mercoledì 22 febbraio 2023

Responsabilità del medico di pronto soccorso: diagnosi differenziale e principio di affidamento.

In materia di responsabilità medica, la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 2850, pronunciata all'udienza del 20 ottobre 2022, ha preso in esame il tema concernente gli obblighi cautelari informativi gravanti sul medico di pronto soccorso in presenza di una sintomatologia idonea a formulare una diagnosi differenziale.

Il fatto.

Due medici, in servizio presso il Pronto Soccorso di una struttura ospedaliera, imputati per il reato di omicidio colposo, proponevano ricorso avverso la sentenza con cui la Corte d'appello di Reggio Calabria, dichiarando non doversi procedere nei confronti dei medesimi per intervenuta prescrizione, ne aveva confermato la responsabilità ai fini civili in ordine a detto delitto. 

Nella fattispecie, un paziente, in compagnia della moglie, si era presentato al Pronto Soccorso per dolore toracico con senso di indolenzimento al braccio sinistro, e l' infermiera triagista gli aveva assegnato codice rosso. Uno dei due imputati aveva eseguito un ECG, che non era stato refertato né sottoposto in visione a un cardiologo, nonché gli esami del sangue, da cui era emerso unicamente un forte aumento del parametro CK-MB, risultando, invece, gli altri nella norma. Successivamente, il sanitario coimputato, alla presenza del collega, lo aveva dimesso con diagnosi di toracoalgia, ed il paziente aveva sottoscritto una formula prestampata di richiesta di dimissioni. Su suggerimento degli imputati, egli, nelle ore successive, aveva assunto due pastiglie di antinfiammatorio/antidolorifico, ed il giorno successivo si era recato al lavoro. Nel corso della sera, tuttavia, si era sentito male, ed il personale dell'autoambulanza, nel frattempo intervenuto, ne aveva constatato il decesso. L'autopsia aveva in seguito chiarito come il paziente fosse morto a seguito di cardiopatia ischemica evoluta, in assenza di trattamento terapeutico, in infarto miocardico acuto con terminale arresto cardiaco. 

Secondo quanto ritenuto dai giudici di merito, i due imputati avevano cagionato per colpa la morte del paziente, formulando una diagnosi errata, omettendo di interpellare un cardiologo, di approntare un'idonea terapia e di ricoverare il paziente, anche solo per una breve osservazione clinica.

La decisione.

La Suprema Corte ha, innanzitutto, osservato come fosse stata ritenuta provata dai giudici di merito la circostanza per cui il paziente, all'atto di allontanarsi, non era stato adeguatamente informato sulle possibili cause del malessere accusato; era, invece, stata smentita la tesi per cui i due medici avessero fatto di tutto per trattenerlo, stante l'assenza di tracce documentali in tal senso (in atti era presente un foglio standard di dimissioni volontarie, uguale a quello siglato dai pazienti non ricoverati o trattenuti quella notte), nonchè sulla base della massima di esperienza per cui chi si reca al Pronto Soccorso in piena notte per dolore irradiante al torace difficilmente si allontana, addirittura contro il parere dei medici, senza aver ricevuto una diagnosi tranquillizzante. 

I giudici di legittimità, rigettando il motivo di ricorso proposto dal responsabile civile, hanno quindi confermato la sussistenza del nesso di causa tra la condotta dei sanitari e l'evento mortale. I ricorrenti avevano affermato l'esistenza di decorsi casuali autonomi, tali da interrompere il nesso fra l'errore diagnostico e l'evento letale, individuando i medesimi nelle dimissioni volontarie del paziente e nell' intervento intempestivo del soccorso del 118 al momento del malore occorso a quest'ultimo la sera seguente all'accesso in Pronto Soccorso. Sul punto, la Corte d'Appello aveva invece evidenziato come nessuna serie causale autonoma si fosse inserita fra la condotta colposa dei sanitari e l'evento letale, tale da interrompere il nesso di causa ex art. 41 comma 2 c.p.. Richiamata la consolidata giurisprudenza di legittimità sul punto, i giudici di merito avevano rilevato - correttamente, secondo la Suprema Corte - come gli ipotizzati decorsi causali sopravvenuti si fossero inseriti nel processo causale determinato dall'omessa diagnosi, e non fossero stati da soli sufficienti a determinare l'evento. L'allontanamento del paziente dalla struttura sanitaria non era stato, infatti, volontario, ma era avvenuto solo perchè i medici avevano errato la diagnosi ed avevano escluso qualsiasi patologia cardiaca. 

In ordine a tale profilo, la Suprema Corte ha dunque riaffermato il principio giurisprudenziale già fatto proprio dalla stessa Quarta Sezione Penale con la Sentenza Masone n. 8464/2022, secondo il quale: "In tema di responsabilità da colpa medica, è configurabile colpa per negligenza nella condotta del medico del pronto soccorso che, in presenza di sintomatologia idonea a formulare una diagnosi differenziale, non rispetti l'obbligo cautelare informativo di rendere edotto il paziente circa l' insufficienza dei dati diagnostici acquisiti per individuare l'effettiva patologia che lo affligga, così da prevenire il rischio di scelte inconsapevolmente ostative agli approfondimenti diagnostici e alle cure". 

Al riguardo, si è inoltre rilevato, condividendo quanto ritenuto dalla Corte d'Appello, come il ritardo di venti minuti dell'autoambulanza si fosse, comunque, inserito in una serie causale già innescata, e non potesse avere inciso sul decorso infausto: il passare delle ore in assenza di ricovero e cure aveva, infatti, condotto ad una totale perdita di sangue e ossigeno al cuore ed alle cellule del miocardio, con relative necrosi del muscolo e arresto cardiocircolatorio irreversibile; di conseguenza, nulla avrebbero potuto fare i sanitari del soccorso domiciliare del servizio autoambulanza.

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La Suprema Corte ha poi confermato il carattere colposo della condotta degli imputati. 

Tramite i propri motivi di ricorso, essi avevano sostenuto di aver agito, per la parte di loro competenza, nel rispetto delle regole cautelari, ed avevano invocato reciprocamente l'applicazione del principio di affidamento. Uno dei due sanitari aveva infatti affermato di essere intervenuto nella fase finale, al momento delle dimissioni, quale mero trascrittore del relativo foglio, e di essersi pertanto ragionevolmente fidato dell'operato del collega, che aveva gestito in via esclusiva il paziente. Il coimputato aveva invece sostenuto di aver prescritto al paziente tutti gli esami opportuni in relazione alla sintomatologia dallo stesso riportata, ponendo in evidenza come spettasse, semmai, al sanitario subentrante la verifica circa gli esiti degli esami e la disposizione del ricovero.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha innanzitutto rilevato come l'affermazione della responsabilità, a fini civili, di entrambi gli imputati fosse correttamente avvenuta sulla base delle conclusioni del collegio peritale, il quale aveva rilevato imperizia e negligenza dei medici nell'omissione della diagnosi, che invece avrebbe dovuto essere formulata alla luce dell'esito degli esami svolti. 

Al riguardo, i giudici di legittimità hanno dunque ribadito il consolidato principio della giurisprudenza di legittimità per il quale: "risponde di omicidio colposo per imperizia nell'accertamento della malattia e per negligenza nella omissione delle indagini necessarie il medico che, in presenza di una sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, rimanga fermo alla diagnosi iniziale, nonostante la sussistenza di indicatori tali da inficiare tale diagnosi, e non svolga i necessari accertamenti". 

La Suprema Corte ha osservato come tale assunto sia tanto più valido con riferimento all'attività sanitaria propria del medico di Pronto Soccorso, il quale interviene in situazione di urgenza ed è tenuto, sulla base delle sue specifiche competenze, ad effettuare diagnosi differenziali e a decidere, di volta in volta, sulla base della sintomatologia riferita dal paziente e dei risultati degli esami, se procedere ad accertamenti ulteriori ed al ricovero.

Nella fattispecie, il primo sanitario intervenuto aveva fatto  eseguire gli esami, che in prima battuta si erano resi necessari in ragione dei sintomi manifestati, ma aveva omesso di analizzarli compiutamente, anche attraverso l'ausilio di un medico cardiologo, ed aveva partecipato anche alla fase finale delle dimissioni del paziente, accompagnate dalla rassicurazione in merito all'assenza di patologia cardiaca. Il collega aveva invece materialmente redatto le dimissioni, senza valutare, come invece avrebbe dovuto, i risultati degli esami che erano stati disposti dal primo medico, dei quali anch'egli disponeva, e che indicavano univocamente l'esistenza di una patologia cardiaca da trattare con urgenza. Infine, entrambi i sanitari, nella propria qualità di medici in servizio presso il Pronto Soccorso, avevano trattato il paziente ed avevano assunto nei suoi confronti una posizione di garanzia, da cui conseguiva una responsabilità per la condotta tenuta in violazione della regola cautelare. L' istruttoria aveva infatti consentito di accertare come non vi fosse stato alcun avvicendamento nelle posizioni di garanzia nella gestione del paziente, ma piuttosto una trattazione congiunta del caso.

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Con riguardo alla questione inerente al principio dell'affidamento, la Corte ha dapprima rilevato come esso sia stato elaborato dalla giurisprudenza di legittimità in relazione alla attività sanitaria in equipe, ovvero alle ipotesi in cui più soggetti, medici e/o paramedici, svolgano attività di cura del paziente in maniera coordinata, congiuntamente, nello stesso contesto spazio-temporale, ovvero in maniera disgiunta, in contesti temporali diversi, realizzando in tal caso un fenomeno di successione nel tempo nella posizione di garanzia. Di regola, infatti, la plurisoggettività si accompagna ad una suddivisione di compiti, essendo ciascun operante specializzato in una determinata branca medica pertinente alla cura richiesta dal paziente. Si è, quindi, sostenuto come, nell'ambito del gruppo, ciascun medico è responsabile per l'errore proprio, avente genesi nella violazione delle regole cautelari specificamente previste per il proprio settore di specializzazione, non potendo muoversi allo stesso alcun rimprovero per non aver previsto e/o non aver posto rimedio all'errore altrui causalmente collegato all'esito infausto. La consolidata giurisprudenza di legittimità afferma dunque, al riguardo che: "In tema di colpa professionale, in caso di intervento chirurgico in equipe, il principio per cui ogni sanitario è tenuto a vigilare sulla correttezza dell'attività altrui, se del caso ponendo rimedio ad errori che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio, non opera in relazione alle fasi dell' intervento in cui i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti, dovendo trovare applicazione il diverso principio dell'affidamento per cui può rispondere dell'errore o dell'omissione solo colui che abbia in quel momento la direzione dell' intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica, non potendosi trasformare l'onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui").

Nei casi, dunque, in cui il garante precedente abbia posto in essere una condotta colposa che abbia avuto efficacia causale nella determinazione dell'evento, unitamente alla condotta colposa del garante successivo, persiste la responsabilità anche del primo in base al principio di equivalenza delle cause, a meno che possa affermarsi l'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta.

Nel caso di specie, i giudici di legittimità hanno affermato come il principio dell'affidamento non potesse essere utilmente evocato da nessuno dei due imputati. Essi, infatti, investiti della posizione di garanzia, quali medici in turno nel servizio di Pronto Soccorso ospedaliero, avevano gestito il paziente, quanto meno nella fase finale delle dimissioni, in contemporanea, senza alcuna suddivisione di compiti, e senza che fosse individuabile una specifica competenza di uno dei due rispetto all'altro.

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La Corte ha, infine, rigettato il motivo di ricorso proposto dal responsabile civile, il quale sosteneva come, secondo quanto affermato dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 23724 del 13/04/2005, dovesse escludersi che nei processi in cui siano imputati medici ospedalieri di pronto soccorso le aziende possano essere citate e condannate al risarcimento dei danni quale responsabile civile per il fatto dei sanitari. La struttura, infatti, non risponde per il fatto dei medici, ma risponde per il fatto proprio, in quanto ha un autonomo rapporto, e conseguente responsabilità diretta nei confronti del paziente.

Sul punto, i giudici di legittimità hanno rilevato come nel processo penale l'azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno da parte del soggetto danneggiato possa essere esercitata nei confronti dell' imputato e del responsabile civile. Tale ultima nozione è riferita, ai sensi dell'art. 185 c.p., a coloro che devono rispondere per il fatto dell' imputato in base alle leggi civili, ovvero fra gli altri, ai padroni (datori di lavoro) e committenti per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi, ex art. 2049 c.c..

Nello specifico, i medici ospedalieri, ivi compresi i medici strutturati in servizio presso il Pronto Soccorso, sono alle dipendenze dell'Azienda Ospedaliera: nel caso, dunque, di reato commesso dal medico ospedaliero, la parte civile può agire in sede penale per ottenere il risarcimento del danno nei confronti del medico e nei confronti dell'Azienda ospedaliera quale datore di lavoro del medico.

Nel caso in esame, dunque, correttamente la condanna al risarcimento del danno patito dalla parte civile era stata pronunciata nei confronti degli imputati e nei confronti del responsabile civile Azienda Ospedaliera. La Corte d'Appello aveva tuttavia fondato tale affermazione su di un errato percorso argomentativo, ritenendo come l'Azienda Ospedaliera fosse tenuta al risarcimento direttamente in base al contratto d'opera professionale concluso con il paziente; avrebbe, invece, dovuto stabilire come la medesima azienda ospedaliera fosse tenuta al risarcimento per il fatto del dipendente.

La sentenza citata dal ricorrente afferma, ha rilevato la Corte, un principio diverso da quello trattone dal ricorrente e dalla stessa Corte d'Appello: ovvero quello per cui il medico ospedaliero imputato di reato commesso per colpa professionale non può, nel caso di costituzione di parte civile, chiamare nel processo quale responsabile civile l'Azienda ospedaliera di appartenenza; la Corte Costituzionale, infatti, con la sentenza n. 112 del 16 aprile 1998, dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 83 c.p.p. - a norma del quale la citazione del responsabile civile può essere effettuata solo a richiesta della parte civile e del Pubblico ministero nel caso di cui all'art. 77, comma 4 c.p.p. - nella parte in cui non prevede che l' imputato, nel caso di responsabilità civile derivante dall'assicurazione obbligatoria prevista dalla L. 24 dicembre 1969, n. 990, possa citare l'assicuratore quale responsabile civile.

Nel caso in esame, tuttavia, la citazione dell'azienda ospedaliera era avvenuta su richiesta della parte civile, a norma appunto dell'art. 83 c.p.p., nei confronti del soggetto tenuto, in quanto datore di lavoro, al risarcimento del danno ex art. 185 c.p..

Sulla base di tali motivazioni, la Corte di Cassazione ha dunque rigettato il ricorso, confermando il giudizio di responsabilità penale dei due sanitari.