In materia di diritto penale societario, la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 2514, pronunciata all'udienza del 4 dicembre 2023 (deposito motivazioni in data 19 gennaio 2024) ha preso in esame il tema relativo ai criteri per l'individuazione dell'amministratore di fatto ed alla corresponsabilità del medesimo, ex art. 40 comma 2 c.p., in relazione alle condotte illecite riferibili all'amministratore di diritto.
Il fatto.
Un imputato proponeva ricorso avverso la sentenza con cui la Corte d'appello di Bologna ne aveva confermato la penale responsabilità per il reato di cui agli artt. 110 c.p., 216 comma 1 n. 2 e 223 Legge fall..
All'imputato, in qualità di amministratore di fatto di una s.r.l., dichiarata fallita, era stato contestato, in concorso con la moglie, di avere tenuto le scritture contabili in maniera tale da non consentire la ricostruzione del movimento degli affari e del patrimonio, anche mediante l'utilizzo di fatture false, nonché di avere distratto somme di denaro dell'ammontare di 385.700 euro, per mezzo di prelievi, qualificati dall'imputato come spese vive sostenute dall'amministratore e contabilizzate nei bilanci, pur in assenza di alcun verbale assembleare autorizzativo dei compensi e di alcuna riconciliazione con la contabilità societaria; di prelevamenti indicati nel mastrino cassa, di cui era risultata ignota la destinazione finale ed il loro utilizzo; di prestiti erogati ai dipendenti, ma nella realtà mai corrisposti, nonché di un pagamento di in contanti a tre società, per presunti lavori effettuati dalle stesse presso la fallita, ma in realtà mai eseguiti.
Tramite alcuni dei propri motivi di ricorso, l'imputato contestava un vizio di motivazione con riferimento al proprio presunto ruolo di amministratore di fatto, ed in particolare in ordine alla "sfera gestionale". La prova del ruolo di amministratore di fatto, sosteneva il ricorrente, implica l'accertamento di una serie di indici sintomatici tipizzati dalla prassi giurisprudenziale, dei quali i giudici di merito non avevano tenuto conto; essi, infatti, pur riconoscendo che la coniuge dell'imputato "aveva sempre l'ultima parola" in materia amministrativa, avevano affermato come tale circostanza non fosse incompatibile con l'attribuzione all'imputato di un ruolo di primo piano nella sfera gestionale dell'impresa. Sul punto, si contestava, altresì, la mancata motivazione sulla precisazione di quali sarebbero stati i compiti asseritamente svolti dal ricorrente con riferimento alla sfera gestionale che, ai fini della bancarotta contestata, non attiene, tanto, alla gestione del personale, quanto ad un potere di spesa (rilevante ai fini di una condotta di distrazione).
Ancora, si poneva in evidenza come la circostanza per cui non vi fosse disaccordo tra i membri della famiglia dell'imputato non fosse, di per sé, sufficiente ad affermare, come aveva fatto la Corte territoriale, che il medesimo fosse l'amministratore di fatto della società. Inoltre, quanto all'estensione della punibilità dei fatti di bancarotta fraudolenta all'amministratore di fatto, si evidenziava che la circostanza per cui la coniuge avesse l'ultima parola escludeva un ruolo di preminenza assoluta nella gestione della società da parte dell'imputato. Inoltre, non era emerso che fosse lui l'unico responsabile della contabilità, e che fosse dotato di autonomia decisionale, non essendo questa a lui attribuibile neppure pensando alla figura dell'institore, in considerazione del potere decisionale che aveva invece la coniuge.
La decisione.
La Suprema Corte ha ritenuto tali motivi di ricorso affetti da genericità estrinseca ed intrinseca. I giudici di legittimità non hanno condiviso la doglianza fondata, in sostanza, sulla circostanza per cui la moglie dell'imputato, alla quale i fatti erano contestati nella qualità di amministratrice formale della società fallita, avrebbe avuto "l'ultima parola", ossia un potere decisionale assorbente tale da escludere la riconducibilità dell'amministrazione - di fatto - al coniuge. Tale "ultima parola", si è infatti osservato, era relativa alla gestione amministrativa, e non afferiva, quindi, a tutti gli ambiti gestionali, rispetto ai quali poteva dispiegarsi la gestione societaria. Nel corso del giudizio di merito, infatti, nel ricostruire la qualifica attribuita all'imputato, era stato accertato il ruolo centrale che egli aveva rivestito nella società, curando, lui, i rapporti con la clientela e con i dipendenti, ed essendo a lui riconducibile anche la decisione in merito al licenziamento di alcuni dipendenti e la scelta degli approvvigionamenti.
Ciò posto, la Corte ha osservato come la posizione dell'amministratore di fatto, destinatario delle norme incriminatrici della bancarotta fraudolenta, vada determinata con riferimento alle disposizioni civilistiche che, regolando l'attribuzione della qualifica di imprenditore e di amministratore di diritto, oltre che quella di amministratore di fatto, tramite l'estensione delle qualifiche soggettive disciplinata dall'art. 2639 c.c., costituiscono la parte precettiva di norme sanzionate dalla legge penale. Sul punto, si è rilevato che, a mente della giurisprudenza di legittimità: "La disciplina sostanziale si traduce, in via processuale, nell'accertamento di elementi sintomatici di gestione o cogestione della società, risultanti dall'organico inserimento del soggetto, quale " intraneus" che svolge funzioni gerarchiche e direttive, in qualsiasi momento dell'"iter" di organizzazione, produzione e commercializzazione dei beni e servizi - rapporti di lavoro con i dipendenti, rapporti materiali e negoziali con i finanziatori, fornitori e clienti - in qualsiasi branca aziendale, produttiva, amministrativa, contrattuale, disciplinare (Sez. 1, n. 18464 del 12/05/2006).
Pertanto, la ricostruzione del profilo di amministratore di fatto deve condursi, in ambito penalistico, alla stregua di specifici indicatori, individuati non soltanto rapportandosi alle qualifiche formali ovvero alla mera rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta, bensì sulla base delle concrete attività dispiegate in riferimento alla società oggetto d'analisi, riconducibili - secondo validate massime di esperienza - ad indici sintomatici, quali la diretta partecipazione alla gestione della vita societaria, la generalizzata identificazione nelle funzioni amministrative da parte dei dipendenti e dei terzi, l'intervento nella declinazione delle strategie d'impresa e nelle fasi nevralgiche dell'ente economico. Ne consegue, si è ancora evidenziato, come non si debba porre l'accento unicamente sulla formale assegnazione della qualifica di amministratore, ma anche sulla sostanziale allocazione interna all'organizzazione societaria delle competenze proprie di tale figura. Lo svolgimento di fatto di funzioni gestorie, infatti, può derivare non solo dal caso in cui il soggetto eserciti, pur in assenza di una formale investitura, le funzioni ed i poteri tipici delle corrispondenti figure di diritto - tra le quali vi è anche quella dell'institore, riguardo alla quale, ai sensi dell'art. 227 l.f., si applicano le disposizioni di cui all'art. 216 l.f. - ma anche dalle ipotesi in cui l'atto di nomina sia per qualsiasi ragione invalido (ad esempio perché adottato in presenza di cause di ineleggibilità) oppure revocato.
Ai fini dell'attribuzione della qualifica di amministratore "di fatto", si è dunque rilevato, è sufficiente la presenza di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società, quali i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare (Sez. 5, n. 45134 del 27/06/2019).
Ancora, la Corte ha osservato come, ai fini dell'attribuzione ad un soggetto della qualifica di amministratore "di fatto" non occorre - così come per i casi di amministrazione formale - l'esercizio di "tutti" i poteri tipici dell'organo di gestione, potendosi verificare ipotesi di cogestione, anche di fatto, ma è necessaria, e sufficiente, una significativa e continua attività gestoria, svolta cioè in modo non episodico od occasionale, tale da fornire elementi sintomatici dell'organico inserimento del soggetto, quale intraneus, nell'assetto societario. Indici dimostrativi di tale posizione di fatto, sono individuabili, tra gli altri, nell'intervento nella declinazione delle strategie d'impresa e nelle fasi nevralgiche dell'ente economico, e tali sono da ritenere certamente proprio quelle attività involgenti la gestione, con potere decisionale, dei dipendenti e delle commesse cui è conseguita la identificazione nelle funzioni amministrative da parte dei dipendenti e dei terzi.
Non può, inoltre, ritenersi estraneo a tale accertamento il contesto illecito in cui si inseriscono i comportamenti di fatto assunti dall'agente, potendo assumere valenza corroborativa, unitamente agli altri elementi, le stesse condotte criminose poste in essere dal soggetto agente che, per l'incidenza che esse possono avere sull'assetto e sulla stessa vita della società, sono diretta esplicazione di un potere decisionale assoluto, proprio di chi svolge attività quale dominus indiscusso delle stesse sorti della società.
In altri termini, quindi, hanno rilevato i giudici di legittimità, l'apprezzamento de quo non può ritenersi limitato alla fisionomia delineata dal codice civile, che declina lo status di amministratore, anche di fatto, nella dimensione fisiologica dell'attività d'impresa, ma va riguardato nel più ampio contesto delle ingerenze e degli interessi antigiuridici che possono contaminare il ruolo svolto e che finiscono con il colorarlo ulteriormente attraverso la sua devianza illecita.
Ciò posto, il Collegio ha osservato come, ai fini della esclusione della qualifica di amministratore di fatto, non potrebbe assumere, di per sé, rilievo decisivo la circostanza che i poteri di fatto esercitati dal soggetto agente non involgano direttamente le condotte criminose fallimentari, quali - come si era verificato nel caso di specie - quelle distrattive implicanti poteri di spesa (che secondo la difesa dell'imputato non erano stati accertati in capo al medesimo), dal momento che, una volta riconosciuta la qualifica di amministratore di fatto, in base a plurimi elementi convergenti in tal senso, ne deriva che:
1) delle condotte distrattive - oltre che di quelle documentali - ne debba rispondere l'amministratore di fatto, se del caso in concorso con quello formale, a prescindere dal fatto che esse siano direttamente collegabili o meno ai settori in cui si è esplicata l'attività gestoria dell'amministratore di fatto;
2) questi potrebbe andare esente da responsabilità solo nel caso in cui dovesse risultare che la sottrazione dei beni sia avvenuta per evento del tutto imprevedibile a lui non imputabile; con la conseguenza che il profilo della settorializzazione dell'amministrazione, circoscritta, cioè, solo a determinati ambiti, potrebbe al più rilevare sul piano dell'integrazione, in concreto, della fattispecie criminosa, ma giammai di per sé ai fini della configurazione della qualifica di amministratore, che, come detto, si acquisisce anche nel caso in cui l'amministrazione si esplica solo in determinati settori e prescinde dal fatto che le condotte illecite interessino proprio quei settori o altri. Nel caso di specie, peraltro, le attività gestorie del ricorrente erano state individuate anche proprio in relazione ad aspetti involgenti il "potere di spesa" e la tenuta della contabilità.
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Tutto ciò premesso, la Corte ha quindi affermato come, una volta appurato il ruolo di amministratore di fatto in capo ad un soggetto, sul versante della responsabilità penale, discende che questi, gravato dell'intera gamma dei doveri cui è soggetto l'amministratore di diritto, assume, ricorrendo le altre condizioni di ordine oggettivo o soggettivo, la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a quest'ultimo addebitabili, anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia a fronte di tali comportamenti, in applicazione della regola dettata dall'art. 40, comma secondo, c.p. (sez. 5, sentenza n. 15065 del 02/03/2011, Guadagnoli e altri; sez. 5, sentenza n. 39593 del 20/05/2011, Assello; sez. 5, sentenza n. 7203 del 11/01/2008, Salamida); con la conseguenza che, ove pure si dovesse ritenere riferibile all'amministratore di diritto la condotta illecita, quello di fatto, ricorrendo le altre condizioni di ordine oggettivo o soggettivo, non andrebbe essente da responsabilità ai sensi dell'art. 40 citato; a lui una corresponsabilità può essere, infatti, imputata in base alla posizione di garanzia di cui agli artt. 2392 e 2394 cod. civ., in forza dei quali l'amministratore deve conservare il patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi.
Il soggetto il quale abbia assunto, in base all'art. 2639 c.c., la qualifica di amministratore di fatto, essendo tenuto ad impedire, ai sensi dell'art. 40 comma 2 c.p., le condotte illecite riguardanti la gestione della società, o a pretendere l'esecuzione degli adempimenti previsti dalla legge, è responsabile di tutti i comportamenti, sia omissivi che commissivi, posti in essere dall'amministratore di diritto, al quale è sostanzialmente equiparato ai sensi della citata disposizione del codice civile, come sostituita ai sensi dell'art. 1 del D.Lgs 11 aprile 2002 n. 61, che, peraltro, ha prevalentemente natura interpretativa di precedenti, consolidati, approdi giurisprudenziali (Sez. 3, 5 luglio 2012, n. 33385); a parti invertite, ha rilevato il Collegio, vale la medesima regola (fermo restando che si tratta poi in concreto di stabilire le effettive responsabilità in base ai parametri oggettivi e soggettivi che governano l'accertamento del reato).
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Con riferimento al caso di specie, la Suprema Corte ha rilevato come la sentenza impugnata avesse descritto gli indicatori dell'effettiva riconducibilità all'imputato delle scelte gestionali ed operative relative alla società fallita, alla stregua delle prove acquisite, ed in particolare delle dichiarazioni dei dipendenti e dei fornitori delle società, oltre che della ricostruzione svolta dal curatore nelle relazioni ex art. 33 l.f.; nell'imputato era stato, perciò, individuato il reale dominus dell'impresa all'epoca dei fatti, avendo, tra l'altro, il curatore evidenziato che le scelte gestionali, operative e finanziarie della società erano state assunte, dal 2007 al 2012, dal medesimo, ivi comprese quelle sfociate nelle condotte illecite ascritte esclusivamente alla coniuge nell'ambito di un diverso procedimento penale per reati tributari per false fatturazioni (risoltesi, nell'ambito del procedimento a carico dell'imputato, in condotte penalmente rilevanti sul versante della tenuta delle scritture contabili in modo da non rendere possibile la ricostruzione del movimento degli affari e del patrimonio). Non rilevante è stato, invece, considerato che nell'ambito del procedimento penale tributario, svoltosi contro la coniuge dell'imputato, non si fosse accertata l'amministrazione di fatto di quest'ultimo, atteso che i reati tributari erano stati accertati dalla G.d.F. nei confronti dell'amministratore formale che all'epoca era la predetta coniuge.
Ciò posto, la Corte ha ritenuto inconducenti i rilievi difensivi volti a screditare l'accertamento della qualifica di amministratore di fatto in capo all'imputato, a cagione del ruolo che avrebbe anche di fatto assunto l'amministratrice formale - circostanza, questa, che non esclude a rigore, come detto, il concorso nel reato di chi si è ingerito nell'amministrazione societaria - giungendo a circoscrivere il ruolo dell'imputato ad aspetti irrilevanti, laddove esso non si era affatto esaurito nel rapporto di coniugio con l'amministratrice di diritto e nell'assenza di disaccordi in ambito familiare.
Sulla base di tali motivazioni, la Corte di Cassazione ha pertanto dichiarato inammissibile il ricorso.