In materia di responsabilità medica, la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 34536, pronunciata all'udienza del 27 giugno 2023 (deposito motivazioni in data 7 agosto 2023), ha preso in esame il tema della cooperazione colposa tra primario e dirigente medico.
Il fatto.
Il Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Campobasso proponeva ricorso avverso la sentenza con cui la locale Corte territoriale, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva assolto un dirigente medico, in servizio presso l'unità operativa di neurochirurgia di una struttura ospedaliera, dal reato di omicidio colposo, confermando invece la condanna nei confronti del coimputato, direttore dell'Unità operativa di Neurochirurgia del medesimo nosocomio.
Nella fattispecie, una paziente era stata trasportata d'urgenza presso una struttura ospedaliera, ove le era stata diagnosticata, al pronto soccorso, un'emorragia cerebrale; di seguito, era stata indirizzata presso il reparto di neurochirurgia, ove era emerso un quadro clinico di emorragia sub aracnoidea con sospetto aneurisma della arteria comunicante anteriore, e si era evidenziato un iniziale idrocefalo.
Il giorno successivo, l'imputata dirigente medico, in servizio presso il reparto, aveva richiesto un'angiografia cerebrale urgente, e di tale richiesta aveva informato anche il primario facente funzioni, coimputato. Dall'esame angiografico era quindi emerso un aneurisma cerebrale nella comunicante anteriore. Dopo un periodo di condizioni stazionarie - successivo ad un intervento di embolizzazione della sacca aneurismatica ed alla risoluzione della emorragia sub aracnoidea - si era disposto che la paziente fosse trasferita presso altro ospedale, ma il giorno prima del trasferimento i figli della donna erano stati informati della necessità di eseguire un intervento urgente, consistente in "derivazione liquorale dell'idrocefalo". A seguito dell'intervento, eseguito in una situazione di conclamata evoluzione negativa e irrimediabilmente compromessa, la paziente era quindi entrata in coma e, dopo un lungo stato vegetativo, era deceduta.
Agli imputati era stato ascritto di aver agito con colpevole ritardo ed in violazione delle linee guida, che prescrivevano di intervenire entro le 72 ore nei pazienti affetti da ESA, avendo colpevolmente ritardato l'esecuzione dell'angiografia e l' intervento di embolizzazione interna. Al solo dirigente medico era stato contestato di non essersi avveduta della problematica relativa a idrocefalo, già evidenziata in fase iniziale, nella TC eseguita all' ingresso in ospedale, nonostante le due consulenze richiestale, e di non aver disposto l' intervento appropriato di derivazione liquorale, eseguito tardivamente da altro sanitario.
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All'esito del giudizio di primo grado, era stata riconosciuta la colpevolezza di entrambi gli imputati. Era, infatti, risultato pacifico come la struttura ospedaliera non disponesse di un reparto attrezzato per eseguire l'esame angiografico, e come, a tal fine, disponesse di una convenzione con altro nosocomio, che però non assicurava l' intervento in urgenza; pertanto, al fine di intervenire nelle 72 ore, come prescritto dalle linee guida, doveva essere valutato e disposto il trasferimento della paziente presso una struttura sanitaria in grado di far fronte alla patologia in atto. L'atto da compiere in assoluta urgenza, idoneo a scongiurare l'evento, secondo quanto ritenuto dal Tribunale, sarebbe stato l'angiografia urgente con il successivo intervento di embolizzazione dell'aneurisma. Pertanto, l'imputata dirigente medico, la quale, dopo aver richiesto l'angiografia urgente, pur sapendo delle carenze strutturali dell'ospedale, non aveva sollecitato l'adozione di misure idonee a trattare tempestivamente la stessa, aveva assunto una condotta palesemente negligente. A sua volta, il primario del reparto di neurochirurgia, avvisato della richiesta urgente dalla collega, e delle condizioni della paziente, avrebbe dovuto adoperarsi affinché le fossero prestate con urgenza le necessarie cure.
La Corte d'appello, invece, pur confermando la ricostruzione del giudice di prime cure in ordine al nesso di causalità tra la condotta omissiva e l'evento, aveva assolto il dirigente medico, atteso che non era stato dimostrato che la medesima avesse avuto "l'affidamento esclusivo" della paziente medesima. La Corte aveva confermato invece la condanna del primario, che avrebbe dovuto provvedere tempestivamente al trasferimento della paziente, al fine di eseguire l'intervento di embolizzazione.
Tramite il proprio ricorso, il Procuratore generale lamentava una violazione di legge, per avere la Corte territoriale assolto il dirigente medico, sulla base della ritenuta, erronea, insussistenza di una posizione di garanzia in capo alla medesima. In particolare, i giudici d'appello avevano errato nel ritenere necessaria la prova che l'imputata avesse avuto incarico di seguire "in via esclusiva" l'evoluzione della paziente dopo il ricovero. Tale assunto, infatti, si poneva in contrasto con la consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui, avvenuta la presa in carico del paziente, ricoverato nel reparto di appartenenza, il medico riveste una posizione di garanzia, e non è necessario alcun affidamento in via esclusiva.
La decisione.
La Suprema Corte ha ritenuto fondato il motivo di ricorso proposto dal Procuratore Generale, osservando come la motivazione della Corte territoriale - ove si affermava che: "non consta, con la necessaria univocità probatoria, che l'imputata abbia personalmente avuto affidamento di seguire in via esclusiva l'evoluzione della paziente nei giorni immediatamente successivi al 25 settembre 2010, quando si era ancora in tempo per arrestare l' ingravescente idrocefalo post emorragico della medesima inferma" - contrasti con i principi ripetutamente affermati in materia di responsabilità medica. Sul punto, si è infatti rilevato come, nelle ipotesi di assunzione di posizioni di garanzia e successione di più garanti nella gestione dei pazienti, è pacifico il principio per cui ciascun garante risponde del rispettivo comportamento doveroso omesso (Sez. 4, n. 1175 del 02/10/2018; Sez. 4, n. 6405 del 22/01/2019). Si è, inoltre, aggiunto che, qualora ricorra l'ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all'osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico. Da ciò consegue che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l'attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio.
Ed ancora, si è ricordato come non possa invocare il principio di affidamento l'agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l'altrui condotta colposa, poiché, allorquando il garante precedente abbia posto in essere una condotta colposa che abbia avuto efficacia causale nella determinazione dell'evento, unitamente alla condotta colposa del garante successivo, persiste la responsabilità anche del primo in base al principio di equivalenza delle cause, a meno che possa affermarsi l'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che deve avere carattere di eccezionalità ed imprevedibilità, ciò che si verifica solo allorquando la condotta sopravvenuta abbia fatto venire meno la situazione di pericolo originariamente provocata o l'abbia in tal modo modificata da escludere la riconducibilità al precedente garante della scelta operata (Sez. 4, n. 46824 del 26/10/2011, Castellano; Sez. 4, n. 30991 del 06/02/2015; Sez. 4, n. 24895 del 12/05/2021).
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Ciò premesso con riguardo ai principi giurisprudenziali in materia, i giudici di legittimità hanno rilevato come, nel caso di specie, fosse stato accertato che l'imputata, dirigente medico del reparto di neurologia ove era stata ricoverata la paziente, aveva visitato la medesima il giorno successivo al ricovero, e prescritto con urgenza l'angiografia con embolizzazione, prendendo quindi in carico la paziente medesima, instaurando una relazione terapeutica con la stessa ed assumendo, quindi, una posizione di garanzia (Sez. 4, n. 10819 del 04/03/2009; Sez. 4, n. 15178 del 12/01/2018). Inoltre, era stato accertato nel corso del giudizio di merito come il primario fosse stato avvisato delle condizioni di salute della paziente e dell'urgenza dell' intervento di angiografia, assumendo quindi a sua volta una posizione di garanzia che, in ragione dei poteri rivestiti, lo avrebbe obbligato a disporre il trasferimento della paziente presso altra struttura in grado di eseguire tale intervento. Il Collegio ha dunque confermato, sulla base delle peculiarità del caso, la sussistenza di una specifica posizione di garanzia del primario, il quale normalmente non assume la gestione diretta dei pazienti, restando responsabile soltanto della struttura e dell'organizzazione del reparto (Sez. 4, n. 10152 del 02/03/2021; Sez. 4, n. 18334 del 21/06/2017). In tale fattispecie, infatti, il primario era stato direttamente investito proprio dalla segnalazione della coimputata della necessità di eseguire un intervento di angiografia, che non poteva pacificamente essere effettuato presso il nosocomio presso cui si trovava la paziente.
Ciò posto, la Corte ha quindi affermato come alla posizione di garanzia nella gestione della paziente assunta dal dirigente medico, attraverso la presa in carico della donna, si è certamente aggiunta l'assunzione di altra posizione di garante da parte del primario del reparto, che avrebbe dovuto attivare i propri specifici poteri organizzativi, ben conoscendo le carenze strutturali del reparto di cui era al vertice.
Tale, ulteriore figura di garante non poteva, tuttavia, esimere il dirigente medico, in forza della precedente presa in carico della paziente, dall'obbligo di monitorare le condizioni di salute della paziente nei giorni successivi al ricovero. Sul punto - hanno infatti osservato i giudici di legittimità - l' intervento di angiografia con embolizzazione, come accertato dai giudici di merito, sarebbe intervenuto in tempo utile se eseguito almeno entro la giornata in cui l'imputata era presente in reparto dalle 8 del mattino. Dunque, quest'ultima, perfettamente edotta della situazione clinica della paziente, avendo ella stessa prescritto un esame che sapeva non eseguibile presso l'ospedale presso cui era collocata la paziente, avrebbe dovuto assicurarsi dell'effettiva adozione delle necessarie misure perché l'esecuzione dell'angiografia fosse posta in essere, senza fare affidamento sull'operato del primario. Ciò in base al predetto principio giurisprudenziale, a mente del quale ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l'attività precedente o contestuale svolta da altro collega, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista.
L'imputata, dunque, avrebbe dovuto controllare se l'intervento da lei stessa prescritto fosse stato eseguito o, come detto, attivarsi per disporne l'esecuzione urgente. Peraltro, ha osservato la Corte, il Tribunale, a differenza dei giudici d'appello, si era espresso con riguardo ai poteri del dirigente medico della competente Unità Operativa - quale era l'imputata - relativamente al trasferimento dei pazienti, chiarendo come, oltre certamente al primario, anche il medico in posizione di dirigente abbia, in concreto, il potere di disporre il trasferimento dei pazienti ad altro nosocomio, previa autorizzazione del direttore sanitario.
Sulla base di tali motivazioni, la Suprema Corte ha pertanto annullato con rinvio la sentenza, in riferimento alla posizione dell'imputata.