La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 30386, pronunciata all'udienza dell'8 giugno 2023 (deposito motivazioni in data 12 luglio 2023) ha rimesso alle Sezioni Unite la decisione in ordine alla seguente questione: quali siano i limiti del sindacato del giudice d'appello e la regola di giudizio applicabile, allorquando sia presente la parte civile, a fronte del gravame nel merito proposto da un imputato che non rinunci alla prescrizione e di un reato che, all'atto della decisione da assumere, si presenti ormai prescritto.
Il fatto.
Le parti civili proponevano ricorso avverso la Sentenza con cui la Corte d'Appello di Catania aveva riformato la pronuncia del Tribunale di Siracusa, innanzi al quale un imputato era stato chiamato a rispondere del reato di cui all'art. 589 c.p.. I giudici etnei, premesso che alla data della propria pronuncia il reato risultava prescritto, in considerazione della presenza delle parti civili, avevano valutato i fatti nel merito, ed avevano ritenuto che, contrariamente a quanto affermato dal giudice di primo grado, l'istruttoria dibattimentale non avesse consegnato la prova della penale responsabilità dell'imputato oltre ogni ragionevole dubbio. Pertanto, avevano assolto l'imputato dal reato ascrittogli perché il fatto non sussiste, con revoca delle statuizioni in favore delle parti civili.
Tramite uno dei propri motivi di ricorso, le parti civili lamentavano la violazione degli artt. 125 comma 3, 129 comma 2 e 578 c.p.p., essendo stata pronunciata sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste in luogo della declaratoria della intervenuta prescrizione. La Corte territoriale, infatti, pur avendo dato atto dell'intervenuta prescrizione del reato, aveva affermato di dover procedere comunque alla valutazione del fatto nel merito, a fronte della costituzione di parte civile nel processo, ed aveva, di conseguenza, assolto l'imputato per insussistenza del fatto, atteso il mancato raggiungimento della prova di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.
In tal modo, la Corte etnea sembrava aver preso spunto dall'indirizzo giurisprudenziale dato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 35490/2009, Tettamanti, secondo cui nell'ipotesi in cui, ai sensi dell'art. 578 c.p.p., il giudice di appello - intervenuta una causa estintiva del reato - sia chiamato a valutare il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili per la presenza della parte civile, il proscioglimento nel merito prevale sulla causa estintiva, pur nel caso di accertata contraddittorietà o insufficienza della prova. Nel caso di specie, inoltre, la Corte territoriale aveva effettuato una sommaria ricostruzione del fatto, valutato secondo la regola di giudizio penalistica dell'oltre ogni ragionevole dubbio e non già ancorando la valutazione al principio civilistico del "più probabile che non". Tale indirizzo giurisprudenziale, tuttavia, dovrebbe oggi, a seguito della sentenza della Corte costituzionale del 7-30 luglio 2021, n. 182, essere conformato all'interpretazione costituzionalmente orientata data dalla stessa.
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La questione sollevata innanzi alla Corte Costituzionale aveva riguardato la legittimità dell'art. 578 c.p.p. alla luce del diritto convenzionale, ed in particolar modo dell'art. 6 Cedu, a fronte della possibile violazione, da parte della previsione codicistica, del "diritto alla presunzione di innocenza, garantito dalla norma convenzionale (come interpretata nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo) e da quelle dell'ordinamento dell'Unione Europea assunte a parametri interposti, in quanto imporrebbe al giudice dell'impugnazione di formulare, sia pure in via incidentale ed al solo fine di provvedere sulla domanda risarcitoria, un nuovo giudizio sulla responsabilità penale dell'imputato, sebbene questa sia stata esclusa in ragione della declaratoria di estinzione del reato".
La Consulta era giunta alla sentenza interpretativa di rigetto dando la seguente interpretazione dell'art. 578 c.p.p.:
"In conclusione, il giudice dell'impugnazione penale (giudice di appello o Corte di cassazione), spogliatosi della cognizione sulla responsabilità penale dell'imputato in seguito alla declaratoria di estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione (o per sopravvenuta amnistia), deve provvedere - in applicazione della disposizione censurata - sull'impugnazione ai soli effetti civili, confermando, riformando o annullando la condanna già emessa nel grado precedente, sulla base di un accertamento che impinge unicamente sugli elementi costitutivi dell'illecito civile, senza poter riconoscere, neppure incidenter tantum, la responsabilità dell'imputato per il reato estinto". Ciò, in quanto: "Con riguardo al ‘fatto - come storicamente considerato nell'imputazione penale - il giudice dell'impugnazione è chiamato a valutarne gli effetti giuridici, chiedendosi, non già se esso presenti gli elementi costitutivi della condotta criminosa tipica (commissiva od omissiva) contestata all'imputato come reato, contestualmente dichiarato estinto per prescrizione, ma piuttosto se quella condotta sia stata idonea a provocare un ‘danno ingiusto secondo l'art. 2043 c.c., e cioè se, nei suoi effetti sfavorevoli al danneggiato, essa si sia tradotta nella lesione di una situazione giuridica soggettiva civilmente sanzionabile con il risarcimento del danno".
Ciò posto, le parti civili sostenevano come la Corte territoriale avrebbe, dunque, dovuto dichiarare la prescrizione del reato ex art. 129, comma 1, c.p.p. e, a fronte dell'impossibilità di recuperare opinabili valutazioni fondate sul ragionevole dubbio in ambito penale, avrebbe dovuto valutare la condotta dell'imputato sotto il mero profilo della responsabilità civile ex artt. 2043, 2054 e 2059 c.c..
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Le Sezioni Unite Tettamanti e la successiva giurisprudenza delle sezioni semplici.
La Corte di Cassazione ha rilevato, in primis, come il tema giuridico devoluto dal ricorso delle parti civili sia quello, come premesso, dei limiti del sindacato del giudice di appello e della regola di giudizio applicabile allorquando siano presenti le parti civili, a fronte del gravame nel merito proposto da un imputato che non rinunci alla prescrizione e di un reato che, all'atto della decisione da assumere, si presenti ormai prescritto.
I giudici di legittimità hanno osservato come la sentenza impugnata sia stata pronunciata nel solco dell'insegnamento della pronuncia delle Sezioni Unite n. 35490 del 28/5/2009, Tettamanti e di tutta la giurisprudenza delle sezioni semplici degli anni successivi conforme a quella decisione. Le Sezioni Unite avevano enunciato il seguente principio di diritto:
"Allorquando, ai sensi dell'art. 578 c.p.p., il giudice di appello - intervenuta una causa estintiva del reato - è chiamato a valutare il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili per la presenza della parte civile, il proscioglimento nel merito prevale sulla causa estintiva, pur nel caso di accertata contraddittorietà o insufficienza della prova".
La pronuncia aveva, dunque, accordato al giudice di appello il potere di pronunciare una sentenza di assoluzione dell'imputato, all'esito di una valutazione del compendio probatorio, secondo la regola di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio, pur essendo ormai chiamato ad accertare soltanto la fondatezza della domanda di risarcimento del danno.
La successiva giurisprudenza delle sezioni semplici, si è quindi rilevato, si è mossa nel solco delle Sezioni Unite: in più occasioni si è infatti ribadito che, all'esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, oppure ritenga infondata nel merito l'impugnazione del P.M. proposta avverso una sentenza di assoluzione in primo grado ai sensi dell'art. 530, comma 2, c.p.p..
La Suprema Corte ha, quindi, ricordato come le Sezioni Unite Tettamanti avessero, tra l'altro, affermato che la pronuncia assolutoria a norma dell'art. 129, comma 2, c.p.p. è consentita al giudice solo quando emergano dagli atti, in modo assolutamente non contestabile, delle circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato o la sua rilevanza penale, in modo tale che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo sia incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento. Si era precisato, in quella pronuncia, che il controllo demandato al giudice deve appartenere più al concetto di "constatazione", ossia di percezione "ictu oculi", che a quello di "apprezzamento". L'evidenza richiesta dal menzionato art. 129 comma 2, c.p.p., presuppone, infatti, la manifestazione di una verità processuale talmente chiara ed obiettiva da rendere superflua ogni dimostrazione oltre la correlazione ad un accertamento immediato, concretizzandosi pertanto un quid pluris rispetto a quanto la legge richiede per l'assoluzione ampia. In assenza di parte civile, dunque, la formula di proscioglimento nel merito prevale sulla dichiarazione di estinzione del reato per intervenuta prescrizione soltanto nel caso in cui sia rilevabile, con una mera attività ricognitiva, l'assoluta assenza della prova di colpevolezza a carico dell'imputato ovvero la prova positiva della sua innocenza, e non anche nel caso di mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze.
Qualora l'imputato intenda, invece, ottenere una valutazione più approfondita delle sue ragioni, che vada oltre l'evidenza della sua innocenza o della sua non colpevolezza, dovrà rinunciare alla prescrizione.
Tuttavia, si era osservato, in un tale sistema, le ragioni di economia processuale vengono meno in presenza della parte civile, in quanto, in tal caso, il giudice penale, pur in presenza di un reato prescritto, è comunque chiamato a valutare i motivi d'impugnazione proposti dall'imputato compiutamente, non potendosi dare conferma alla condanna al risarcimento del danno in ragione della mancanza di prova dell'innocenza dell'imputato, secondo quanto previsto dall'art. 129, comma 2 c.p.p.. Di conseguenza - si è rilevato - in tal caso, nel sistema delineato dalle Sezioni Unite, l'imputato, pur non rinunciando alla prescrizione, ha maggiori margini per vedersi assolto nel merito, qualora la prova a suo carico, in sede di scrutinio per la valutazione della conferma o meno delle statuizioni civili a suo carico, si sia rivelata contraddittoria o insufficiente e tale da non superare la soglia del ragionevole dubbio.
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Il possibile contrasto tra le Sezioni Unite Tettamanti e la Sentenza n. 182/2021 della Corte Costituzionale.
Tanto premesso, la Suprema Corte ha osservato come, in effetti, tale modus operandi possa porsi in contrasto con la pronuncia della Corte costituzionale n. 182 del 7/7/2021.
La Consulta, con tale pronuncia, aveva affrontato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 578 c.p.p., a fronte del possibile contrasto con l'art. 117 comma 1 Cost., in relazione all'art. 6 paragrafo 2 CEDU, nonché con lo stesso art. 117 comma 1 e con l'art. 11 Cost., in relazione agli artt. 3 e 4 della direttiva UE 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, e all'art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
In tale occasione, i giudici rimettenti avevano sollevato il sospetto che tale disposizione - "nella parte in cui stabilisce che, quando nei confronti dell'imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello, nel dichiarare estinto il reato per prescrizione, decide sull'impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli effetti civili" - violasse il diritto alla presunzione di innocenza, garantito dalla norma convenzionale - come interpretata dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo - e da quelle dell'ordinamento dell'Unione Europea assunte a parametri interposti. Essa, infatti, imporrebbe al giudice dell'impugnazione di formulare, sia pure in via incidentale ed al solo fine di provvedere sulla domanda risarcitoria, un nuovo giudizio sulla responsabilità penale dell'imputato, sebbene questa sia stata esclusa in ragione della declaratoria di estinzione del reato.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, anche nell'applicazione dell'art. 578 c.p.p. non potrebbe prescindersi dalla formulazione di un implicito giudizio di colpevolezza, al fine di confermare la condanna risarcitoria. Ma, in tal modo, la disposizione censurata poteva ledere, secondo tale tesi, il principio di presunzione di innocenza garantito all'imputato dalla norma convenzionale e da quelle Europee, tutte assunte a parametri interposti; la prima, infatti, come interpretata dalla Corte EDU, escluderebbe la possibilità che in un procedimento successivo a quello penale, conclusosi con un risultato diverso da una condanna, possano essere emessi provvedimenti che presuppongono un giudizio di colpevolezza della persona in ordine al reato precedentemente contestatole; le seconde, alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea, imporrebbero agli Stati membri di garantire che le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino una persona come colpevole finchè la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata.
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I giudici delle leggi avevano, tuttavia, ritenuto non fondata tale questione proposta, esprimendo, tramite una sentenza interpretativa di rigetto, una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 578 c.p.p..
La Corte costituzionale aveva premesso che l'art. 578 c.p.p. "mira a soddisfare un'esigenza di tutela della parte civile; quella che, quando il processo penale ha superato il primo grado ed è nella fase dell'impugnazione, una risposta di giustizia sia assicurata, in quella stessa sede, alle pretese risarcitorie o restitutorie della parte civile anche quando non possa più esserci un accertamento della responsabilità penale dell'imputato ove questa risulti riconosciuta in una sentenza di condanna, impugnata e destinata ad essere riformata o annullata per essere, nelle more, estinto il reato per prescrizione".
I giudici delle leggi, quindi, dopo avere illustrato la portata e il significato del diritto alla presunzione di innocenza nell'ordinamento convenzionale e in quello Europeo, avevano rilevato che: "occorre ora verificare se il giudice dell'appello penale, che, in applicazione della disposizione censurata, è chiamato a decidere sull'impugnazione ai soli effetti civili dopo aver dichiarato l'estinzione del reato, debba effettivamente procedere ad una rivalutazione complessiva della responsabilità penale dell'imputato, nonostante l'intervenuta estinzione del reato per prescrizione e il proscioglimento dall'accusa penale". La risposta fornita dalla Consulta era stata che: "In realtà (...) si ha che, nella situazione processuale di cui alla disposizione censurata, che vede il reato essere estinto per prescrizione e quindi l'imputato prosciolto dall'accusa, il giudice non è affatto chiamato a formulare, sia pure incidenter tantum, un giudizio di colpevolezza penale quale presupposto della decisione, di conferma o di riforma, sui capi della sentenza impugnata che concernono gli interessi civili".
Successivamente, si era aggiunto che: "Anzitutto, un tale giudizio non è richiesto dal tenore testuale della disposizione censurata (art. 578 c.p.p.) che, a differenza di quella immediatamente successiva (art. 578-bis c.p.p.), non prevede il "previo accertamento della responsabilità dell'imputato". Ed ancora, la Corte aveva affermato: "Inoltre tale esegesi - a ben vedere non trova ostacolo nella giurisprudenza di legittimità che il giudice rimettente richiama a fondamento delle sue censure di illegittimità costituzionale con riferimento sia ai rapporti tra l'immediata declaratoria delle cause di non punibilità e l'assoluzione per insufficienza o contraddittorietà della prova (artt. 129 e 530, comma 2, c.p.p.), sia all'individuazione del giudice competente per il giudizio di rinvio in seguito a cassazione delle statuizioni civili (art. 622 c.p.p.), sia all'impugnabilità con revisione (art. 630, comma 1, lettera c, c.p.p.) della sentenza del giudice di appello di conferma della condanna risarcitoria in seguito a proscioglimento dell'imputato per prescrizione del reato. Da una parte il principio di diritto (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 maggio-15 settembre 2009, n. 35490) - secondo cui, in deroga alla regola generale, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, quando, in sede di appello, sopravvenuta l'estinzione del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili - presuppone, per un verso, il carattere "pieno" o "integrale" della cognizione del giudice dell'impugnazione penale (il quale non può limitarsi a confermare o riformare immotivatamente le statuizioni civili emesse in primo grado, ma deve esaminare compiutamente i motivi di gravame sottopostigli, avuto riguardo al compendio probatorio e dandone poi conto in motivazione); per altro verso, non presuppone (né implica) che il giudice, nel conoscere della domanda civile, debba altresì formulare, esplicitamente o meno, un giudizio sulla colpevolezza dell'imputato e debba effettuare un accertamento, principale o incidentale, sulla sua responsabilità penale, ben potendo contenere l'apprezzamento richiestogli entro i confini della responsabilità civile".
La Suprema Corte ha quindi rilevato come il punto nodale della pronuncia costituzionale, che permise ai giudici delle leggi di ritenere l'art. 578 c.p.p. costituzionalmente legittimo consista nell'interpretazione dello stesso nel senso che: "Il giudice dell'impugnazione penale, nel decidere sulla domanda risarcitoria, non è chiamato a verificare se si sia integrata la fattispecie penale tipica contemplata dalla norma incriminatrice, in cui si iscrive il fatto di reato di volta in volta contestato; egli deve invece accertare se sia integrata la fattispecie civilistica dell'illecito aquiliano (art. 2043 c.c.). Con riguardo al ‘fatto, come storicamente considerato nell'imputazione penale, il giudice dell'impugnazione è chiamato a valutarne gli effetti giuridici, chiedendosi, non già se esso presenti gli elementi costitutivi della condotta criminosa tipica (commissiva od omissiva) contestata all'imputato come reato, contestualmente dichiarato estinto per prescrizione, ma piuttosto se quella condotta sia stata idonea a provocare un ‘danno ingiusto secondo l'art. 2043 c.c., e cioè se, nei suoi effetti sfavorevoli al danneggiato, essa si sia tradotta nella lesione di una situazione giuridica soggettiva civilmente sanzionabile con il risarcimento del danno. Nel contesto di tale cognizione rilevano sia l'evento lesivo della situazione soggettiva di cui è titolare la persona danneggiata, sia le conseguenze risarcibili della lesione, che possono essere di natura sia patrimoniale che non patrimoniale".
Ancora, la Corte Costituzionale aveva affermato: "La natura civilistica dell'accertamento richiesto dalla disposizione censurata al giudice penale dell'impugnazione, differenziato dall'(ormai precluso) accertamento della responsabilità penale quanto alle pretese risarcitorie e restitutorie della parte civile, emerge riguardo sia al nesso causale, sia all'elemento soggettivo dell'illecito. Il giudice, in particolare, non accerta la causalità penalistica che lega la condotta (azione od omissione) all'evento in base alla regola dell'"alto grado di probabilità logica" (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 10 luglio-11 settembre 2002, n. 30328). Per l'illecito civile vale, invece, il criterio del ‘più probabile che non' o della ‘probabilità prevalente che consente di ritenere adeguatamente dimostrata (e dunque processualmente provata) una determinata ipotesi fattuale se essa, avuto riguardo ai complessivi risultati delle prove dichiarative e documentali, appare più probabile di ogni altra ipotesi e in particolare dell'ipotesi contraria (in tal senso è la giurisprudenza a partire da Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 11 gennaio 2008, n. 576, n. 581, n. 582 e n. 584)".
I giudici delle leggi avevano, infine, osservato che: "L'autonomia dell'accertamento dell'illecito civile non è revocata in dubbio dalla circostanza che esso si svolga dinanzi al giudice penale e sia condotto applicando le regole processuali e probatorie del processo penale (art. 573 c.p.p.). L'applicazione dello statuto della prova penale è pieno e concerne sia i mezzi di prova (sarà così ammissibile e utilizzabile, ad esempio, la testimonianza della persona offesa che nel processo civile sarebbe interdetta dall'art. 246 c.p.c.), sia le modalità di assunzione della prova (le prove costituende saranno così assunte per cross examination ex art. 499 c.p.p. e non per interrogatorio diretto del giudice), le quali ricalcheranno pedissequamente quelle da osservare nell'accertamento della responsabilità penale: ove ne ricorrano i presupposti, dunque, il giudice dell'appello penale, rilevata l'estinzione del reato, potrà - o talora dovrà (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 gennaio- 4 giugno 2021, n. 22065) - procedere alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale al fine di decidere sull'impugnazione ai soli effetti civili (art. 603, comma 3-bis, c.p.p.)".
Ciò posto, la Consulta aveva concluso che: "Il giudice dell'impugnazione penale (giudice di appello o Corte di cassazione), spogliatosi della cognizione sulla responsabilità penale dell'imputato in seguito alla declaratoria di estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione (o per sopravvenuta amnistia), deve provvedere - in applicazione della disposizione censurata - sull'impugnazione ai soli effetti civili, confermando, riformando o annullando la condanna già emessa nel grado precedente, sulla base di un accertamento che impinge unicamente sugli elementi costitutivi dell'illecito civile, senza poter riconoscere, neppure incidenter tantum, la responsabilità dell'imputato per il reato estinto".
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La stessa sentenza costituzionale, ha rilevato la Corte di Cassazione, al pari dei giudici rimettenti, si era posta il problema della compatibilità con quanto affermato dalle SS.UU. Tettamanti. Tale verifica, tuttavia, in ragione del quesito di costituzionalità proposto, era stata effettuata esclusivamente nell'ottica di accertare se il meccanismo decisionale di cui all'art. 578 c.p.p. consentisse, in presenza di un reato prescritto, allorquando il giudice è chiamato ad operare un vaglio dei profili di responsabilità civile, di far persistere nel processo una valutazione di responsabilità penale. Tale quesito aveva trovato risposta negativa, in virtù dell'interpretazione costituzionale data alla norma.
I giudici di legittimità hanno, nondimeno, osservato come sia rimasto in ombra il tema concernente la compressione dello spazio per l'assoluzione dell'imputato, pur in assenza dell'evidenza della prova dell'innocenza di cui all'art. 129, comma 2, c.p.p., a fronte di un compendio probatorio che non consenta di superare il limite del ragionevole dubbio.
La sentenza costituzionale n. 182/2021 impone, infatti, al giudice, in casi come quello di specie, di rapportarsi ad una fattispecie di illecito che non coincide più con quella di reato, e impone l'uso della regola di giudizio civilistica del più probabile che non in luogo di quella dell'oltre ogni ragionevole dubbio; laddove la permanente centralità dell'ente reato e la persistente vincolatività della regola di giudizio formulata dall'art. 533 c.p.p. - pur nella delibazione in chiave civilistica sono le premesse della soluzione interpretativa delineata dalla sentenza Tettamanti (cfr. Sez. 4, n. 11193 del 10/02/2015, per la quale "l'azione civile che viene esercitata nel processo penale è quella per il risarcimento del danno patrimoniale o non, cagionato dal reato, ai sensi dell'art. 185 c.p. e 74 cod. proc. pen; con la conseguenza che nella sede civile, coinvolta per effetto della presente pronunzia, la natura della domanda non muta. Si dovrà cioè valutare incidentalmente l'esistenza di un fatto di reato in tutte le sue componenti obiettive e subiettive, alla luce delle norme che regolano la responsabilità penale".
In altri termini, si è osservato, l'interpretazione costituzionalmente orientata della Corte costituzionale certamente garantisce l'imputato rispetto alla possibilità che, in sede di valutazione della responsabilità civile, vengano rappresentati enti giuridici (il reato) e giudizi (di reità) che contrastano con la presunzione di innocenza, rinvigorita dalla dichiarazione di estinzione del reato. Tuttavia, al contempo, essa pare interdire la possibilità dell'assoluzione nel merito in luogo della declaratoria di prescrizione.
D'altro canto, hanno affermato i giudici di legittimità, il riferimento operato dalla Corte costituzionale ad una "declaratoria di estinzione del reato" per sopravvenuta prescrizione emessa dal giudice dell'impugnazione penale non pare in grado di sostenere che l'interpretazione data all'art. 578 c.p.p. trovi applicazione solo nel caso in cui risulti esclusa la possibilità di un'assoluzione nel merito. In tal caso, dovrebbe, infatti, intendersi come se, dapprima, dovesse essere condotta l'indagine secondo le direttive delle Sez. Un. Tettamanti - con quella pienezza ed integralità della cognizione del giudice dell'impugnazione alla quale fa riferimento la sentenza n. 182/2021 - e successivamente, ove esclusa la possibilità di assoluzione nel merito, dovesse farsi applicazione di quelle dettate dalla Corte costituzionale. Nella costante interpretazione della giurisprudenza di legittimità, infatti, "l'accertamento dell'estinzione del reato per prescrizione non prevede una cesura tra esso e la successiva delibazione della domanda civile; detto altrimenti, non vi è alcuna declaratoria di estinzione del reato che anticipi le statuizioni sugli interessi civili. Anzi, è proprio su questo presupposto - della mancanza di una formale declaratoria di estinzione - che, dopo aver incidentalmente rilevato il completo decorso dei termini di prescrizione del reato, il giudice dell'impugnazione, ormai impegnato nella verifica della fondatezza del ricorso ai fini civili, può ritornare sui propri passi e concludere formalizzando la sola pronuncia assolutoria. Si deve credere che, ove effettivamente implicata, la portata della innovazione avrebbe senz'altro indotto la Corte costituzionale ad esplicitare a chiare lettere il diverso percorso processuale conseguente all'interpretazione data all'art. 578 c.p.p.."
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Tanto premesso, la Corte di Cassazione ha ritenuto come, nell'ottica della sentenza n. 182/2021, il motivo di ricorso proposto dalle parti civili sia fondato. Il giudice di appello, infatti, trovatosi di fronte ad un reato prescritto, adottando la lezione della Corte Costituzionale, avrebbe dovuto:
1. ai fini penali, valutata l'insussistenza dell'evidenza della prova dell'innocenza dell'imputato, concludere per l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
2. ai fini civilistici, valutata la responsabilità dell'imputato in rapporto alla fattispecie dell'illecito aquiliano, applicata la regola di giudizio del più probabile che non, pronunciarsi unicamente sul diritto delle parti civili al risarcimento del danno.
All'inverso, si è osservato, il motivo risulterebbe infondato facendo applicazione del principio espresso dalle Sezioni Unite Tettamanti, essendosi la Corte distrettuale, nel caso di specie, attenuta ad esso.
La Corte di Cassazione, a fronte di tale riflessione in ordine al rapporto tra le pronunce del giudice delle leggi e quello di legittimità, ha, inoltre, rilevato come il thema decidendi imponga una riflessione circa il valore, vincolante o meno, delle sentenze interpretative di rigetto della Corte Costituzionale: pronunce con cui i giudici delle leggi, nel comporre il denunciato contrasto tra la norma di legge ordinaria e il contenuto delle norme costituzionali, indicano il percorso interpretativo idoneo ad evitare la demolizione della norma di legge ordinaria.
Sul punto, si è osservato come, sul tema del valore ermeneutico di tali pronunce, ancora recentemente si sia sottolineata (Sez. 1, n. 27696 del 1/04/2019, Immobiliare Peonia) l'insussistenza di ragioni per discostarsi dall'insegnamento offerto da Sez. U. n. 25 del 16/12/1998, dep. 1999, Alagni, circa il dovere del giudice comune di uniformare l'interpretazione di una decisione ai contenuti di una simile decisione del giudice delle leggi, salva l'emersione di validi motivi contrari di cui occorre fornire una puntuale e rafforzata spiegazione.
Tali motivi, hanno affermato i giudici di legittimità, non appaiono sussistenti nel caso di specie, ritenendo il Collegio che, per quanto interpretativa di rigetto, la sentenza n. 182/2021 della Consulta costituisca termine di riferimento non eludibile, atteso che "la soluzione rinvenuta appare comporre in un ragionevole equilibrio i diversi valori in gioco, ponendosi nella linea di tendenza anche normativa di una sempre più evidente distinzione tra azione penale e azione civile" (al riguardo, Sez. Un. 22065 del 28/01/2021, Cremonini, nonché, si è evidenziato, l'impianto complessivo della stessa Riforma Cartabia); inoltre, la pronuncia delle Sez. Un. Tettamanti appare espressione di un diritto vivente, per il quale la presunzione di innocenza non è chiamata a svolgere, nell'ambito dei rapporti tra azione penale ed azione civile, il ruolo di principio ordinatore, e si inscrive in un contesto culturale che trasmette all'azione civile le regole del giudizio penale in cui è stata ospitata (sul punto, Sez. Un., n. 6141 del 25/10/2018, dep. 2019, Milanesi: "Non può dubitarsi che la decisione che accoglie l'azione civile esercitata nel processo penale costituisca una pronunzia di condanna che presuppone l'accertamento della colpevolezza dell'imputato per il fatto di reato, secondo quanto espressamente stabilito dagli artt. 538 e 539 c.p.p., e che, dunque, in presenza di siffatta situazione processuale, all'imputato debba essere riconosciuto lo status di soggetto "condannato", sia pure soltanto alle restituzioni ed al risarcimento del danno").
Pertanto, ha affermato la Suprema Corte, la decisione cui si dovrebbe pervenire nel caso di specie si contrapporrebbe al decisum di Sez. Un. Tettamanti, dovendone disapplicare il principio secondo cui all'esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, quando, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili.
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Ciò posto, si è inoltre rilevato come la L. 23 giugno 2017, n. 103 abbia dettato nuove regole in materia di rapporti tra sezioni unite e sezioni semplici, introducendo con il nuovo comma 1-bis dell'art. 618 c.p.p. un'ipotesi di rimessione "obbligatoria", che scatta ogni qual volta una delle sezioni semplici ritenga di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite. Tale norma, si è osservato, trova evidente applicazione anche nel caso di novum che dipenda da una sentenza interpretativa di rigetto della Corte costituzionale. A sostegno di tale tesi, si è sottolineato come deponga, in primo luogo, la lettera dell'art. 618 comma 1 bis, c.p.p. che non discrimina le ragioni su cui si fonda l'opposizione al precedente; in secondo luogo, si è affermato come debba essere considerata la diversa disciplina prevista dal comma 1 dell'art. 618 c.p.p., che per il caso di contrasto giurisprudenziale, in essere o potenziale, alimentato da pronunce delle sezioni semplici, definisce una ipotesi di rimessione discrezionale ("... può con ordinanza rimettere alle sezioni unite"). Inoltre, all'indomani della riforma apportata dalla L. n. 103 del 2017, anche la dottrina ha evidenziato che, a parte il meccanismo previsto dall'art. 610 c.p.p., accanto alla rimessione facoltativa è stata introdotta, con il comma 1-bis dell'art. 618, un'ipotesi di rimessione obbligatoria, il cui scopo è quello di rafforzare il ruolo assegnato alle sezioni unite nella funzione nomofilattica. Tale obbligatorietà della rimessione non trova eccezioni; piuttosto, si è rilevato, l'ampiezza dell'obbligo sembra dipendere dall'interpretazione della locuzione ‘principio di diritto enunciato, leggibile nella disposizione de qua.
Anche su tale punto, ha rilevato la Corte, si è già registrato un duplice orientamento.
Secondo un primo orientamento, più restrittivo, espresso da Sez. 1 n. 49744 del 7/12/2022, Petrillo, il vincolo riguarda esclusivamente l'oggetto del contrasto interpretativo rimesso e non si estende ai temi accessori o esterni (nella specie, la Corte ha ritenuto tema accessorio, rispetto alla questione devoluta e decisa dalle Sezioni Unite con sentenza n. 8545 del 19 dicembre 2019, avente ad oggetto la natura oggettiva o soggettiva della circostanza aggravante finalistica di cui all'art. 416-bis.1 c.p., quello del concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso).
Secondo altra pronuncia, invece, in tema di giudizio di legittimità, il principio di diritto affermato dalle sentenze delle Sezioni Unite della Corte di cassazione è vincolante, ai sensi dell'art. 618 comma 1-bis, c.p.p., anche in relazione agli aspetti preliminari e conseguenziali ad esso, ancorché relativi a profili non specificamente devoluti ma che si rendano, tuttavia, necessari per meglio delimitare il significato e la portata applicativa del principio stesso che, in tal modo, riveste carattere unitario (Sez. 6, n. 23148 del 20/01/2021 Bozzini).
Ciò posto, la Corte ha rilevato come, nel caso di specie, non si sia posto il problema di aderire ad uno dei due orientamenti, in quanto il dissenso attiene esattamente al principio di diritto espresso dalle Sez. Un. Tettamanti.
Sulla base di tali motivazioni, la Corte ha pertanto rimesso alle Sezioni Unite la decisione del ricorso.