In materia di responsabilità medica, la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 16094, pronunciata all'udienza del 26 ottobre 2022 (deposito motivazioni in data 17 aprile 2023), ha preso in esame il tema concernente il rilievo del dissenso manifestato dal medico nell'ambito di un'attività nella quale cooperino più sanitari.
Il fatto.
Un'imputata proponeva ricorso avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello di Reggio Calabria ne aveva confermato la responsabilità, in qualità di medico chirurgo addetta al reparto di Chirurgia generale, in servizio presso una struttura ospedaliera, in ordine al reato di omicidio colposo, commesso unitamente ad un collega avente le medesime mansioni.
Nella fattispecie, era ascritto agli imputati di aver cagionato la morte di una paziente, ricoverata presso l'ospedale ove prestavano servizio i predetti sanitari, per essere sottoposta ad un intervento di laparoscopia, programmato per la riduzione di un'ernia post chirurgica addominale. Tale intervento era stato eseguito dal collega dell'imputata; nei giorni successivi, il decorso post operatorio della paziente era risultato regolare, sicché la medesima era stata dimessa, con programmazione di una visita di controllo tre giorni dopo.
La sera dello stesso giorno, tuttavia, la paziente aveva accusato forti dolori addominali e dispnea, ed era stata, perciò, nuovamente ricoverata presso il reparto di Chirurgia Generale. La donna era stata, quindi, inviata dal reparto Chirurgia all'Unità di terapia intensiva cardiologica (UTIC), dove il giorno dopo, era stata sottoposta ad Angio-Tac, da cui era risultato un versamento liquido con raccolta saccata nel mesentere"; tale referto era stato trasmesso ai medici della Chirurgia Generale, ai quali era stata richiesta visita specialistica. All'esito di ulteriori esami, era stato, quindi, rilevato un calo di Antitrombina III; i medici dell'UTIC avevano, pertanto, praticato alla paziente una trasfusione di plasma, ed era stata eseguita una consulenza chirurgica che aveva evidenziato "presenza di sieroma e di versamento tra epiploon e rete intraperitoneale. In atto indicato trattamento conservativo".
Nei giorni successivi, la paziente, a seguito di ulteriori complicanze, era stata nuovamente trasferita in Chirurgia generale, ivi giungendo la sera, in orario successivo alla visita effettuata dall'imputata, che aveva annotato nel diario clinico che l'esplorazione rettale aveva evidenziato residui fecali nell'ampolla, che era stata posizionata sonda rettale con modesta fuoriuscita di aria, e che era stato applicato alla paziente un sondino nasogastrico concludendo per la prescrizione di RX torace e RX diretta addome. Nella cartella clinica, quale diagnosi di entrata, era stata indicata "peritonite localizzata da fissurazione di anse del tenue in paziente operata di laparocele" e nel diario clinico era stata annotato "RX diretta addome di controllo per domattina".
Nei giorni successivi, le annotazioni riportate nel diario clinico avevano evidenziato condizioni migliorate; successivamente, l'esecuzione della TAC aveva richiesto una puntura esplorativa ed una aspirazione ecoguidata della raccolta. Al nuovo intervento chirurgico aveva, tuttavia, fatto seguito, nel volgere di pochi giorni, l'aggravamento delle condizioni cliniche della paziente, già compromesse dal grave stato settico con insufficienza multi organo, e la medesima era quindi deceduta.
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I giudici di merito avevano ritenuto come entrambi gli imputati avessero omesso di predisporre tempestivamente la TAC e la conseguente puntura esplorativa, la cui effettuazione avrebbe permesso di intervenire chirurgicamente in modo tempestivo, e di accertare la peritonite da cui la paziente era affetta, ponendovi rimedio ed evitando uno stato di sepsi generalizzata che l'aveva condotta alla morte. Il ritardo nell'effettuazione della TAC e della puntura esplorativa avevano, perciò, determinato un ritardo dell'intervento, eseguito solo allorché non avrebbe più potuto avere effetti risolutivi, attese le condizioni non più recuperabili della paziente.
Il dato più allarmante era stato, tuttavia, l'esito dell'Angio Tac, che aveva evidenziato in addome una raccolta liquida in più parti ed una falda di aria libera, quest'ultima indice di perforazione. A fronte di tale esito, l'imputata, anziché far eseguire una Tac, aveva disposto una RX addome richiesta "per livelli", segno, si era rilevato, che la medesima aveva il sospetto di una perforazione; né in tal senso aveva deciso il collega. La Tac avrebbe rilevato l'esistenza di una perforazione intestinale, cosicché i sanitari avrebbero potuto effettuare una puntura esplorativa per accertare il tipo di liquido che si era raccolto nell'addome della paziente.
Si era quindi ritenuto come la condotta dei medici fosse stata negligente, nonché imperita, nella misura in cui gli stessi avevano interpretato gli esiti della Angio-Tac come indicativi di una raccolta saccata, anziché come indici di una perforazione di visceri intestinali, diminuendo fortemente le chances di sopravvivenza della persona offesa.
La Corte d'appello, in particolare, aveva ritenuto gravemente negligente la condotta del collega dell'imputata, per avere omesso la corretta diagnosi di peritonite, già formulabile all'esito della Tac, e per non aver quindi posto in essere la necessaria condotta salvifica, costituita dall'intervento chirurgico, che era stato effettuato solo otto giorni dopo, e per non aver eseguito altra Tac al fine di monitorare la situazione, esame disposto, anche in questo caso, con un ritardo di diversi giorni. Era risultato, peraltro, come la rottura dell'ansa si fosse verificata, probabilmente, in concomitanza con il rientro della paziente in ospedale, causato dai forti dolori addominali; al momento dell'effettuazione della Tac vi era quindi, sicuramente, una peritonite, ma non una sepsi generalizzata quale quella riscontrata nel corso dell'intervento, conseguenza dell'aggravamento della malattia, in assenza di cure adeguate.
La decisione.
La Corte di Cassazione ha premesso come il caso di specie rientri nell'ipotesi di cooperazione colposa di più medici, intervenuti in momenti diversi, cui si è contestata la scelta di aver atteso diversi giorni per intervenire e risolvere chirurgicamente la complicanza verificatasi in seguito all'intervento operatorio. Il collegio peritale nominato in appello aveva, infatti, affermato come una condotta alternativa attiva avrebbe consentito con elevato grado di probabilità prossimo alla certezza tecnica di contrastare la peritonite in atto, rimuovendo chirurgicamente le cause della medesima. Tale condotta sarebbe stata di piena efficacia rispetto alle probabilità di sopravvivenza della paziente a partire dal giorno in cui era stata effettuata con certezza la diagnosi radiologica di peritonite. Il decesso della paziente, si è osservato, è stato quindi ritenuto ascrivibile ad un ritardo nell'effettuazione del secondo intervento chirurgico.
I giudici di legittimità hanno quindi preso in esame la questione concernente il rapporto di causalità tra la condotta ascrivibile all'imputata e l'evento morte, oggetto del ricorso; considerato il momento ed il ruolo dalla medesima assunto nella vicenda, i giudici di legittimità hanno quindi operato le seguenti osservazioni.
La Corte ha innanzitutto premesso come nell'ambito dell'attività medica e della cosiddetta "responsabilità di èquipe", (cui può essere assimilata, si è rilevato, anche la situazione di più medici che si sono occupati in successione dello stesso paziente) il principio di affidamento (in forza del quale il titolare di una posizione di garanzia, come tale tenuto giuridicamente a impedire la verificazione di un evento dannoso, può andare esente da responsabilità quando questo possa ricondursi alla condotta esclusiva di altri, contitolare di una posizione di garanzia, sulla correttezza del cui operato il primo abbia fatto legittimo affidamento) consente di confinare l'obbligo di diligenza del singolo sanitario entro limiti compatibili con l'esigenza del carattere personale della responsabilità penale, sancito dall'art. 27 della Costituzione. Il riconoscimento della responsabilità per l'eventuale errore altrui, infatti, non è illimitato e impone, per essere affermato, non solo l'accertamento della valenza concausale del concreto comportamento attivo od omissivo tenuto rispetto al verificarsi dell'evento ma anche la rimproverabilità di tale comportamento sul piano soggettivo secondo i principi in tema di colpa (Sez. 4, 12.2.2019 n. 30626).
Viceversa, si è, altresì, affermato come, in tema di cooperazione colposa, non possa invocare il principio di affidamento l'agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l'altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l'affermazione dell'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità e imprevedibilità. (sez. 4, n. 24895 del 12/5/2021, Sonaglioni; n. 39727 del 12/6/2019, Perugino, in materia di dissenso dall'operato del collega, da parte del sanitario in possesso di cognizioni tecniche per cogliere l'errore di quegli, con richiamo in motivazione a sez. 4, n. 7667 del 13/12/2017, dep. 2018, Capodiferro e altri; sez. 3, n. 43828 del 29/9/2015, Cavone; Sez. 4, n. 24895 del 12/05/2021).
Nella giurisprudenza di legittimità si è, inoltre, evidenziato come, in caso di responsabilità professionale, configurata a titolo di cooperazione colposa multidisciplinare, con specifico riferimento all'attività medico-sanitaria svolta in equipe e, più in generale, all'attività medico-chirurgica - l'accertamento del nesso causale rispetto all'evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta e al ruolo di ciascuno, non potendosi configurare aprioristicamente una responsabilità di gruppo, in particolare quando i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti tra loro, non potendosi trasformare l'onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione degli spazi di competenza altrui (cfr. Sez. 4, n. 49774 del 21/11/2019).
L'obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell'equipe medica, tuttavia, concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull'operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali (sez. 4, n. 53315 del 18/10/2016, Paita e altri) sebbene tale obbligo di vigilanza non possa operare rispetto a quelle fasi dell'intervento, nelle quali i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti, dovendo trovare applicazione il diverso principio dell'affidamento per cui può rispondere dell'errore o dell'omissione solo colui che abbia in quel momento la direzione dell'intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica, non potendosi trasformare l'onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui (sez. 4, n. 27314 del 20/4/2017, Puglisi). L'obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell'equipe medica concerne, pertanto, non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull'operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali, in quanto tali rilevabili con l'ausilio delle comuni conoscenze del professionista medio. L'assunto in questione, hanno rilevato i giudici di legittimità, è stato, per esempio, espresso nel confermare la sentenza di condanna per il reato di omicidio colposo nei confronti, oltre che del ginecologo, anche delle ostetriche, in considerazione del fatto che l'errore commesso dal ginecologo nel trascurare i segnali di sofferenza fetale non esonerava le ostetriche dal dovere di segnalare il peggioramento del tracciato cardiotocografico, in quanto tale attività rientrava nelle competenze di entrambe le figure professionali operanti in equipe (Sez. 4, n. 53315 del 18/10/2016, Paita).
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La Corte di Cassazione ha quindi preso in esame l'ipotesi in cui, nell'ambito di un'attività medica in cui cooperano più soggetti, sia manifestato un dissenso da parte dei soggetti coinvolti.
A tal riguardo, si è affermato come, in tema di colpa medica, deve escludersi che possa invocare esonero da responsabilità il chirurgo che si sia fidato acriticamente della scelta del collega più anziano, pur essendo in possesso delle cognizioni tecniche per coglierne l'erroneità, ed avendo pertanto il dovere di valutarla e, se del caso, contrastarla. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità del medico - ginecologo per il decesso di una paziente a seguito di emorragia conseguente a intervento di parto cesareo, per aver omesso di valutare e contrastare, nonostante la assoluta gravità delle condizioni in cui versava la persona offesa, la decisione del collega più anziano di non procedere ad intervento di isterectomia) (Sez. 4, n. 7667 del 13.12.2017, dep.2018; ed ancora, sez. 4, n. 39727 de112/06/2019, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità dell'aiuto chirurgo, componente dell'equipe medica che aveva provveduto all'esecuzione di un parto cesareo nel corso del quale si erano manifestate evidenti situazioni critiche interne, per non avere dissentito dall'operato del primario e non averlo indirizzato alla immediata isterectomia, che avrebbe impedito il verificarsi della successiva emorragia, causa della morte della partoriente).
Il medico componente della equipe chirurgica in posizione di secondo operatore che non condivide le scelte del primario adottate nel corso dell'intervento operatorio, ha, dunque, l'obbligo, per esimersi da responsabilità, di manifestare espressamente il proprio dissenso, senza che tuttavia siano necessarie particolari forme di esternazione dello stesso (Sez. 3, n. 43828 del 29/09/2015, Cavone: in motivazione, la Corte ha sottolineato che la valutazione relativa alla idoneità della forma di dissenso impiegata ad escludere la responsabilità penale deve essere compiuta avendo riguardo al contesto in cui questa opinione è stata resa manifesta, dovendo necessariamente distinguersi tra la situazione in cui si procede a scelte puramente terapeutiche e quella di tipo operatorio).
Nel caso di specie, con particolare riferimento al ruolo assunto nella vicenda de qua dall'imputata, la Corte ha osservato come la stessa non avesse partecipato all'intervento, visitando la paziente solo diversi giorni dopo il medesimo, quando le aveva proposto le dimissioni.
Il primo vero contatto con la paziente era avvenuto allorché l'imputata era stata chiamata per una consulenza chirurgica dai colleghi dell'Utic. Nel frangente, si era avveduta del fatto che la paziente avesse un addome "brutto", aveva eseguito esami ed avvertito telefonicamente il collega coimputato della necessità di una rivalutazione chirurgica del caso (venendo dallo stesso rassicurata che avrebbe visitato la paziente il mattino dopo).
Due giorni dopo, l'imputata aveva svolto il turno mattutino, annotando che la paziente era canalizzata, ed il giorno dopo ancora aveva svolto il turno con il collega ed il primario; dalle risultanze dibattimentali, era emerso come la medesima avesse suggerito una puntura esplorativa, ma i colleghi si erano mostrati contrari. L'imputata era, quindi, stata di guardia per il turno interdivisionale, ed in seguito aveva partecipato all'intervento sulla paziente, senza, tuttavia, svolgere alcun ruolo significativo.
In tali termini ricostruito il contributo dell'imputata nel lasso temporale di una settimana, la sentenza di merito aveva rimproverato all'imputata di non avere assunto la decisione di intervenire chirurgicamente sulla paziente la sera in cui, chiamata dai colleghi della cardiologia, era stata posta di fronte alla situazione clinica della paziente evidenziata dal chiaro esito della Tac. Più in particolare, l'addebito colposo era consistito nel non avere l'imputata, nella propria posizione di dirigente medico, equiordinata al collega coimputato, e quindi titolare di analoga posizione di garanzia, manifestato in maniera espressa il proprio dissenso rispetto a scelte terapeutiche non condivise anche, eventualmente, rivolgendosi al primario (figura che, tuttavia, si osserva, era stata "solo genericamente evocata", ma che non risultava essere stata contattata al fine di esprimere le proprie perplessità in ordine alla scelta del collega di non operare immediatamente)
Tanto premesso, il Collegio ha rilevato come la sentenza impugnata, dopo aver evidenziato che l'imputata aveva tenuto una condotta definita dai consulenti tecnici come "proattiva", disponendo ulteriori esami nonché il trasferimento della paziente in Chirurgia, aveva, tuttavia, affermato la responsabilità della medesima a titolo di cooperazione colposa, senza tuttavia individuare le condotte che ella avrebbe dovuto tenere, al fine di rendere manifesto il suo contrario avviso rispetto alla scelta di procrastinare l'intervento chirurgico, e considerato altresì che anche l'opzione di interpellare direttamente il primario sarebbe stata inutile in base alle modalità di gestione del reparto.
La Corte di Cassazione ha pertanto osservato come l'apparato motivazionale della sentenza impugnata sia incorso in un profilo di evidente lacunosità e contraddittorietà laddove, pur dando atto in più punti del dissenso manifestato dall'imputata al collega in ordine ad una scelta terapeutica non condivisa, ha tuttavia ritenuto la sussistenza del rapporto di causalità tra la effettiva condotta ascrivibile alla ricorrente e l'evento morte della paziente.
Sulla base di tali motivazioni, la Corte di Cassazione ha pertanto annullato con rinvio, agli effetti civili, la sentenza impugnata.