In materia di sequestro preventivo finalizzato alla confisca del profitto del reato, la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 3468, pronunciata all'udienza del 24 novembre 2023 (deposito motivazioni in data 29 gennaio 2024), ha preso in esame il tema relativo alla qualità di persona estranea al reato ex art. 240 comma 3 c.p. in capo all'amministratore di un'associazione non riconosciuta.
Il fatto.
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Siracusa proponeva ricorso avverso l'ordinanza con cui il Tribunale del riesame aveva annullato il decreto di sequestro preventivo emesso dal G.I.P. nei confronti dell'amministratrice di un'associazione non riconosciuta, per la somma di Euro 48.000, eseguito su titoli, disponibilità di conto corrente e carta di credito; la donna era stata ritenuta soggetto "terzo non estraneo al reato" di cui agli artt. 81 cpv., 110 c.p., 223 co. 2 n. 2 R.D. n. 267/42, attribuito ai liquidatori di una Srl, dichiarata fallita, all'amministratore di una ASD, associazione non riconosciuta, in concorso tra loro, e ad un altro soggetto, ideatore dell'operazione criminosa, socio di maggioranza della società dichiarata fallita e titolare di fatto della ASD. A tali soggetti era stato contestato di aver contribuito a cagionare il dissesto della società poi fallita, realizzando condotte finalizzate a dare in godimento sostanzialmente gratuito alla ASD un immobile costituente una foresteria collegata ad un centro sportivo, di proprietà della società fallita, consentendo a tale associazione di sublocarlo, a sua volta, a titolo oneroso, senza mai direttamente incassarne i frutti civili, in evidente pregiudizio per i creditori.
In particolare, in un primo tempo, il primo dei liquidatori della società fallita, l'amministratore della ASD ed il titolare di fatto di quest'ultima avevano stipulato, per conto della affittuaria ASD stessa, un fittizio contratto di locazione, con la società fallita proprietaria, di un immobile di foresteria, per un canone irrisorio (7500 Euro annui), poi sostanzialmente mai corrisposto; contestualmente, avevano permesso alla ASD di sublocare il bene ad un terzo (una cooperativa sociale), per un canone annuo di Euro 84.000.
Successivamente, una volta divenuto inefficace, per cause giudiziarie, il predetto contratto di locazione, il nuovo liquidatore della fallita, sempre su decisivo input del socio di maggioranza, aveva consentito alla ASD di riappropriarsi dell'immobile tramite una reviviscenza "di fatto" dell'ormai risolto contratto di locazione; si era così permesso alla medesima associazione, ora rappresentata dalla donna successivamente destinataria del decreto di sequestro preventivo, in quanto amministratrice unica, di nuovamente sublocarlo a titolo oneroso a terzi, per un canone annuo di Euro 48.000, sottraendo ancora, in tal modo, risorse destinabili al soddisfacimento dei creditori della società fallita.
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Il Tribunale del riesame, ravvisato il fumus boni iuris del predetto reato ed il periculum in mora, aveva preso in esame la posizione dell'amministratrice della ASD nell'ambito della vicenda, rilevando che:
- ella, in qualità di amministratrice della ASD, aveva sottoscritto il contratto di sublocazione dell'immobile della foresteria in una data in cui la conduttrice precedente, la cooperativa sociale, non aveva ancora firmato la dichiarazione di recesso dal contratto di locazione in essere, relativo al medesimo immobile, stipulato con la fallita; tale nuovo contratto di locazione , concluso con una Srl, aveva consentito di incassare i canoni della pigione "in luogo" della società fallita, con ulteriore, conseguente, danno per quest'ultima;
- la preordinata illiceità dell'operazione poteva desumersi dalla delibera dell'assemblea dei soci della fallita, con cui si dava conto, singolarmente, della maturata scelta della cooperativa di rilasciare l'immobile, perché in condizioni asseritamente "disastrose"; il medesimo, rientrato nella disponibilità "di fatto" della ASD, era già stato da quest'ultima precedentemente subaffittato ad altra società, per un significativo canone di locazione; tale circostanza era, dunque, incompatibile con le presunte condizioni di estrema fatiscenza;
- il profitto del delitto di bancarotta fraudolenta impropria - realizzato attraverso l'indebita interposizione della ASD nei rapporti negoziali che avrebbero dovuto essere gestiti dalla fallita, tramite il corretto incameramento dei proventi da parte di quest'ultima, a salvaguardia dei diritti dei creditori, era stato quantificato in Euro 48.000, rispondente all'entità del credito dei canoni di affitto che la società fallita avrebbe ottenuto se avesse direttamente stipulato il contratto di locazione con la srl;
- non poteva dirsi sussistente alcun ostacolo a che il provvedimento ablativo colpisse il profitto del reato "inteso in termini di credito", essendo esso certo, liquido ed esigibile, e tale doveva ritenersi quello oggetto della pattuita sublocazione;
- il provvedimento di sequestro può interessare il patrimonio delle persone fisiche che hanno agito in nome e per conto dell'associazione, assumendo l'obbligazione dalla quale è derivata la percezione del profitto del reato, ai sensi dell'art. 38 c.c..
Il Tribunale del Riesame aveva, tuttavia, concluso affermando come l'amministratrice della ASD dovesse essere considerata "persona estranea al reato", atteso che il rapporto di parentela (cognata) con il dominus della ASD medesima (nonché socio di maggioranza della fallita) e l'indisponibilità di documentazione utile al momento dell'attività ispettiva non erano sufficienti a dimostrare, in capo alla medesima, la "conoscenza dell' intero progetto fraudolento architettato alle sue spalle" dagli indagati. Ella, in nome e per conto della ASD - e "magari suggerita o pilotata" dal socio di maggioranza della fallita - aveva stipulato il contratto di sublocazione con la Srl, vantaggioso per l'associazione non riconosciuta; non sussistevano, dunque, elementi per riconoscere, in capo alla donna, una mala fede, traibile dalla prova della "conoscenza delle vicende pregresse che avevano interessato la società fallita", e con ciò appropriandosi della foresteria a seguito di riesumazione del contratto di locazione.
Tramite il proprio ricorso, il Pubblico ministero lamentava violazione di legge per la mera apparenza ed intrinseca contraddittorietà della motivazione, in quanto il Tribunale del riesame aveva escluso la mala fede in capo all'amministratrice della ASD, pur sostenendo che ella si era fatta "pilotare" dal cognato, socio di maggioranza della fallita, nella stipulazione del contratto di sublocazione con la Srl. Il ricorrente, pertanto, denunciava erronea applicazione dell'art. 240 terzo comma c.p., in riferimento all'art. 321 comma 2 c.p.p., in quanto "terzo estraneo al reato" può essere considerato soltanto il soggetto che non abbia tratto vantaggi od utilità dal reato, e sia in buona fede, non potendo conoscere, con la diligenza richiesta dalla situazione concreta, l'utilizzo del bene per fini illeciti. Il Tribunale, invece, nel sostenere l'assenza della prova della consapevolezza dell'amministratrice della ASD a riguardo della condotta delittuosa ad altri contestata, aveva confuso il "terzo non estraneo al reato" con il concorrente nel reato, svuotando così, la portata applicativa del comma 3 dell'art. 240 c.p.. La circostanza, infatti, che la donna si fosse lasciata strumentalizzare dal cognato nella stipulazione del contratto costituiva un elemento di colpa, in quanto dimostrativo della noncuranza dell'amministratrice nel compimento degli atti di interesse per l'ente rappresentato.
La decisione.
La Suprema Corte ha, in primis, evidenziato come il sequestro preventivo disposto dal giudice per le indagini preliminari nei confronti dell'amministratrice della ASD fosse stato effettuato ai sensi dell'art. 321 comma 2 c.p.p., secondo il quale "il giudice può disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca", in quanto avente per oggetto, secondo l'ipotesi accusatoria, il "profitto", facoltativamente confiscabile, ex art. 240 comma 1 c.p., del contestato delitto di bancarotta fraudolenta impropria.
Il terzo comma dell'art. 240 c.p., ha ricordato il Collegio, stabilisce, tuttavia, che tale disposizione non si applica se il bene - in quanto costituente il profitto del reato - appartiene a persona estranea al reato. Tale "profitto del reato" confiscabile, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, è costituito dal vantaggio economico derivante, in via diretta ed immediata, dalla commissione dell' illecito (Cass. pen., Sez. Un., n. 31617 del 26/06/2015 , Lucci; Cass. pen., Sez. 2, n. 53650 del 05/10/2016, P.M. in proc. Maiorano; Sez. 5, n. 11981 del 07/12/2017, P.M. in proc. Scuto); si è, inoltre, osservato come la confisca a cui è finalizzato il sequestro rientri, nel caso di specie, tra le misure di sicurezza patrimoniali, e la sua ratio non sia, pertanto, quella di infliggere un'ulteriore sanzione, di natura patrimoniale, ma quella di evitare che chi abbia consumato un illecito penalmente rilevante possa beneficiare del profitto, strettamente inteso, che ne è derivato. Essa, dunque, non possiede natura recuperatoria o risarcitoria, se non entro tali limiti, strumentali alla sottrazione, in una prospettiva di prevenzione speciale, con l'espropriazione ad opera dello Stato, dell'accrescimento economico derivato dalla commissione del reato.
I giudici di legittimità hanno, quindi, posto in evidenza come - qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro od equipollente valore numerario - la confisca delle disponibilità bancarie o delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto sia titolare, debba essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessiti della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato. Da ciò consegue che condizione necessaria della legittimità del sequestro è che il denaro sequestrato, di pertinenza del terzo (come tale non indagato) possa corrispondere, secondo il suo valore numerario, al "profitto del reato" della bancarotta fraudolenta oggetto della contestazione provvisoria, ad ulteriore condizione che sia stato tale soggetto - in quanto terzo "non estraneo" - ad incamerare il profitto, vedendo in pari misura incrementare il proprio patrimonio monetario. La confisca diretta, si è infatti osservato, non inseguendo le singole banconote, ma il corrispondente valore numerario, deve comunque avere per oggetto una entità fungibile che abbia incrementato il patrimonio del reo. Il profitto del reato, in questo senso delineato, può, pertanto, pacificamente, consistere in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato adempimento di una controprestazione (Cass. sez.4, n. 29397 del 08/06/2022, Torregrossa).
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Ciò posto, la Corte ha rilevato, come premesso, che nei confronti dell'amministratrice dell'associazione non riconosciuta ASD, non indagata, era stato eseguito il sequestro preventivo della somma di Euro 48.000, rappresentante il profitto del reato di bancarotta impropria per effetto di operazioni dolose, ad altri ascritto, in quanto relativa all'ammontare (del credito) dei canoni di locazione dell'immobile della foresteria che avrebbero dovuto essere veicolati sulla società fallita, a tutela delle aspettative dei creditori, e non invece fraudolentemente dirottati a vantaggio dell'associazione sportiva, di fatto di titolarità del cognato dell'amministratrice.
Alla luce degli elementi di fatto, in precedenza esposti, la Suprema Corte ha ritenuto sussistere il fumus commissi delicti - pur nell'accezione propria della fase delibativa incidentale che riguarda la verifica della legittimità della misura cautelare reale - limitata ad una complessiva loro compatibilità con la consumazione della fattispecie di reato oggetto dell' incolpazione (sez. Un. n. 7 del 23/02/2000, Mariano).
Sul punto, i giudici di legittimità hanno osservato come l'art. 38 cod. civ., che regolamenta i rapporti obbligatori, di diritto privato, assunti dalle persone che rappresentano un'associazione non riconosciuta, sancisce la loro responsabilità personale e solidale nei confronti dei creditori qualora abbiano, in suo nome e per suo conto, assunto l'obbligazione da cui è derivato il profitto illecito; il Tribunale del riesame, in ragione di ciò, aveva ritenuto oggettivamente riconducibili le risorse in denaro appartenenti all'amministratrice al profitto dell' ipotizzato reato di bancarotta, ritenendo, tuttavia, che la destinataria del vincolo fosse qualificabile come "persona estranea al reato", ex art. 240 comma 3 c.p., stante la mancata dimostrazione della di lei consapevolezza delle vicende negoziali che avevano dato causa al perfezionamento degli illeciti.
Più in particolare, il Tribunale di Siracusa aveva affermato come l'amministratrice della ASD potesse, al più, essere stata "pilotata", o aver seguito i "suggerimenti" del cognato, e che in ogni caso il contratto di sublocazione da lei firmato era stato economicamente vantaggioso per l'associazione dalla medesima rappresentata.
La Suprema Corte non ha condiviso tali rilievi; la qualità di persona estranea al reato - si è infatti rilevato - comporta che, accanto al dato dell'assenza di un vantaggio derivante dall'altrui attività criminosa, sia apprezzabile il profilo soggettivo della buona fede, intesa come "non conoscibilità, con l'uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta, del predetto rapporto di derivazione della propria posizione soggettiva dal reato commesso dal condannato". Tale buona fede dev'essere, anche se non dimostrata, quantomeno allegata dall' interessato.
Per quanto concerne il concetto di buona fede, il Collegio ha osservato come il medesimo, nel diritto penale, sia diverso da quello inquadrato nella sede civile dall'art. 1147 c.c., dal momento che anche la colposa inosservanza delle doverose regole di cautela esclude che il soggetto che vanti un titolo sui beni sequestrati e da confiscare, o già confiscati, sia meritevole di tutela (Cass. Sez. Un., n. 11170, del 25.9.2014).
Con riferimento all'amministratore di un ente, quand'anche di un'associazione non riconosciuta, egli risponde verso quest'ultima secondo le regole del mandato (perché a lui sono di norma applicabili, analogicamente, le disposizioni in materia di associazioni riconosciute e società: Cass. civ. sez. 1, ord. n. 664 del 12/01/2023), è tenuto ad eseguire i propri compiti con la diligenza del buon padre di famiglia e deve sorvegliare sugli atti di gestione eventualmente realizzati da altri, quand'anche titolari di fatto, tanto più se illeciti, dolosi e pregiudizievoli nei confronti dei terzi (artt. 2392, 2395 cod. civ.).
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Nel caso di specie, si è osservato come l'amministratrice della ASD avesse sottoscritto il contratto di sublocazione di un bene immobile di cui l'associazione non avrebbe potuto disporre, attestando falsamente di averne invece mantenuto la disponibilità fin da diversi anni prima; ciò posto, il fatto che tale condotta rappresentasse l'esito di una passiva sequela delle direttive del cognato non è stato, di per sé, ritenuto idoneo ad escludere il rimprovero nei confronti della donna, quantomeno sotto il profilo del difetto di vigilanza sulla trasparenza delle strategie altrui; né tale da esigere, per tali ragioni, l'assicurazione della prova che ella fosse perfettamente a conoscenza delle vicende pregresse che avevano interessato la società fallita.
Sulla base di tali motivazioni, la Corte di Cassazione ha pertanto annullato con rinvio l'Ordinanza pronunciata dal Tribunale del Riesame.