di essa".
Infine, ha osservato il Collegio, se si volesse ragionare diversamente, il feto, alla naturale e fisiologica conclusione della gravidanza, sarebbe tutelato, assurdamente, contro i fatti lesivi della vita, solo nel caso di morte procurata nelle condizioni di cui all'art. 578 c.p., mentre la mancanza di tale elemento specializzante comporterebbe un vuoto di tutela, determinato dall'impossibilità di applicare tanto la fattispecie di procurato aborto quanto quella di omicidio.
Sulla base di tali motivazioni, la Corte ha ritenuto infondato il motivo d'impugnazione e, stante l'infondatezza anche degli altri motivi, ha rigettato il ricorso proposto dall'imputata.