La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 39733, pronunciata all'udienza del 19 luglio 2018 (deposito motivazioni in data 4 settembre 2018), ha preso in esame una fattispecie di responsabilità medica c.d. d'equipe.
Il giudizio di legittimità è stato introdotto da un imputato avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello di Genova aveva confermato la pronuncia di condanna emessa nei suoi confronti dal Tribunale di Savona per il delitto di cui all'art. 590 c.p.. All'imputato era stato contestato, nell'esercizio della propria professione sanitaria, ed in cooperazione colposa con un collega primario, di aver cagionato lesioni gravissime ad un paziente: in particolare, nel corso di un intervento laparoscopico di rimozione di una cisti splenica, era stata erroneamente effettuata una nefrectomia, con asportazione del rene sinistro in paziente monorene.
La Corte d'Appello, rilevando come l'imputato non avesse contestato l'errore del primo chirurgo che asportò il rene, in quanto tratto in inganno dalla calcolosi a stampo che interessava l'organo, aveva stabilito come il profilo di colpa riconoscibile in capo all'imputato poteva essere qualificato come negligenza, per difetto di attenzione nella visione del campo operatorio: egli non si era infatti accorto del fatto che il primo operatore stesse asportando il rene.
L'imputato fondava il proprio ricorso su due motivi, contestando violazione di legge in relazione alla c.d. responsabilità d'equipe ed ai principi in tema di cooperazione nel delitto colposo.
Nel ricorso si rilevava come nell'ambito dell'operazione, di particolare complessità, stante una difformità anatomica del rene, all'imputato era stato assegnato il compito di direzionare la telecamera nelle zone indicategli dal primo operatore; la recisione errata del rene era tuttavia avvenuta con un gesto chirurgico repentino e non preannunciato.
Pertanto - si argomentava - a carico del secondo operatore non poteva sussistere alcun profilo di responsabilità: a tal fine l'imputato menzionava alcune pronunce della giurisprudenza di legittimità in tema di legittimo affidamento nell'ambito dell'attività medico-chirurgica d'equipe e sosteneva come non sussistesse alcun nesso di causalità tra la propria condotta e l'evento lesivo; la pronuncia di condanna estremizzava invece l'obbligo di vigilanza reciproca che grava sui componenti di un'equipe chirurgica.
Con un secondo motivo di ricorso, il medico contestava invece la mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 590 sexies c.p. Egli si era infatti sempre attenuto alle linee guida adeguate al caso di specie, ma nel giudizio di merito tale aspetto non era mai stato considerato. L'imputato chiedeva quindi l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata ai fini di accertare la sussistenza di tale causa di non punibilità nonché la sua applicabilità anche ai fatti precedenti alla sua entrata in vigore nel 2017.
La Suprema Corte ha innanzitutto premesso come, in tema di colpa professionale, e nell'ambito di un intervento chirurgico in equipe, la giurisprudenza di legittimità abbia stabilito come "il principio per cui ogni sanitario è tenuto a vigilare sulla correttezza dell'attività altrui, se del caso ponendo rimedio ad errori che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio, non opera in relazione alle fasi dell'intervento in cui i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti, dovendo trovare applicazione il diverso principio dell'affidamento per cui può rispondere dell'errore o dell'omissione solo colui che abbia in quel momento la direzione dell'intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica, non potendosi trasformare l'onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui".
La Corte ha poi aggiunto come tale principio sia coerente con quello per cui l'obbligo di diligenza gravante su ciascun membro dell'equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull'operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali: errori dunque rilevabili mediante le comuni conoscenze del professionista medio. Sulla base di tale secondo principio la Corte di Cassazione ha per esempio confermato una sentenza di condanna per il reato di omicidio colposo a carico, oltre che del ginecologo, anche delle ostetriche, in considerazione del fatto che l'errore commesso dal ginecologo nel trascurare i segnali di sofferenza fetale non esonerava le ostetriche dal dovere di segnalare il peggioramento del tracciato cardiotocografico, in quanto tale attività rientrava nelle competenze di entrambe le figure professionali operanti in equipe.
Infine, i giudici di legittimità hanno ricordato come il medico componente dell'equipe chirurgica, in posizione di secondo operatore, qualora non condivida le scelte del primario adottate nel corso dell'intervento, ha l'obbligo, per esimersi da responsabilità, di rappresentare espressamente il proprio dissenso, pur non essendo necessarie, a tal fine, particolari forme di manifestazione dello stesso.
Tanto premesso, la Corte ha osservato, in relazione alla fattispecie in esame, come nella sentenza impugnata si fosse rilevato che la tecnica laparoscopica utilizzata dai medici rendeva dirimente il corretto uso della telecamera, unico strumento tale da consentire agli operatori la visione del campo operatorio, e dell'uso del quale era stato incaricato l'imputato.
Il secondo operatore era dunque stato ritenuto responsabile per colpa consistente in negligenza, a causa di difetto di attenzione nella visione del campo operatorio ovvero di imperizia, non essendo stato capace di indentificare il rene e di accorgersi di come il collega stesse asportando tale organo anziché la cisti splenica.
I giudici di merito avevano infatti accertato, mediante perizia, che lo scollamento del rene dalla sua capsula aveva avuto inizio al tredicesimo minuto e che l'avulsione dell'organo era stata completata al ventiduesimo minuto. Pertanto, la Corte d'Appello aveva affermato la responsabilità dell'imputato in relazione all'esito infausto dell'intervento sulla base delle considerazioni per cui tra i compiti del secondo operatore vi era proprio quello di facilitare la visione e l'esposizione delle strutture anatomiche ed il primario, contrariamente a quanto sostenuto dal collega, non aveva praticato l'avulsione del rene improvvisamente.
In conclusione, la Corte d'Appello aveva osservato come l'aiuto chirurgo avrebbe dovuto segnalare ciò che stava avvenendo: egli senza sostituirsi al primario, era tenuto a garantire con la telecamera la visione del campo chirurgico durante l'accesso laparoscopico, e ad accorgersi di quanto stava avvenendo, a fronte dell'errore evidente che stava commettendo il primario. Ciò non era invece avvenuto, a causa di una negligente disattenzione nella visione del campo operatorio nonché per un elevato grado di imperizia, che aveva determinato la mancata identificazione del rene, quale reale organo su cui stava intervenendo il primo operatore.
La Suprema Corte ha ritenuto come tali valutazioni espresse dalla Corte d'Appello siano tali da poter affermare la responsabilità colposa dell'imputato, in relazione ai principi di diritto di cui in premessa, condividendo le conclusioni del giudice di secondo grado, così riassunte: "i giudici di merito, nei termini ora richiamati, hanno apprezzato la sussistenza di profili di colpa per negligenza, riferibili alla condotta dell'aiuto chirurgo che omise di segnalare quanto stava avvenendo, nel corso dell'intervento. Non sfugge che in sentenza si afferma pure che, alternativamente, la condotta del ricorrente può integrare una gravissima colpa per imperizia, posto che nel caso di specie l'uso della tecnica laparoscopica coinvolgeva direttamente l' A., al quale era stato affidato il compito di garantire con la telecamera la visione del campo chirurgico. Si tratta, peraltro, di un mero artificio retorico, funzionale a lumeggiare l'indice di gravità della accertata negligenza; convince di tanto considerare che i giudici di secondo grado hanno sottolineato che l'avulsione del rene venne realizzata dal primo operatore nell'arco di un significativo arco temporale e non improvvisamente, modalità che avrebbe consentito all'aiuto chirurgo di segnalare quanto stava avvenendo, ove avesse prestato la dovuta attenzione nel visionare costantemente il campo operatorio, ad addome chiuso, mediante la telecamera a lui affidata".
Inoltre - hanno osservato i giudici di legittimità - la Corte d'Appello non ha neppure omesso di effettuare un ragionamento di natura controfattuale, in relazione all'utilità del comportamento lecito. Se infatti l'imputato avesse segnalato al primario l'errore evidente in cui stava incorrendo, egli avrebbe certamente effettuato diverse valutazioni, tali da scongiurare l'asportazione dell'unico rene di cui il malato disponeva.
In relazione al secondo motivo di ricorso, la Corte ha escluso l'applicabilità dell'invocata causa di non punibilità, essendo stati accertati, nel giudizio di merito, profili di colpa per negligenza in capo all'imputato, tali dunque da collocarsi al di fuori dell'ambito applicativo della norma di cui all'art. 590 sexies c.p..
I giudici di legittimità hanno dunque colto l'occasione per ricordare come le Sezioni Unite, con la recente Sentenza n. 8770 del 21 dicembre 2017, abbiano affermato come la causa di non punibilità in oggetto sia relativa alle sole ipotesi in cui il sanitario abbia individuato e adottato linee guida adeguate al caso concreto e versi in colpa lieve da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse. Essa non è dunque applicabile ai casi di colpa da imprudenza e da negligenza ed alle ipotesi di colpa grave da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle linee guida.
In ogni caso - ha osservato il Collegio - la Corte d'Appello ha riconosciuto nella condotta dell'imputato un grado di colpa particolarmente elevato, circostanza tale da escludere comunque l'operatività dell'art. 590 sexies c.p. nella fattispecie in esame, precludendo pertanto un approfondimento circa l'osservanza delle raccomandazioni contenute nelle linee guida adeguate al caso di specie.
In relazione invece al tema dell'applicabilità dell'art. 590 sexies c.p. alle fattispecie precedenti alla sua entrata in vigore, la Suprema Corte ha ricordato quanto affermato in proposito dalle Sezioni Unite: "in tema di responsabilità dell'esercente la professione sanitaria, l'abrogato D.L. 158/2012, art. 3 comma 1, convertito dalla l. 189/2012, si configura come norma più favorevole rispetto all'art. 590 sexies c.p., introdotto dalla l. 24/2017, sia in relazione alle condotte connotate da colpa lieve da negligenza o imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve da imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto".
Ciò premesso, si è tuttavia rilevato come il grado elevato di colpa per negligenza riconosciuta in capo all'imputato determini l'inapplicabilità, alla fattispecie in esame, altresì della previgente disciplina in materia di responsabilità dell'esercente la professione sanitaria.
Sulla base di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha pertanto ritenuto infondati entrambi i motivi esposti dall'imputato, rigettando il ricorso.
In conclusione, la Corte d'Appello aveva osservato come l'aiuto chirurgo avrebbe dovuto segnalare ciò che stava avvenendo: egli senza sostituirsi al primario, era tenuto a garantire con la telecamera la visione del campo chirurgico durante l'accesso laparoscopico, e ad accorgersi di quanto stava avvenendo, a fronte dell'errore evidente che stava commettendo il primario. Ciò non era invece avvenuto, a causa di una negligente disattenzione nella visione del campo operatorio nonché per un elevato grado di imperizia, che aveva determinato la mancata identificazione del rene, quale reale organo su cui stava intervenendo il primo operatore.
La Suprema Corte ha ritenuto come tali valutazioni espresse dalla Corte d'Appello siano tali da poter affermare la responsabilità colposa dell'imputato, in relazione ai principi di diritto di cui in premessa, condividendo le conclusioni del giudice di secondo grado, così riassunte: "i giudici di merito, nei termini ora richiamati, hanno apprezzato la sussistenza di profili di colpa per negligenza, riferibili alla condotta dell'aiuto chirurgo che omise di segnalare quanto stava avvenendo, nel corso dell'intervento. Non sfugge che in sentenza si afferma pure che, alternativamente, la condotta del ricorrente può integrare una gravissima colpa per imperizia, posto che nel caso di specie l'uso della tecnica laparoscopica coinvolgeva direttamente l' A., al quale era stato affidato il compito di garantire con la telecamera la visione del campo chirurgico. Si tratta, peraltro, di un mero artificio retorico, funzionale a lumeggiare l'indice di gravità della accertata negligenza; convince di tanto considerare che i giudici di secondo grado hanno sottolineato che l'avulsione del rene venne realizzata dal primo operatore nell'arco di un significativo arco temporale e non improvvisamente, modalità che avrebbe consentito all'aiuto chirurgo di segnalare quanto stava avvenendo, ove avesse prestato la dovuta attenzione nel visionare costantemente il campo operatorio, ad addome chiuso, mediante la telecamera a lui affidata".
Inoltre - hanno osservato i giudici di legittimità - la Corte d'Appello non ha neppure omesso di effettuare un ragionamento di natura controfattuale, in relazione all'utilità del comportamento lecito. Se infatti l'imputato avesse segnalato al primario l'errore evidente in cui stava incorrendo, egli avrebbe certamente effettuato diverse valutazioni, tali da scongiurare l'asportazione dell'unico rene di cui il malato disponeva.
In relazione al secondo motivo di ricorso, la Corte ha escluso l'applicabilità dell'invocata causa di non punibilità, essendo stati accertati, nel giudizio di merito, profili di colpa per negligenza in capo all'imputato, tali dunque da collocarsi al di fuori dell'ambito applicativo della norma di cui all'art. 590 sexies c.p..
I giudici di legittimità hanno dunque colto l'occasione per ricordare come le Sezioni Unite, con la recente Sentenza n. 8770 del 21 dicembre 2017, abbiano affermato come la causa di non punibilità in oggetto sia relativa alle sole ipotesi in cui il sanitario abbia individuato e adottato linee guida adeguate al caso concreto e versi in colpa lieve da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse. Essa non è dunque applicabile ai casi di colpa da imprudenza e da negligenza ed alle ipotesi di colpa grave da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle linee guida.
In ogni caso - ha osservato il Collegio - la Corte d'Appello ha riconosciuto nella condotta dell'imputato un grado di colpa particolarmente elevato, circostanza tale da escludere comunque l'operatività dell'art. 590 sexies c.p. nella fattispecie in esame, precludendo pertanto un approfondimento circa l'osservanza delle raccomandazioni contenute nelle linee guida adeguate al caso di specie.
In relazione invece al tema dell'applicabilità dell'art. 590 sexies c.p. alle fattispecie precedenti alla sua entrata in vigore, la Suprema Corte ha ricordato quanto affermato in proposito dalle Sezioni Unite: "in tema di responsabilità dell'esercente la professione sanitaria, l'abrogato D.L. 158/2012, art. 3 comma 1, convertito dalla l. 189/2012, si configura come norma più favorevole rispetto all'art. 590 sexies c.p., introdotto dalla l. 24/2017, sia in relazione alle condotte connotate da colpa lieve da negligenza o imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve da imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto".
Ciò premesso, si è tuttavia rilevato come il grado elevato di colpa per negligenza riconosciuta in capo all'imputato determini l'inapplicabilità, alla fattispecie in esame, altresì della previgente disciplina in materia di responsabilità dell'esercente la professione sanitaria.
Sulla base di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha pertanto ritenuto infondati entrambi i motivi esposti dall'imputato, rigettando il ricorso.