In materia di reati tributari, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 6577, pronunciata all'udienza del 24 ottobre 2023 (deposito motivazioni in data 14 febbraio 2024) ha preso in esame la questione relativa all'applicabilità del limite di cui all'art. 12 bis D. Lgs. 74/00 ai beni acquisiti dalla curatela del fallimento della società destinataria del provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca.
Il fatto.
La curatela del fallimento di una S.p.a. proponeva ricorso avverso l'ordinanza con cui il Tribunale del riesame di Bari aveva confermato il decreto del G.i.p. di sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto dei reati tributari di cui agli artt. 10 ter, 4 comma 1, 2 comma 1, 8, 5 comma 1, D.Lgs. 74/00, commessi dal presidente del Consiglio di Amministrazione della società per azioni, nonché amministratore di una S.r.l.; da altro soggetto, consigliere delegato della medesima S.p.a, nonché amministratore di altra e diversa S.r.l; infine, da un terzo imputato, liquidatore della S.p.a.. In subordine, in caso di incapienza, era stato disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente dei beni mobili e immobili nella disponibilità dei predetti.
Tramite un primo motivo di ricorso, il curatore lamentava la violazione dell'art. 12 bis D.Lgs. 74/00 e la mancanza assoluta di motivazione sulla ritenuta legittimità del decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca del profitto dei reati tributari contestati. Egli sosteneva, in particolare, come fosse stata omessa l'applicazione, al denaro acquisito dalla curatela fallimentare alla massa attiva della procedura concorsuale, del limite di cui all'art. 12 bis D.Lgs. 74700, trattandosi di beni appartenenti ad una persona estranea al reato.
Sul punto, il Tribunale del riesame aveva, infatti, erroneamente ritenuto come la curatela del fallimento avesse solo l'amministrazione, la gestione e la disponibilità del denaro in sequestro, e non invece la titolarità formale o la proprietà dei beni nella massa attiva. Il concetto di appartenenza di cui all'art. 12 bis D.Lgs. 74/00, secondo l'impostazione fatta propria dal ricorrente, non coinciderebbe con quello di proprietà: i beni acquisiti alla massa attiva sarebbero della curatela del fallimento, ex art. 42 R.D. 267/42, come ritenuto anche dalle Sezioni Unite n. 45936 del 26 settembre 2019, che avevano riconosciuto la legittimazione del curatore fallimentare a richiedere la revoca del sequestro preventivo, in forza del potere di fatto e della conseguente relazione sostanziale con i beni fallimentari. La giurisprudenza di legittimità avrebbe, inoltre, più volte riconosciuto l'applicabilità del limite di cui all'art. 12 bis comma 1 D.Lgs. 74/00 alle ipotesi di sequestro preventivo finalizzato alla confisca dei beni nella massa attiva del fallimento.
L'ordinanza impugnata, dunque, nell'escludere l'applicabilità dell'art. 12 bis comma 1 D.Lgs. 74/00, era incorsa in errore, essendo stato documentato e provato che:
- alla data di esecuzione del sequestro era già stato dichiarato il fallimento della S.p.a.;
- alla data di apertura della procedura concorsuale la società fallita non disponeva di alcun attivo patrimoniale;
- soltanto dopo sette mesi dalla dichiarazione di fallimento la curatrice del fallimento aveva acceso un conto corrente bancario intestato alla procedura, con saldo iniziale nullo;
- su tale conto corrente non erano mai transitate somme di denaro riconducibili alla gestione societaria anteriore al fallimento;
- la curatela fallimentare non aveva mai avuto la disponibilità del profitto dei reati contestati ai legali rappresentanti della società in bonis, ma soltanto otto mesi dopo la dichiarazione di fallimento l'organo della procedura aveva iniziato a recuperare i crediti di spettanza della società fallita, confluiti nella massa attiva del fallimento;
- di tali crediti l'importo maggiore, pari a circa un milione di Euro, era derivato da un accordo transattivo stipulato dalla curatela con alcuni sindaci e revisori legali della S.p.a., in conseguenza dell'azione di responsabilità ex art. 146 comma 2 L. fall., esperibile unicamente dal curatore del fallimento;
- l'organo della procedura concorsuale era estraneo ai reati contestati agli amministratori della società in bonis.
Da tali premesse deriverebbe, pertanto, la non sottoponibilità a sequestro ex art. 321 comma 2 c.p.p. delle somme presenti nella massa attiva del fallimento.
Secondo il curatore, inoltre, non era condivisibile l'affermazione operata nell'ordinanza impugnata circa l'irrilevanza dell'origine lecita delle somme cadute in sequestro, atteso che la questione riguarderebbe, invece, l'applicabilità del limite ex art. 12 bis D.Lgs. 74/00. Parimenti, era da considerarsi errata la motivazione del Tribunale nella parte in cui si era ritenuto che la legittimazione del curatore ex art. 324 c.p.p. non implicasse il riconoscimento della sua titolarità formale dei beni fallimentari. Al contrario, la legittimazione sarebbe strettamente collegata all'appartenenza dei beni alla curatela, con conseguente esclusione della possibilità di sottoporre i medesimi a sequestro ex artt. 321 comma 2 c.p.p. e 12 bis D.Lgs. 74/00.
Infine, si poneva in evidenza come la tesi fatta propria dal ricorrente non potesse essere smentita dall'orientamento della giurisprudenza, richiamato dal Tribunale del riesame, secondo cui il sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevarrebbe sulla procedura fallimentare, anche ove quest'ultima sia intervenuta precedentemente alla misura cautelare. La questione, nel caso di specie, non aveva ad oggetto la prevalenza o meno del sequestro, ma l'applicabilità, al denaro acquisito dalla curatela fallimentare, del limite di cui all'art. 12 bis D.Lgs. 74/00, il quale non potrebbe essere escluso, anche ove si volesse ritenere la prevalenza del sequestro sulla procedura concorsuale.
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Tramite un secondo motivo di ricorso, il curatore contestava la violazione degli artt. 321 comma 2, c.p.p. e 12 bis D.Lgs. 74/00, con riferimento all'illegittimità del sequestro dovuta al fatto che le somme acquisite nella massa attiva del fallimento non costituivano il profitto dei reati tributari contestati ai legali rappresentati della S.p.a, neppure sotto forma di risparmio di spesa.
Sul punto, il ricorrente affermava come le poste attive fossero confluite nella massa fallimentare solo in minima parte per l'attività di recupero dei crediti realizzata dalla curatela; le somme derivavano soprattutto dall'esperimento dell'azione ex art. 146 comma 2 L. fall., avente come esclusivo legittimato il curatore del fallimento, e dalle transazioni in seguito concluse. Il denaro acquisito alla massa fallimentare dopo la consumazione dei reati tributari non potrebbe qualificarsi come profitto dei predetti reati, ed essere oggetto di vincolo di indisponibilità ex art. 321 comma 2 c.p.p..
Il processo veniva rinviato a nuovo ruolo in attesa della decisione da parte delle Sezioni Unite, all'udienza del 22 giugno 2023, della seguente questione: "Se, in caso di dichiarazione di fallimento intervenuta anteriormente alla adozione di provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per reati tributari e riguardante beni attratti alla massa fallimentare, l'avvenuto spossessamento del debitore erariale per effetto dell'apertura della procedura concorsuale osti al sequestro stesso, ovvero se, invece, il sequestro debba comunque prevalere attesa la obbligatorietà della confisca cui la misura cautelare è diretta".
La decisione.
La Suprema Corte ha, dapprima, osservato come la tesi proposta dal curatore - seppur formulata in termini parzialmente diversi rispetto alla questione di diritto oggetto della sentenza delle SS.UU. n. 40797 del 22/06/2023, Fallimento Lavanderia Giglio Snc - non sia stata accolta dalle Sezioni Unite medesime, le quali hanno affermato il principio di diritto per cui: "L'avvio della procedura fallimentare non osta all'adozione o alla permanenza, se già disposto, del provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca relativa ai reati tributari".
I giudici di legittimità hanno quindi osservato come le Sezioni Unite abbiano affermato, al par. 9.1 del Considerato, che, a seguito della dichiarazione di fallimento, la titolarità dei beni resta in capo al fallito sino al momento della vendita fallimentare per i beni o del riparto dell'attivo per il denaro. Non si realizza, pertanto, la condizione di "appartenenza ai terzi", richiesta dall'art. 12 bis D.Lgs. 74/00, perché sia impedita l'adozione del provvedimento ablatorio della confisca, ed i beni del fallito, pur se acquisiti alla procedura concorsuale, non possono qualificarsi come "beni appartenenti a persona estranea al reato", sicché il curatore diviene mero gestore-detentore dei beni dell'imprenditore.
Le Sezioni Unite n. 40797/23 hanno, poi, affermato (par. 9.5. della motivazione) che il curatore fallimentare: "non può disporre dei beni costituenti l'attivo della massa fallimentare per la semplice ragione che detti beni (rectius, il loro valore), costituendo il profitto del reato, vanno sottratti alla liquidazione giudiziale ed all'amministratore pro-tempore del patrimonio della società dichiarata fallita, ossia al curatore, per evitare anche la paradossale conseguenza di rendere disponibile (e commerciabile mediante la vendita fallimentare) un bene costituente profitto di un illecito penale, sottraendolo alla conseguenza sanzionatoria obbligatoriamente prevista dalla legge, ossia la definitiva confisca, purché ovviamente ne sussistessero ab origine le condizioni legittimanti; e alla sola verifica di tali condizioni è preordinata la legittimazione ad impugnare del curatore, non precludendo quindi la stessa sequestrabilità, non importa se antecedente o successiva alla procedura di apertura della liquidazione giudiziale, dei beni".
In base, pertanto, ai principi affermati dalle Sezioni Unite - ha rilevato la Corte - deve ritenersi che il limite di cui all'art. 12 bis D.Lgs. 74/00 non si applichi ai beni acquisiti dalla curatela del fallimento della società destinataria del provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, non potendosi detti beni considerarsi appartenenti a persona estranea al reato.
Infine, si è rilevato come - secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite - ai fini della confisca, non assuma rilevanza il criterio della effettiva disponibilità dei beni, ma quello, più ampio, della non estraneità al reato tributario del fallito, che conserva la titolarità dei beni medesimi, attratti alla massa fallimentare sino alla conclusione della procedura. Nel caso di specie, tale circostanza acquisiva particolare rilievo, atteso che almeno parte delle condotte delittuose era stata commessa a vantaggio dell'ente, il quale, dunque, non poteva dirsi estraneo al reato.
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Con riguardo al secondo motivo di ricorso, il Collegio ha osservato come, malgrado la prevalenza - nei termini indicati dalle predette Sezioni Unite - del sequestro preventivo sulla procedura fallimentare, residui in ogni caso, secondo la stessa pronuncia, la possibilità per la curatela del fallimento di dedurre la sussistenza di condizioni ostative alla confiscabilità dei beni, relative all'assenza del fumus del reato ipotizzato nell'imputazione cautelare o alla configurabilità del periculum in mora.
Come premesso, il curatore aveva dedotto che le somme sequestrate non potevano considerarsi profitto del reato, poiché tutte le poste attive della massa fallimentare erano confluite su un conto corrente intestato e acceso dalla curatela mesi dopo la dichiarazione di fallimento, ed erano frutto soprattutto dell'esperimento dell'azione ex art. 146 comma 2 L. fall., a legittimazione esclusiva del curatore, nei confronti dei sindaci, e della successiva transazione.
La Corte ha ritenuto come il curatore abbia, effettivamente, dedotto una condizione ostativa alla confiscabilità dei beni, ritenendo fondate le predette deduzioni, attesa l'impossibilità di considerare quale profitto dei reati tributari le somme percepite dalla curatela per effetto della transazione. Sul punto, si è rilevato come, secondo il costante orientamento della giurisprudenza, il profitto nei reati tributari consista nel risparmio di spesa conseguente all'omesso versamento delle imposte; si è pertanto ritenuto, in applicazione dei principi formulati dalle SS.UU. n. 42415 del 27/05/2021, che possa procedersi alla confisca diretta, ex art. 12 bis D.Lgs. 74/00, delle somme di denaro affluite sul conto corrente intestato alla persona giuridica anche successivamente alla commissione del reato da parte del suo legale rappresentante.
Tale principio, tuttavia, può valere quando le somme di denaro affluite successivamente al reato sui conti correnti della società siano relative all'attività societaria, perché in tal modo si verifica la confusione descritta dalle stesse Sezioni Unite n. 42415, in relazione all'accrescimento patrimoniale, che giustifica la confisca diretta del denaro, a causa della sua fungibilità.
Nel caso di specie, risultava che, alla data di apertura della procedura concorsuale, la società fallita non disponeva di alcun attivo patrimoniale, ed alla data del decreto di sequestro preventivo non vi era nulla da sottoporre a vincolo. La quasi totalità del denaro sequestrato era, perciò, costituita dall'adempimento di un contratto transattivo, successivo al decreto di sequestro, stipulato con alcuni sindaci e revisori legali della società fallita, in conseguenza dell'azione di responsabilità ex art. 146 comma 2 L. fall., esperibile unicamente dal curatore del fallimento, e tale somma era confluita sul conto corrente intestato alla curatela del fallimento, rispetto al quale gli indagati non avevano, né potevano avere, alcuna disponibilità.
A tal riguardo, il Collegio ha rilevato come, secondo la costante giurisprudenza, l'azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 L. fall. cumuli in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 c.c. (nel caso in esame, in combinato disposto con l'art. 2407 c.c.) - avente natura contrattuale - e 2394 c.c. - avente, invece, natura extracontrattuale - a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma, quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali (Sez. 1 civ., n. 23452 del 20/09/2019; Sez. 1 civ., n. 24715 del 04/12/2015).
Con specifico riguardo alla responsabilità ex art. 2407 c.c., si è inoltre osservato, la Corte di cassazione Civile ha ritenuto che, al fine di affermare la responsabilità dei sindaci di società per il loro illegittimo comportamento omissivo, è necessario accertare il nesso causale tra il comportamento illegittimo degli stessi e le conseguenze che ne siano derivate, a tal fine occorrendo verificare che un diverso e più diligente comportamento dei sindaci nell'esercizio dei loro compiti (tra cui la mancata tempestiva segnalazione della situazione agli organi di vigilanza esterni) sarebbe stato idoneo ad evitare le disastrose conseguenze degli illeciti compiuti dagli amministratori (Sez. 1 civ., n. 24362 del 29/10/2013; Sez. 1 civ., n. 18770 del 12/07/2019).
Sia con riguardo all'azione sociale di cui agli artt. 2393 e 2407 c.c., sia all'azione di responsabilità extracontrattuale ex art. 2394 c.c., dunque, il curatore del fallimento, agendo in giudizio ex art. 146 L. fall., fa valere e chiede il ristoro del danno subito dalla società fallita per l'attività illecita degli amministratori o degli organi di controllo, il quale è ontologicamente incompatibile con la nozione di profitto nel reato tributario, costituito dal risparmio di spesa conseguito dall'omesso versamento dei tributi.
La somma acquisita dalla curatela in forza del contratto transattivo, successivo alla data di emissione del sequestro costituiva, dunque, il risarcimento di un danno provocato alla società e ai creditori sociali dai sindaci e revisori legali della prima, i quali non avevano impedito, vigilando, il compimento degli illeciti compiuti dagli amministratori, fra cui i reati tributari contestati, e non poteva, pertanto, ritenersi che costituisse profitto dei reati ascritti agli imputati, come tale passibile di sequestro finalizzato alla confisca. Le somme di denaro in sequestro non erano, infatti, il frutto dell'attività sociale e non potevano costituire il risparmio di spesa derivante dai reati tributari; al contrario, derivavano da un'attività di recupero per effetto dell'esercizio dell'azione di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale - conclusasi con la transazione - a cui era legittimato esclusivamente il curatore fallimentare, volta proprio a sanzionare quelle condotte illecite che di fatto avevano consentito la commissione dei reati.
Alla luce di tali rilievi, la Corte di Cassazione ha constatato come la situazione di fatto sottoposta al proprio giudizio sia diversa rispetto a quella sui cui si erano pronunciate le SS.UU., con la sentenza n. 40797/2023, nella quale il sequestro era fondato sull'art. 11 D.Lgs. 74/00, ed era caduto su alcune partecipazioni societarie dei soci illimitatamente responsabili della Snc fallita, anch'essi dichiarati falliti, nonché su un immobile di proprietà di uno dei predetti soci; il tutto, a seguito di un'azione revocatoria che la curatela fallimentare aveva esperito per far dichiarare l'inefficacia degli atti di conferimento di tali beni in un trust, precedentemente alla dichiarazione di fallimento. In tale ipotesi, pertanto, hanno rilevato i giudici di legittimità, i beni sequestrati non solo non erano costituiti da denaro, ma rappresentavano proprio il materiale profitto del reato contestato.
Sulla base di tali motivazioni, la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio l'ordinanza del Tribunale del riesame ed il decreto di sequestro preventivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari, limitatamente alla somma rinvenuta sul conto corrente bancario intestato alla curatela fallimentare, della quale la Corte ha disposto la restituzione alla curatela fallimentare.